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    Predefinito Intellettuali e fascismo negli studi di Eugenio Garin (1974)

    di Giorgio Amendola - «Rinascita», a. XXXI, n. 23, 7 giugno 1974, pp. 23-25.


    Il riapparire in Italia, in ogni momento di tensione politica, a trent’anni dalla vittoria della Resistenza, di un movimento fascista, ripropone l’esigenza di un’analisi più accurata di quello che ha rappresentato il fascismo nella storia d’Italia del XX secolo. Il fatto che il popolo italiano in ogni occasione dia ampia dimostrazione, come è avvenuto il 12 maggio, di una forte maturità politica e di una profonda coscienza antifascista, non ci può liberare dall’obbligo di uno sforzo permanente di analisi della realtà italiana. Occorre, perciò, non stancarsi di studiare, con vigile attenzione, il sottosuolo della società italiana nel quale affondano tuttora le radici tenaci di una gramigna velenosa dura a morire. In questo studio assume una particolare importanza la verifica del rapporto tra intellettuali e fascismo. Non a caso, intorno a questo tema, dopo ripetute e vane sollecitazioni e recriminazioni, si è venuto concentrando negli ultimi tempi un vivace dibattito.
    Con il libro di Eugenio Garin (Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti, 1974) l’analisi del rapporto intellettuali-fascismo è stata posta, finalmente, su basi solide, al di là delle «condanne moralistiche» o delle facili concessioni di alibi e di giustificazioni. Si tratta di riconoscere le correnti di pensiero che hanno concorso, seguendo ciascuna una propria linea di sviluppo, a creare le condizioni culturali che hanno permesso l’avvento del fascismo al potere e la sua trasformazione in regime. Il problema non è infatti quello dell’atteggiamento assunto da questo o da quell’intellettuale di fronte al fascismo, nella innumerevole combinazione di adesioni sincere, di abili dissimulazioni, di trasformazioni opportunistiche o di bassi cedimenti, dettati da viltà o da interessi materiali, quanto quello dell’apporto recato dalle varie correnti della cultura italiana alla vittoria e alla durata del fascismo. Il problema più grave non è tanto quello della resa al fascismo di individui come Giovanni Ansaldo, quanto quello dei motivi che hanno spinto ad una adesione convinta uomini di ben altro valore intellettuale come Giovanni Gentile o Gioacchino Volpe, come Luigi Pirandello o Vilfredo Pareto. Il problema diventa, a questo punto, quello, di fondo, del posto occupato dal fascismo nella storia dell’Italia moderna.

    Purtroppo le mutevoli vicende della lotta politica condotta durante tutto l’arco del trentennio repubblicano, e le pur comprensibili considerazioni tattiche di partito, hanno finito coll’imbrogliare le piste, suggerendo, volta a volta, per motivi estranei ad una severa ricerca storica, valutazioni diverse per giudicare i vari comportamenti individuali. Spesso il metro per tale giudizio è stato fornito dalla partecipazione del singolo intellettuale alla Resistenza, considerata come occasione liberatrice di riscatto morale, o, più spesso, dalle posizioni assunte nel corso delle più recenti lotte politiche. Si sono ricercate, e concesse, attenuanti e perdoni, quando il problema non era tanto giudiziario, di condanna o di assoluzione, quanto storico, di comprendere le cause di quei comportamenti. È così mancata, per una sorta di amnistia riservata a chi s’è meritata una menzione di buona condotta politica, quella critica ed autocratica generale, ossia quell’indagine storica che valutasse non i singoli casi, ma il comportamento generale degli intellettuali italiani e riprendesse, alla luce dell’esperienza maturata nella drammatica conclusione del fascismo e della difficile opera di rinnovamento democratico e nazionale, il tema – indicato da Gramsci – di una «ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia [nel secolo scorso]: in altre parole una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro diversi modi di pensare» (Lettere dal carcere, Torino, Einaudi, 1947, p. 27).

