Il riapparire in Italia, in ogni momento di tensione politica, a trent’anni dalla vittoria della Resistenza, di un movimento fascista, ripropone l’esigenza di un’analisi più accurata di quello che ha rappresentato il fascismo nella storia d’Italia del XX secolo. Il fatto che il popolo italiano in ogni occasione dia ampia dimostrazione, come è avvenuto il 12 maggio, di una forte maturità politica e di una profonda coscienza antifascista, non ci può liberare dall’obbligo di uno sforzo permanente di analisi della realtà italiana. Occorre, perciò, non stancarsi di studiare, con vigile attenzione, il sottosuolo della società italiana nel quale affondano tuttora le radici tenaci di una gramigna velenosa dura a morire. In questo studio assume una particolare importanza la verifica del rapporto tra intellettuali e fascismo. Non a caso, intorno a questo tema, dopo ripetute e vane sollecitazioni e recriminazioni, si è venuto concentrando negli ultimi tempi un vivace dibattito.di Giorgio Amendola - «Rinascita», a. XXXI, n. 23, 7 giugno 1974, pp. 23-25.
Con il libro di Eugenio Garin (Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974) l’analisi del rapporto intellettuali-fascismo è stata posta, finalmente, su basi solide, al di là delle «condanne moralistiche» o delle facili concessioni di alibi e di giustificazioni. Si tratta di riconoscere le correnti di pensiero che hanno concorso, seguendo ciascuna una propria linea di sviluppo, a creare le condizioni culturali che hanno permesso l’avvento del fascismo al potere e la sua trasformazione in regime. Il problema non è infatti quello dell’atteggiamento assunto da questo o da quell’intellettuale di fronte al fascismo, nella innumerevole combinazione di adesioni sincere, di abili dissimulazioni, di trasformazioni opportunistiche o di bassi cedimenti, dettati da viltà o da interessi materiali, quanto quello dell’apporto recato dalle varie correnti della cultura italiana alla vittoria e alla durata del fascismo. Il problema più grave non è tanto quello della resa al fascismo di individui come Giovanni Ansaldo, quanto quello dei motivi che hanno spinto ad una adesione convinta uomini di ben altro valore intellettuale come Giovanni Gentile o Gioacchino Volpe, come Luigi Pirandello o Vilfredo Pareto. Il problema diventa, a questo punto, quello, di fondo, del posto occupato dal fascismo nella storia dell’Italia moderna.
Purtroppo le mutevoli vicende della lotta politica condotta durante tutto l’arco del trentennio repubblicano, e le pur comprensibili considerazioni tattiche di partito, hanno finito coll’imbrogliare le piste, suggerendo, volta a volta, per motivi estranei ad una severa ricerca storica, valutazioni diverse per giudicare i vari comportamenti individuali. Spesso il metro per tale giudizio è stato fornito dalla partecipazione del singolo intellettuale alla Resistenza, considerata come occasione liberatrice di riscatto morale, o, più spesso, dalle posizioni assunte nel corso delle più recenti lotte politiche. Si sono ricercate, e concesse, attenuanti e perdoni, quando il problema non era tanto giudiziario, di condanna o di assoluzione, quanto storico, di comprendere le cause di quei comportamenti. È così mancata, per una sorta di amnistia riservata a chi s’è meritata una menzione di buona condotta politica, quella critica ed autocratica generale, ossia quell’indagine storica che valutasse non i singoli casi, ma il comportamento generale degli intellettuali italiani e riprendesse, alla luce dell’esperienza maturata nella drammatica conclusione del fascismo e della difficile opera di rinnovamento democratico e nazionale, il tema – indicato da Gramsci – di una «ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia [nel secolo scorso]: in altre parole una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro diversi modi di pensare» (Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 1947, p. 27).
A questa ricerca Eugenio Garin ha recato con il suo libro un importante contributo. Garin si è, in verità, impegnato da tempo su questo tema, come dimostrano i suoi precedenti lavori (Cronache della filosofia italiana nel XX secolo, Bari, Laterza, 1955), e in particolare i saggi raccolti qui e apparsi nel corso dell’ultimo decennio, dedicati allo studio di uomini rappresentativi del travaglio culturale del tempo loro. Si tratta, accanto a Croce e a Gramsci, che sovrastano il dibattito generale con il loro rapporto di contrapposizione e dialettica unità, di uomini come Renato Serra, Giovanni Vailati, Carlo Michelstaedter, Guido De Ruggiero, Ernesto Codignola, Delio Cantimori, Antonio Banfi, Eugenio Curiel, tutti visti nel loro difficile e mutevole rapporto con i processi culturali che hanno portato al fascismo, e che lo hanno, poi, sostenuto. L’«Introduzione» e gli «Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano» sono saggi inediti e recenti, che danno al volume la necessaria unità, in rapporto soprattutto al tema centrale del volume: il nesso tra fascismo e intellettuali.
