di Antonio Di Grado – «Mondoperaio», novembre 1975, pp. 82-83.


Non è facile parlare del Politecnico sottraendosi alla tentazione di strumentalizzarne la vicenda per piegarla al proprio angusto «particolare». Non è facile, soprattutto, in questi ultimi anni, che vedono ormai la «politica al primo posto» di sessantottesca memoria felicemente sposata alla tendenza alla sfrenata lottizzazione non solo e non più delle poltrone, ma pure delle idee, dei personaggi o, peggio, dei morti.
Basta guardarsi intorno: Manzoni e Leopardi, debitamente ridimensionati, dibattono sulle nostre riviste pro o contro il compromesso storico, mentre ogni sorta di rivisitazione critica del nostro indiscusso bagaglio culturale (il marxismo nel caso di Colletti, fascismo e antifascismo in quello di De Felice) deve fare i conti, a prescindere da qualche felice eccezione, con gli esorcismi di tanti intellettuali-politici. Nel caso, poi, del Politecnico, gli ingredienti per un ennesimo pastiche in chiave scopertamente strumentale non mancano: primo fra tutti il tema – che percorre tutta la vita della rivista – del rapporto (e del conflitto) tra le ragioni della politica e quelle della elaborazione culturale. Tanto più gradita, allora, una manifestazione di pudore intellettuale quale quella di Franco Fortini che, rinunciando agli allettamenti della memoria e del giudizio, ha commemorato sul Manifesto il trentennale della rivista che fu anche la sua, limitandosi a riportare una lettera inedita di Vittorini.
«Mi sembra di doverti avvertire – gli scriveva questi nell’ottobre del ’48, alla vigilia dell’ultimo numero del Politecnico – anche su un altro pericolo che tu a volte corri. Quello di metterti in posizione di scelta. La posizione di aut aut. In una posizione simile un protestante (come tu sei in effetti e come io sono in potenza) finisce fatalmente per fare il gioco della reazione. Tutto quello che gli è culturalmente più caro si trova protetto (in apparenza) dallo schieramento reazionario, ed egli sa bene che quello è lo schieramento reazionario, ma accetterà di schierarsi con la reazione come Socrate accettò la cicuta, come gli stoici accettavano la morte. Non bisogna, Franco. Non dobbiamo nemmeno dirci «questo o quello». Dobbiamo essere gli uomini del «questo e quello». Cioè della nuova posizione di azione e allo stesso tempo della nuova posizione di coscienza».
È sul filo di questa sottile e feconda ambiguità che il Politecnico si mosse allora e chiede, oggi, di essere ricollocato da chi lo interroga: se al «questo e quello» vittoriniani si sostituiscono da una parte la frequentazione dei classici della grande stagione decadente della cultura europea e quella «lotta contro gli idoli» che fu la mitica scoperta della letteratura americana e, dall’altra, i nuovi doveri civili attorno ai quali la Resistenza e, poi la Ricostruzione chiamarono a raccolta gli intellettuali, assai più chiari appariranno sia la «voglia di perdersi» dell’irrimediabilmente dissociato intellettuale-partigiano Enne 2 di Uomini e no, sia le generose illusioni e lo sperimentalismo spesso confuso e generico del Politecnico.
Limiti, in quell’esperienza, vi furono e c’è chi li ha diligentemente elencati. Ma si trattò di limiti (di spontaneità, di eclettismo) che recavano in sé, rispetto alla qualità irripetibile di quella contingenza storica, altrettanti valori di rinnovamento, dettati come furono da istanze tanto più vitali quanto più inestricabile era il nodo di contraddizioni in esse (e in quello stesso clima) latente. Occorre una volta per tutte evitare di imporre al passato la coscienza del presente; e ciò va detto in riferimento a una serie purtroppo interminabile di operazioni volte ora a fare giustizia sommaria del periodico di Vittorini ora, viceversa, ma con eguale unilateralità, a ritagliarne pretestuosamente alcuni aspetti per esaltarne la valenza «prefigurante».
Il primo dei due assi su cui ruotano principalmente siffatte condanne postume è la critica della concezione «separata» dell’attività culturale, di matrice «solariana» o addirittura crociana, che avrebbe condotto Vittorini e i suoi collaboratori alla incapacità di mettere in discussione la codificazione capitalistica del ruolo del produttore di cultura.
In contrasto con tale ricorrente obiezione, basterebbe ribadire ancora una volta la specificità del ruolo dell’intellettuale, la valenza positiva del suo status ambiguamente diviso fra privilegio e proletarizzazione. Per non citare le notissime affermazioni di Vittorini in proposito, basterà qui riprodurre affermazioni assai più recenti, ma che certo da quella lucida lezione discendono. Penso ad Asor Rosa, quando sottolinea che «tale specificità consiste nell’accumulo di capacità conoscitive, stratificate secondo tradizioni e discipline, e quindi generalmente mistificate, distorte e parziali, ma pur sempre l’unico spettro di rapporto interpretativo con il reale», o ad Umberto Cerroni, che definisce gli intellettuali «uno strato sociale che nella esistente divisione del lavoro svolge un tipo di lavoro che radicalmente contrasta, nel profondo, proprio con il lavoro diviso: è un lavoro specifico che consiste in una funzione generica: del genere umano».
Ma c’è dell’altro: il problema, infatti, va considerato in primo luogo storicamente; e nell’immediato dopoguerra, dopo la fine della dittatura e l’esemplare stagione della lotta armata, la frenesia di conoscenza e di sperimentazione era fatalmente sprovvista tanto della acribia che si può (e si deve) pretendere dalle scelte culturali del presente, quanto di quella lucida coscienza del ruolo che oggi ci è consentita da tre decenni di attività politica in regime democratico, nonché dalla diffusione sempre più massiccia di strumenti culturali adeguati. Non a caso, nel clima spontaneo e contraddittorio degli anni del Politecnico, il Partito comunista si dedicava alla costruzione di una strategia complessiva che mediasse i ruoli tradizionali delle diverse figure sociali presenti nello schieramento democratico di massa.