    A questa ricerca Eugenio Garin ha recato con il suo libro un importante contributo. Garin si è, in verità, impegnato da tempo su questo tema, come dimostrano i suoi precedenti lavori (Cronache della filosofia italiana nel XX secolo, Bari, Laterza, 1955), e in particolare i saggi raccolti qui e apparsi nel corso dell’ultimo decennio, dedicati allo studio di uomini rappresentativi del travaglio culturale del tempo loro. Si tratta, accanto a Croce e a Gramsci, che sovrastano il dibattito generale con il loro rapporto di contrapposizione e dialettica unità, di uomini come Renato Serra, Giovanni Vailati, Carlo Michelstaedter, Guido De Ruggiero, Ernesto Codignola, Delio Cantimori, Antonio Banfi, Eugenio Curiel, tutti visti nel loro difficile e mutevole rapporto con i processi culturali che hanno portato al fascismo, e che lo hanno, poi, sostenuto. L’«Introduzione» e gli «Appunti sulla formazione e su alcuni caratteri del pensiero crociano» sono saggi inediti e recenti, che danno al volume la necessaria unità, in rapporto soprattutto al tema centrale del volume: il nesso tra fascismo e intellettuali.
    Gli uomini presentati criticamente da Garin seguono diversi indirizzi filosofici. Le loro crisi politiche e morali esplodono in momenti diversi, e in situazioni molto lontane le une dalle altre. Eppure tutti ripropongono, con la forza di una testimonianza intensamente vissuta, il problema di una cultura italiana che, a fatica, fin dal primo decennio del secolo, cerca una propria autonoma funzione di fronte ai drammatici sviluppi della lotta politica, della guerra prima, e del fascismo poi. Giustamente Garin condanna quella che egli chiama la «separazione dei “buoni” dai “cattivi”, non in base ai contenuti reali dell’opera loro, ma in rapporto alle scelte di partito (ed alle trasformazioni) degli “intellettuali” fra guerra e dopoguerra, ed ancora una volta facendo appello a valutazioni morali, o moralistiche, dei comportamenti individuali» (pag. VIII).
    Occorre abbandonare questo criterio, che non solo è insufficiente, ma ormai non è più nemmeno suggerito da un sentimento di pietosa e doverosa comprensione umana, giacché è avvenuta una implacabile selezione dei protagonisti di quelle vicende. Ma per superare i lacci di un vano giustificazionismo, è indispensabile partire da una chiara conoscenza del reale carattere del fascismo. Oggi si comprende meglio, anche per gli studi che si vanno compiendo sui vari aspetti (economici, istituzionali, culturali) del fascismo, che esso costituì un movimento, prima, e poi un regime, non omogeneo, un blocco di forze sociali in permanente contrasto tra loro. I termini degli interni contrasti che agitarono il blocco fascista mutarono con lo scorrere degli anni, per il diverso peso assunto nelle varie fasi dalle diverse componenti. Nel blocco, se fu sempre predominante l’interesse dei gruppi dirigenti del capitale monopolistico, nella crescente compenetrazione tra industriali e proprietari agrari, essenziale fu, tuttavia, la funzione mediatrice assolta da Mussolini e dalla sua direzione personale, accettata senza resistenze, ed anzi esaltata finché le cose andarono bene, fino, cioè, alla proclamazione dell’impero (1936). Non si comprende perché si dovrebbe oggi diminuire la funzione personale esercitata dall’uomo che fu il vertice e il centro del blocco sociale e politico costituito dal fascismo. Solamente l’intervento in Spagna, l’alleanza con la Germania nazista, le leggi razziali provocarono la crisi della direzione di Mussolini.
    Il regime fascista, anche per l’opera di mediazione esercitata da Mussolini, riuscì per lunghi periodi a contenere nel suo seno le interne contraddizioni della società italiana, mantenendo una larga base di massa, e riuscendo a raccogliere, specialmente in alcuni momenti (nel ’29, dopo la Conciliazione, e poi nel 1935 per l’impresa di aggressione contro l’Etiopia) un vasto consenso popolare. Il mantenimento dell’unità del blocco fascista fu reso più agevole anche per la flessibilità ed elasticità delle condizioni che permisero alle varie correnti culturali di sviluppare, pressoché indisturbate, i loro contrasti, purché fosse salvo quello che al regime più importava, ossia l’adesione politica ed il riconoscimento della funzione esercitata da Mussolini. Ed è proprio nel contributo dato al mantenimento della coesione del blocco sociale rappresentato dal fascismo, nel sostegno all’opera di direzione e mediazione effettuata da Mussolini, ed infine nell’aiuto dato alla formazione di una base di massa del regime, che fu particolarmente importante l’azione svolta, in modi diversi e seguendo linee anche contrastanti, dal grosso degli intellettuali italiani.