Gli uomini presentati criticamente da Garin seguono diversi indirizzi filosofici. Le loro crisi politiche e morali esplodono in momenti diversi, e in situazioni molto lontane le une dalle altre. Eppure tutti ripropongono, con la forza di una testimonianza intensamente vissuta, il problema di una cultura italiana che, a fatica, fin dal primo decennio del secolo, cerca una propria autonoma funzione di fronte ai drammatici sviluppi della lotta politica, della guerra prima, e del fascismo poi. Giustamente Garin condanna quella che egli chiama la «separazione dei “buoni” dai “cattivi”, non in base ai contenuti reali dell’opera loro, ma in rapporto alle scelte di partito (ed alle trasformazioni) degli “intellettuali” fra guerra e dopoguerra, ed ancora una volta facendo appello a valutazioni morali, o moralistiche, dei comportamenti individuali» (pag. VIII).
Occorre abbandonare questo criterio, che non solo è insufficiente, ma ormai non è più nemmeno suggerito da un sentimento di pietosa e doverosa comprensione umana, giacché è avvenuta una implacabile selezione dei protagonisti di quelle vicende. Ma per superare i lacci di un vano giustificazionismo, è indispensabile partire da una chiara conoscenza del reale carattere del fascismo. Oggi si comprende meglio, anche per gli studi che si vanno compiendo sui vari aspetti (economici, istituzionali, culturali) del fascismo, che esso costituì un movimento, prima, e poi un regime, non omogeneo, un blocco di forze sociali in permanente contrasto tra loro. I termini degli interni contrasti che agitarono il blocco fascista mutarono con lo scorrere degli anni, per il diverso peso assunto nelle varie fasi dalle diverse componenti. Nel blocco, se fu sempre predominante l’interesse dei gruppi dirigenti del capitale monopolistico, nella crescente compenetrazione tra industriali e proprietari agrari, essenziale fu, tuttavia, la funzione mediatrice assolta da Mussolini e dalla sua direzione personale, accettata senza resistenze, ed anzi esaltata finché le cose andarono bene, fino, cioè, alla proclamazione dell’impero (1936). Non si comprende perché si dovrebbe oggi diminuire la funzione personale esercitata dall’uomo che fu il vertice e il centro del blocco sociale e politico costituito dal fascismo. Solamente l’intervento in Spagna, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali provocarono la crisi della direzione di Mussolini.
Il regime fascista, anche per l’opera di mediazione esercitata da Mussolini, riuscì per lunghi periodi a contenere nel suo seno le interne contraddizioni della società italiana, mantenendo una larga base di massa, e riuscendo a raccogliere, specialmente in alcuni momenti (nel ’29, dopo la Conciliazione, e poi nel 1935 per l’impresa di aggressione contro l’Etiopia) un vasto consenso popolare. Il mantenimento dell’unità del blocco fascista fu reso più agevole anche per la flessibilità ed elasticità delle condizioni che permisero alle varie correnti culturali di sviluppare, pressoché indisturbate, i loro contrasti, purché fosse salvo quello che al regime più importava, ossia l’adesione politica ed il riconoscimento della funzione esercitata da Mussolini. Ed è proprio nel contributo dato al mantenimento della coesione del blocco sociale rappresentato dal fascismo, nel sostegno all’opera di direzione e mediazione effettuata da Mussolini, ed infine nell’aiuto dato alla formazione di una base di massa del regime, che fu particolarmente importante l’azione svolta, in modi diversi e seguendo linee anche contrastanti, dal grosso degli intellettuali italiani.
Quando si parla del rapporto tra cultura e fascismo, bisogna sempre ricordare che, proprio per il suo carattere di blocco sociale non omogeneo, il fascismo non ebbe una sua ideologia ufficiale, accettata da tutti gli aderenti. Perciò al fascismo poterono dare la loro adesione politica positivisti e idealisti, uomini di varie e contrastanti correnti, mantenendo, nel quadro politico fornito dal regime, le proprie posizioni culturali. La «dottrina» del fascismo non ebbe mai consistenza alcuna, né riuscì a svolgere opera efficace e duratura di educazione e di conquista della gioventù. Garin, richiamando l’asserzione fatta da Togliatti nelle lezioni del 1935 (Togliatti, Lezioni sul fascismo, a cura di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti), ricorda che «l’ideologia fascista contiene una serie di elementi eterogenei, è eclettica, confusa e strumentale, ma non priva di concetti nuovi, e di temi mutuati dalle fonti più svariate, e magari rubacchiati dagli avversari più acerbi». Garin respinge «il facile slogan dell’antitesi fra fascismo e cultura, fondato su un discutibile concetto di cultura, che favorì con gli equivoci più vistosi i salvataggi più impensati». Nello stesso tempo non si può parlare genericamente di «continuità tra cultura prefascista, fascista e post-fascista» che ha «alimentato i rifiuti globali, e immediati, di tradizioni culturali, istituti, scuole» (pag. IX). In realtà nessuna superficiale schematizzazione, o semplicistica linea di demarcazione, può evitare il lavoro paziente ed attento di accertamento e di conoscenza degli sviluppi concreti della cultura italiana, che sono stati certamente diversi e contrastanti, e dei quali vanno esaminati, nella successione degli anni, i punti di collegamento e di separazione, senza abbandonarsi ad ingannatrici generalizzazioni.