È, infatti, proprio intorno alla strategia complessiva e alle scelte politico-culturali del PCI che si articola il secondo e più consistente asse degli interventi critici sulla vicenda del periodico di Vittorini. In essi (e valga per tutti l’esempio di un noto pamphlet di Romano Luperini sugli intellettuali di sinistra nel periodo della ricostruzione) si mira sostanzialmente ad attribuire al Politecnico un ruolo di subalternità alle scelte politiche dei comunisti, considerate, con palese schematicità, gradualistiche e rinunciatarie. C’è da credere che nel nostro paese i santi e i navigatori abbiano ormai ceduto il passo agli ideologi: chi, per un residuo affetto alla gretta materialità del dato, vada a rileggersi il Politecnico, si troverà in realtà al cospetto di un panorama di posizioni tanto ampio e problematico da non tollerare un approccio fatto di formule troppo limpide per non essere sospette.
La disponibilità di una rivista aperta ai contributi più diversi, che ospitava con risalto il manifesto programmatico del socialdemocratico austriaco Renner e ne criticava, nella stessa pagina, lo spirito «amministratore» e non «rigeneratore», e che divulgava con pari entusiasmo esistenzialismo, pragmatismo, psicoanalisi, si può spiegare solo se si rinuncia a richiamare, per ogni singola posizione, la politica di questo o quel partito. La «linea» del Politecnico fu sostanzialmente diversa e altra da quella del PCI, ma solo nella misura in cui il periodico assunse sin dall’inizio un taglio diverso, di sperimentazione e di divulgazione culturale e non di elaborazione politica, e un modo di affrontare i problemi (anche politici) che fu, in definitiva, da uomini di cultura (da «culturali» e non da «politici», secondo la terminologia della nota autocritica vittoriniana del ’65).
Uomini come Vittorini, Fortini, Ferrata e gli altri scrivevano con quel furore che aveva le sue radici nel loro tormentato «lungo viaggio attraverso il fascismo»; esercitavano il loro mestiere di intellettuali con lo stesso spirito col quale quei lontani pionieri americani, di cui avevano letto nei libri di Hawthorne o di Faulkner, avevano conquistato la terra palmo e palmo e inventato giorno per giorno l’America, tramandandosi di generazione in generazione, come i fucili e le zappe, così i concetti, le parole, le immagini.
Nelle polemiche che seguirono, non si affrontarono, come qualcuno vorrebbe far credere, due diverse maniere di intendere la transizione al socialismo, né si affrontarono, come vorrebbero altri, «deviazionisti» e «ortodossi» all’interno di una medesima linea politica; la drammaticità e il carattere emblematico della vicenda del Politecnico risiedono viceversa nel mancato incontro fra le ragioni dei politici e quelle, certo astratte, ma necessariamente ambigue nella loro non immediata recuperabilità, degli intellettuali, o, più concretamente, tra il Partito comunista degli anni quaranta e alcuni dei suoi migliori «compagni di strada». Alla sterilità delle partigianerie ideologiche postume va dunque sostituita una corretta analisi di quelle ragioni.
Errato sarebbe, ad esempio, valutare in astratto la politica culturale comunista, evitando di inserirla nel quadro generale della travagliata affermazione del disegno togliattiano del «partito nuovo» contro ogni sorta di resistenze interne (dai residui bordighiani tuttora presenti fra i vecchi militanti e resi più irriducibili dalla dura esperienza della clandestinità, all’inquietudine e alle ansie palingenetiche proprie di tanti giovani intellettuali) ed esterne (dalla rigida ipoteca staliniana all’aspro e logorante scontro frontale cui le sinistre verranno costrette dopo l’esclusione dalla compagine governativa). Da questo complesso e decisivo travaglio scaturì l’impegno con cui il gruppo dirigente comunista si dedicò ai problemi della cultura, aprendo con l’intelighenzia antifascista un confronto sul ruolo che essa era chiamata a sostenere in quel partito di massa che la storia del nostro paese, per lo meno a partire dagli anni trenta, indicava come unico vettore possibile di trasformazione della società; ma, dalla tormentata gestazione di quel disegno, scaturirono anche gli aspetti più negativi di quella politica culturale (dalla non infrequente confusione fra i piani dell’operazione culturale e della prassi politica all’irrigidimento verso correnti di pensiero estranee al marxismo-leninismo).
Queste ombre e queste luci contrassegnarono gli interventi polemici di Alicata e di Togliatti, indubbiamente legittimi sul piano politico, solo che si pensi alla genesi più remota del Politecnico, legata al nome di Eugenio Curiel e al progetto, che fu di quello sfortunato ed esemplare militante, di un «Fronte della cultura» di cui il Politecnico fosse appunto la voce.
La polemica fu franca, aperta, (basta pensare alla lucidità di certe enunciazioni contenute nella risposta di Vittorini a Togliatti) e sollevò questioni cui né Vittorini né i suoi amici potevano, in quel momento, rispondere: di qui l’estinzione della rivista. Ma ad una generazione che vide coincidere il proprio itinerario umano e culturale con vicende drammatiche come il fascismo, l’antifascismo dei Fronti e la ricostruzione, e che, nella rabbiosa volontà di inseguire la storia, dovette bruciare rapidamente quelle esperienze senza poterne sciogliere i nodi di profonda ambiguità, non si può chiedere – forse – una testimonianza più alta, né un contributo più onesto al lavoro di oggi.

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