    Quando si parla del rapporto tra cultura e fascismo, bisogna sempre ricordare che, proprio per il suo carattere di blocco sociale non omogeneo, il fascismo non ebbe una sua ideologia ufficiale, accettata da tutti gli aderenti. Perciò al fascismo poterono dare la loro adesione politica positivisti e idealisti, uomini di varie e contrastanti correnti, mantenendo, nel quadro politico fornito dal regime, le proprie posizioni culturali. La «dottrina» del fascismo non ebbe mai consistenza alcuna, né riuscì a svolgere opera efficace e duratura di educazione e di conquista della gioventù. Garin, richiamando l’asserzione fatta da Togliatti nelle lezioni del 1935 (Togliatti, Lezioni sul fascismo, a cura di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti), ricorda che «l’ideologia fascista contiene una serie di elementi eterogenei, è eclettica, confusa e strumentale, ma non priva di concetti nuovi, e di temi mutuati dalle fonti più svariate, e magari rubacchiati dagli avversari più acerbi». Garin respinge «il facile slogan dell’antitesi fra fascismo e cultura, fondato su un discutibile concetto di cultura, che favorì con gli equivoci più vistosi i salvataggi più impensati». Nello stesso tempo non si può parlare genericamente di «continuità tra cultura prefascista, fascista e post-fascista» che ha «alimentato i rifiuti globali, e immediati, di tradizioni culturali, istituti, scuole» (pag. IX). In realtà nessuna superficiale schematizzazione, o semplicistica linea di demarcazione, può evitare il lavoro paziente ed attento di accertamento e di conoscenza degli sviluppi concreti della cultura italiana, che sono stati certamente diversi e contrastanti, e dei quali vanno esaminati, nella successione degli anni, i punti di collegamento e di separazione, senza abbandonarsi ad ingannatrici generalizzazioni.
    E Garin si muove in questa ricerca con la sicurezza che gli viene dagli studi condotti. Egli segue, con l’occhio sempre attento ai diversi contributi e agli interni contrasti, la linea già più volte tracciata, e posta ufficialmente dall’idealismo vittorioso degli anni venti, come base dello sviluppo della cultura italiana: crisi del positivismo italiano, rinascita idealista (Croce e Gentile), e rapporto dell’idealismo trionfante con i movimenti pragmatisti e le correnti irrazionali che animarono, con le loro ambiguità, la cultura italiana nel primo ventennio del secolo XX. Quello che importa oggi sottolineare è che la «rinascita idealista» ed il movimento della Voce hanno concorso, pur con le loro interne differenziazioni, a preparare le condizioni della vittoria del fascismo. Garin è pronto a cogliere i mutevoli rapporti tra le varie correnti, e il sorgere di contrasti che porteranno, nel corso degli anni trenta, alla dissoluzione dell’egemonia idealistica. Egli sottolinea, inoltre, giustamente, la funzione che ebbero personaggi isolati (basti pensare ad Antonio Labriola, a Giovanni Vailati, a Pietro Martinetti, a Gaetano Salvemini, uomini diversi per posizioni politiche e ideali), appartenenti a diverse correnti, ma vicini nella robustezza morale e nel disdegno delle mode e delle compiacenti accademie; e osserva come la ricostruzione dello sviluppo della cultura italiana nel primo ventennio del secolo, operata con troppa ottimistica sicurezza da un uomo come Guido De Ruggiero (verso il quale appare particolarmente severo), non possa senz’altro essere accettata. Nel 1914-15 – afferma Garin - «i giuochi non erano fatti» (pag. XIV). Le linee di demarcazione non possono essere fissate a posteriori. È nel corso della guerra che si fissano i rapporti di forza decisivi. Soprattutto viene, dalla ricostruzione idealistica, sottovalutata la funzione e l’importanza delle posizioni mantenute (specialmente nelle scienze economiche sociali) da uomini che idealisti non erano, e che potevano invece essere variamente ricollegate alle tendenze neo-positivistiche: da Vilfredo Pareto a Gaetano Mosca, agli esponenti della scuola storica economica giuridica, Salvioli, Volpe e Salvemini. Che poi anche da queste correnti, oltre che da quelle idealistiche e irrazionali, al di là delle buone intenzioni di alcuni protagonisti, venisse, in momenti diversi ed in modo diverso, un forte contributo alla vittoria del fascismo, è prova del carattere, anche culturalmente, eterogeneo del blocco di forze che si raccolse attorno e nel fascismo.