E Garin si muove in questa ricerca con la sicurezza che gli viene dagli studi condotti. Egli segue, con l’occhio sempre attento ai diversi contributi e agli interni contrasti, la linea già più volte tracciata, e posta ufficialmente dall’idealismo vittorioso degli anni venti, come base dello sviluppo della cultura italiana: crisi del positivismo italiano, rinascita idealista (Croce e Gentile), e rapporto dell’idealismo trionfante con i movimenti pragmatisti e le correnti irrazionali che animarono, con le loro ambiguità, la cultura italiana nel primo ventennio del secolo XX. Quello che importa oggi sottolineare è che la «rinascita idealista» ed il movimento della Voce hanno concorso, pur con le loro interne differenziazioni, a preparare le condizioni della vittoria del fascismo. Garin è pronto a cogliere i mutevoli rapporti tra le varie correnti, e il sorgere di contrasti che porteranno, nel corso degli anni trenta, alla dissoluzione dell’egemonia idealistica. Egli sottolinea, inoltre, giustamente, la funzione che ebbero personaggi isolati (basti pensare ad Antonio Labriola, a Giovanni Vailati, a Pietro Martinetti, a Gaetano Salvemini, uomini diversi per posizioni politiche e ideali), appartenenti a diverse correnti, ma vicini nella robustezza morale e nel disdegno delle mode e delle compiacenti accademie; e osserva come la ricostruzione dello sviluppo della cultura italiana nel primo ventennio del secolo, operata con troppa ottimistica sicurezza da un uomo come Guido De Ruggiero (verso il quale appare particolarmente severo), non possa senz’altro essere accettata. Nel 1914-15 – afferma Garin - «i giuochi non erano fatti» (pag. XIV). Le linee di demarcazione non possono essere fissate a posteriori. È nel corso della guerra che si fissano i rapporti di forza decisivi. Soprattutto viene, dalla ricostruzione idealistica, sottovalutata la funzione e l’importanza delle posizioni mantenute (specialmente nelle scienze economiche sociali) da uomini che idealisti non erano, e che potevano invece essere variamente ricollegate alle tendenze neo-positivistiche: da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, agli esponenti della scuola storica economica giuridica, Salvioli, Volpe e Salvemini. Che poi anche da queste correnti, oltre che da quelle idealistiche e irrazionali, al di là delle buone intenzioni di alcuni protagonisti, venisse, in momenti diversi ed in modo diverso, un forte contributo alla vittoria del fascismo, è prova del carattere, anche culturalmente, eterogeneo del blocco di forze che si raccolse attorno e nel fascismo.
Pur con le necessarie distinzioni, precisazioni e limitazioni, la ricostruzione idealistica fornisce un quadro che assorbe la parte più vivace della cultura italiana. Si comprende come a questi uomini, ai protagonisti di quest’opera di rinnovamento e sprovincializzazione della cultura italiana, guardassero, in un primo momento, con simpatia giovani, come Gramsci e Togliatti, che non potevano trovare nel movimento socialista alcun maestro ed educatore. Lo stesso atteggiamento assunse, più tardi, Piero Gobetti. Si spiega che persino il futurismo abbia trovato una prima benevola accoglienza. L’egemonia culturale dell’idealismo indicava già una premessa della sconfitta del movimento operaio italiano che, nel decennio cruciale 1912-1922, non seppe offrire alcuna valida alternativa culturale alla vittoria del nazionalismo e, più tardi, del fascismo.
Ma in quale misura è valido il quadro della cultura italiana offerto dalla ricostruzione idealistica? Mi sembra che resti coperta, anche nel lavoro di Garin, tutta una vasta zona d’ombra, che tuttavia esisteva, e che pesava nella vita nazionale, con il suo bagaglio retrivo di retoriche e formalismi accademici accumulati nei secoli. Le lotte culturali studiate da Garin, attraverso gli uomini presi in esame, sono lotte di avanguardie ristrette. Dietro a queste avanguardie che cosa c’era? Che cosa poteva giustificare l’invettiva del giovane Togliatti contro «la vecchia anima italiana, l’anima dei dilettanti, degli oziosi, dei letterati» (Togliatti, Opere, a cura di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol. I, pagg. 38-42), di fronte alla quale acquistava indubbiamente valore la serietà e l’onestà del lavoro compiuto da Croce? E che cosa giustificherà l’invettiva di Gobetti, «mentre assistiamo alle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci noi ci sentiamo tanto più ferocemente nemici di questa classe bastarda» (Gobetti, Opere, vol. I, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Einaudi, Torino, 1960, pagg. 412-415). E si avverte l’amarezza di Gobetti, che proprio le tendenze più avanzate e che sembravano rinnovatrici, il gentilismo, la Voce, il futurismo, e verso le quali si era rivolta la sua iniziale simpatia, abbiano poi finito con l’aprire la strada al fascismo.
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