    Pur con le necessarie distinzioni, precisazioni e limitazioni, la ricostruzione idealistica fornisce un quadro che assorbe la parte più vivace della cultura italiana. Si comprende come a questi uomini, ai protagonisti di quest’opera di rinnovamento e sprovincializzazione della cultura italiana, guardassero, in un primo momento, con simpatia giovani, come Gramsci e Togliatti, che non potevano trovare nel movimento socialista alcun maestro ed educatore. Lo stesso atteggiamento assunse, più tardi, Piero Gobetti. Si spiega che persino il futurismo abbia trovato una prima benevola accoglienza. L’egemonia culturale dell’idealismo indicava già una premessa della sconfitta del movimento operaio italiano che, nel decennio cruciale 1912-1922, non seppe offrire alcuna valida alternativa culturale alla vittoria del nazionalismo e, più tardi, del fascismo.

    Ma in quale misura è valido il quadro della cultura italiana offerto dalla ricostruzione idealistica? Mi sembra che resti coperta, anche nel lavoro di Garin, tutta una vasta zona d’ombra, che tuttavia esisteva, e che pesava nella vita nazionale, con il suo bagaglio retrivo di retoriche e formalismi accademici accumulati nei secoli. Le lotte culturali studiate da Garin, attraverso gli uomini presi in esame, sono lotte di avanguardie ristrette. Dietro a queste avanguardie che cosa c’era? Che cosa poteva giustificare l’invettiva del giovane Togliatti contro «la vecchia anima italiana, l’anima dei dilettanti, degli oziosi, dei letterati» (Togliatti, Opere, a cura di E. Ragionieri, Roma, Editori Riuniti, 1967, vol. I, pagg. 38-42), di fronte alla quale acquistava indubbiamente valore la serietà e l’onestà del lavoro compiuto da Croce? E che cosa giustificherà l’invettiva di Gobetti, «mentre assistiamo alle più vigliacche dedizioni degli intellettuali ai fasci noi ci sentiamo tanto più ferocemente nemici di questa classe bastarda» (Gobetti, Opere, vol. I, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Einaudi, Torino, 1960, pagg. 412-415). E si avverte l’amarezza di Gobetti, che proprio le tendenze più avanzate e che sembravano rinnovatrici, il gentilismo, la Voce, il futurismo, e verso le quali si era rivolta la sua iniziale simpatia, abbiano poi finito con l’aprire la strada al fascismo.

    (...)
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    Predefinito Re: Intellettuali e fascismo negli studi di Eugenio Garin (1974)

    Che cosa era la «vecchia anima» italiana e che rapporto aveva con le correnti animatrici del rinnovamento culturale italiano? In realtà il positivismo degli Ardigò, contro cui si era scagliata l’offensiva idealistica, era stato colpito dal fallimento più generale dello «scientismo» europeo prima di essere riuscito a compiere, anche per la sua intrinseca debolezza, un’opera di ammodernamento borghese della cultura italiana. Le collane degli editori Bocca e Sonzogno continuarono, in verità, a svolgere un’opera capillare di diffusione di una cultura moderna, sia pure di timbro ottocentesco, anche dopo il proclamato fallimento della dottrina positivistica. Tale diffusione avvenne tra gli strati più popolari, anche operai, e continuò negli anni venti. Il fatto è che dietro alla presto soffocata iniziazione positivistica, dietro alla proclamata «rinascita idealistica», e dietro alla romantica agitazione «vociana», restava pressoché intatto, nel fondo della società italiana, il vecchio blocco di una cultura arretrata, retorica, formalistica, curiale, alimentata ancora dalle tardive rimasticature delle lezioni di Rosmini e di Gioberti, e che ritroverà la sua veste moderna nella reboante demagogia nazionalistica di Gabriele D’Annunzio. E questo vecchio blocco di arretratezze culturali era la vera base del blocco politico rappresentativo del fascismo. Le adesioni degli esponenti delle correnti culturali più moderne costituivano per il fascismo un orpello ed una copertura, di cui seppe abilmente servirsi.
    La cultura che legava la maggioranza dei professionisti e degli insegnanti italiani, era ancora quella retorica ed imperiale, illuminata dai destini di Roma, che si esprimerà nell’esaltazione imperialistica di D’Annunzio (Crispi). Gli stessi poeti ufficiali dell’Italia ottocentesca, Carducci e Pascoli, se pur di ispirazione democratica, trovarono gli accenti più schietti e rigorosi nell’affermazione, sincera nella sua retorica, della rivendicazione nazionalistica, che finirà col presentare l’Italia come la «grande proletaria». Il nazionalismo di un paese giunto tardi all’unità nazionale ed allo sviluppo del capitalismo, era ancora, nel primo ventennio del secolo XX, il comune denominatore della cultura italiana. E i feroci critici vociani di D’Annunzio si ritroveranno dietro a lui nell’ora «fatale» dell’intervento. Gli intellettuali italiani sono interventisti, in grande maggioranza, nel 1915, come saranno poi, nel 1922, favorevoli al fascismo. Le varie correnti confluiscono nella stessa direzione, con poche e rare eccezioni. Se nell’interventismo si opererà una scissione, tra interventisti democratici e interventisti nazionalisti, questi avranno la meglio. Salvemini sarà sconfitto, e la vittoria degli interventisti nazionalisti del 1918 preparò quella fascista del 1922.
    Si salvano gli intellettuali già legati al movimento operaio, e sono pochi. Nel contatto con la classe operaia si forma la coscienza dell’intellettuale che saprà, dal chiuso di un carcere, contestare e superare Croce, la cui egemonia intellettuale in Italia – osserva Garin – è nel 1920-1922 un fatto incontestabile. Ma per il momento Gramsci è ancora un giovane in lotta per dare al movimento operaio italiano un indirizzo nuovo, politico e culturale.
    A parte Gramsci, e Gobetti già collegato con le forti esperienze del proletariato torinese, e gli intellettuali legati al movimento operaio, pur divisi e smarriti di fronte alla prospettiva di una sconfitta, chi resta in piedi a opporsi a viso aperto all’avvento del fascismo? Poche individualità, di cui è facile stendere l’elenco. Ci sarà, nel 1925, il manifesto degli intellettuali firmato da Croce. Esso conterrà le adesioni di molti (a cominciare dall’estensore), che già, nel 1922, avevano espresso una loro adesione al fascismo, mantenuta a lungo, a volte anche nella seconda metà del 1924, e ritirata soltanto dopo il 3 gennaio. È impetuosa questa denuncia, ma essa va fatta se vogliamo dare ad una ricerca storica il necessario rigore di analisi. Uno studio attento dei firmatari del manifesto di Croce rivelerà il significato delle numerose assenze, e delle coraggiose adesioni, e quindi il concreto rapporto assunto da un gruppo di intellettuali italiani di fronte al fascismo, nel momento della sua ormai certa vittoria.
    Quando si ripete che gli intellettuali italiani non aderirono al fascismo, si vuole intendere che essi, nella maggior parte, non diedero un contenuto fascista alle loro opere. E ciò è vero, in massima parte, anche se non sempre si valuta il danno operato dal ricorso all’ermetismo, alla preziosità stilistica, all’eleganza dell’elzeviro, cioè alla mancanza di quell’impegno morale che solo distingue la cultura dall’accademia. Ed è anche vero che le ricerche stilistiche provocate dall’ermetismo riuscirono a liberare la lingua italiana dalle scorie del dannunzianesimo. Ma occorre sempre ricordare che al fascismo, e a Mussolini in particolare, non interessava il contenuto ideale delle varie opere, od il rapporto tra forma e contenuto. Al fascismo interessava l’adesione politica al regime. Concessa questa adesione, gli intellettuali potevano pure impegnarsi nelle loro polemiche accademiche, o nelle dispute innocue tra «strapaese» e «stracittà», o sul «novecento». È vero che queste dispute non restarono sempre accademiche, e che nelle lotte delle correnti (in letteratura ed in pittura) si manifestarono esigenze e fermenti, che concorreranno ad animare, più tardi, la formazione di un «nuovo antifascismo» sorto dal seno stesso del regime. Ma, per il momento, quello che interessa al regime era l’adesione politica degli intellettuali, ed è questo che esso riuscì ad ottenere, perché quella adesione corrispondeva già ad un generale orientamento degli intellettuali italiani.
    La piattaforma su cui si opera, partendo da diverse posizioni culturali, la convergenza degli intellettuali italiani attorno al fascismo, si articola su pochi punti sommari: a) esaltazione acritica della nazione; b) richiesta di uno Stato forte; c) difesa dell’ordine costituito (e dei privilegi di classe che esso tutelava); d) avversione (se non odio e disprezzo) contro il movimento operaio; e) antiparlamentarismo. Ed erano punti che la maggior parte degli intellettuali italiani non duravano fatica ad approvare, perché corrispondevano a loro sincere convinzioni, anche se non tutti li avrebbero formulati con tale cruda perentorietà. Se l’adesione politica al fascismo significava approvazione di questi punti, è da domandarsi non il motivo dell’adesione degli intellettuali al fascismo, ma, piuttosto, come potevano, nella loro maggioranza, non aderire al fascismo.

    Anche le tendenze culturali, che partivano dalla critica più radicale al giolittismo e al trasformismo e provenivano dal sindacalismo rivoluzionario degli anni dieci, e che non erano passate al nazionalismo anche prima dell’intervento, si mobilitarono poi contro il movimento operaio e finirono col costituire una delle componenti del fascismo considerato come «rivoluzione» sociale e nazionale. I carteggi che si cominciano a pubblicare dimostrano quanto diffuse fossero queste posizioni tra gli intellettuali italiani. Di fronte alle violenze fasciste non v’è, negli anni 1919-1922, traccia di condanna, e nemmeno di umano sentimento, ma troppo spesso soltanto di bestiale soddisfazione. V’è, nel 1922, di fronte alla crisi dello Stato liberale, la generale convinzione, estesa a tutti i settori della democrazia liberale o sociale, della necessaria partecipazione dei fascisti al governo; prevaleva in tutti la fatale illusione che tale partecipazione avrebbe portato alla «normalizzazione» del fascismo ed alla cessazione dei suoi «illegalismi».

    Avverto, a questo punto, il pericolo che, vedendo nel fascismo il punto di approdo delle varie correnti della cultura italiana, si finisca coll’accettare una tesi che era, appunto, fascista. Il fascismo si era proclamato l’erede e il continuatore della storia italiana, considerata come un processo che doveva tendere all’esito provvidenziale della vittoria del duce e del regime. La ripulsa di questo finalismo trionfalistico non ci deve impedire di vedere una continuità, che c’è stata effettivamente, e di individuare, appunto, nel fascismo (come indicava Giustino Fortunato) la rivelazione della sostanza accumulata nei secoli dall’oppressione straniera, dal bigottismo della controriforma, dal vecchio opportunismo cortigiano degli staterelli accampati nel paese, ostacolo a quella circolazione di idee che spazzò, invece, l’atmosfera culturale dei grandi Stati nazionali europei come la Francia e l’Inghilterra. A ragione Banfi affermerà che il fascismo, «ben lungi dall’essere caduto dalla luna», era stato «l’emergere di una sostanza profonda della storia italiana» (pag. 248).

    (...)
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    Predefinito Re: Intellettuali e fascismo negli studi di Eugenio Garin (1974)

    Lo sforzo promosso da Croce per ricercare in Italia, fin dal settecento, le fonti di un pensiero nazionale liberale, la rivendicazione orgogliosa di una grande linea di pensiero laico ed autonomistico, da Vico a Giannone e agli illuministi e patrioti partenopei del 1799, da Francesco De Sanctis ad Antonio Labriola, ha lasciato spesso nell’ombra la «sostanza» diffusa di una cultura italiana retriva e nazionalistica, chiusa si moderni sviluppi del pensiero europeo. La riforma universitaria stimolata da De Sanctis in che misura riuscì a modificare gli orientamenti della scuola italiana? Accanto ai grandi isolati, al cattolicesimo liberale di Alessandro Manzoni e al concreto problemismo di Carlo Cattaneo, grigio e limitato, al momento della unificazione, era il livello raggiunto dalla massa degli intellettuali italiani. Marginali restarono i tentativi di scuotere le acque stagnanti della cultura ufficiale: si pensi alla conclusione sfortunata della breve stagione della «scapigliatura» milanese.
    Il rinnovamento culturale del ‘900 non solo aveva appena sfiorato il terreno, e non lo aveva vangato in profondità, ma si era mosso in una direzione convergente con quelle prese dalla corrente che esso diceva di voler contestare. Nella tremenda prova della grande guerra gli orientamenti degli ufficiali di complemento, usciti in massima parte dal seno della piccola e media borghesia italiana, sono indicati da quelle lettere raccolte con tanta cura da Adolfo Omodeo: vi si legge, nella vivacità delle espressioni, un sincero patriottismo, volto tuttavia all’esaltazione di una nazione alla quale debbono essere sacrificati i figli del popolo, inviati ad un massacro di cui non si riesce a scorgere la vanità. Sono pochi coloro che, dalla drammatica esperienza del Carso o del Grappa, sono spinti a porsi domande inquietanti e a portarsi al fianco dei soldati, non solo nel comune sacrificio, ma nella stessa richiesta di mutamenti politici e sociali. L’ostilità mantenuta dal movimento operaio, anche dopo la fine del conflitto, non solo contro gli interventisti ma anche contro i reduci che non intendevano dimenticare i motivi patriottici della loro partecipazione alla guerra, respinse verso il fascismo gran parte della gioventù combattentistica.
    Si può passo passo ripercorrere il cammino compiuto dal 1900 in poi dalle correnti rinnovatrici della cultura italiana, e ritrovarvi sempre il segno di una direzione che troverà il suo sbocco nel fascismo, dove si ricongiungeranno con il grosso della massa degli intellettuali italiani, restati ancora attardati su vecchie posizioni ottocentesche, e sulla comune piattaforma: nazione, Stato, ordine, autorità.
    Perciò non si può parlare, a proposito dell’adesione degli intellettuali italiani al fascismo, di trahison des clercs. Si tradisce un pensiero autonomo quando esso c’è. Tranne pochi miserabili casi non si può parlare di tradimento, ma di adesione, ciascuno credendo di trovare nel fascismo, e nelle possibilità di dibattito culturale che esso offriva entro le sue file, la parte essenziale del proprio pensiero. Se c’era qualche caso che disturbava (la bastonatura di un amico antifascista, la volgarità di un centurione) erano inezie di fronte alle superiori esigenze della patria. Non sembri eccessivo tale giudizio. Le manifestazioni di solidarietà alle vittime di violenze fasciste furono sempre molto limitate.
    La controprova del ’22 si ebbe nel 1926, quando le «leggi eccezionali» tolsero di mezzo le ultime libertà. Pochi scelsero la via della lotta clandestina o, almeno, dell’esilio. Gramsci ed i comunisti furono condannati al carcere. Pochi altri inviati al confino. Vennero allora avanti i nuovi antifascisti, i comunisti, impegnati subito, e da soli, nella lotta illegale, e poi quelli di «Giustizia e libertà», e del Psi, e negli altri partiti antifascisti i fratelli Rosselli, Parri, Ernesto Rossi, Fancello, Rodolfo Morandi, Eugenio Colorni, per non ricordare che alcuni scomparsi, e pochi altri, che non a caso formarono nel 1943 i quadri dei ricostituendi partiti antifascisti. La stragrande maggioranza accettò il fatto compiuto, e si acconciò a vivere nelle nuove condizioni. Gli stessi intellettuali conseguentemente antifascisti (che erano a loro volta una piccola minoranza) seguirono la direttiva di Croce; continuare a studiare, studiare più di prima, compiere il proprio dovere, aspettando e preparando così tempi migliori. Insisto sulla gravità della scelta compiuta dagli intellettuali antifascisti nel 1926-27, perché il rifiuto di prendere la via rischiosa della lotta clandestina isolò le minoranze illegali e impedì la crescita di un movimento di lotta permanente all’interno del paese. Le vie dell’azione illegale furono imboccate soltanto all’ultima ora, nel ’42-43, troppo tardi per intervenire efficacemente prima della catastrofe (e dell’intervento regio).
    Garin non manca di indicare le vie travagliate del «lungo viaggio compiuto per giungere alla libertà». Ed egli nota la differenza tra gli intellettuali che avevano aderito al fascismo, e che dovevano a fatica liberarsi dai lacci delle passate illusioni, ed i nuovi che, cresciuti nel fascismo, cercavano le vie dell’antifascismo. C’è una dedica, firmata da un uomo probo e schietto come Ernesto Codignola, che fa fremere, perché rivelatrice di abissi di confusione e di smarrimento ideale: «A Mussolini e Gentile, restauratori della scuola italiana»; ed è in testa a un volume del 1925, pubblicato, cioè, dopo l’assassinio di Matteotti. La crisi di Codignola scoppiò nel 1929, dopo la Conciliazione, solo di fronte al tradimento dello Stato laico compiuto da Mussolini. E c’è la confessione di Cantimori, sincera nella sua severa autocritica; una confessione del 1962, in una lettera ad Ernesto Rossi, che è utile rileggere: «Ero entrato nel partito fascista nel 1926. Ero pieno di confusione mentale, e quasi senza scusante: infatti avevo pur letto Rivoluzione liberale nella Biblioteca civica di Forlì, e l’Unità di Salvemini alla quale era abbonato mio padre. Tuttavia ero convinto che il fascismo aveva fatto e stava facendo la vera rivoluzione italiana, che doveva diventare rivoluzione europea; e ritenevo che bisognasse lavorare su questa strada» (pag. 179).
    Credo che Garin abbia troppo concesso alla tesi, posta da Cantimori, della necessaria dissimulazione, del «nicodemismo», del linguaggio cifrato. La dissimulazione è attività difficile da compiersi, che esige grande sicurezza, certezza di prospettive e, alle spalle, una forza capace di fornire una copertura, un partito clandestino, un’organizzazione illegale. Quanti sono stati i casi di questo genere bisognerebbe accertare; credo pochi. Certo vi furono casi di intellettuali isolati che, sotto la copertura di una adesione formale al regime, svolsero opera feconda di educazione dei giovani. Le lotte di tendenze culturali che si svolsero nelle Università e sulle riviste aiutarono anche molti giovani a ricercare, in polemiche cifrate, i motivi di un distacco – anche politico – dal fascismo. Inoltre vi furono casi di una azione continuata per lunghi periodi, con radi collegamenti mantenuti con le organizzazioni illegali; uomini come Concetto Marchesi che sapevano di essere seguiti dal partito al quale sentivano di appartenere. Ma, occorre convenirne, furono casi rari ed isolati.
    La ricerca di una posizione antifascista, e soprattutto l’inizio di una concreta attività clandestina, è stata opera confusa, esitante, limitata dalla pressione esercitata, più che da una polizia vigilante, da un regime che sembrava incrollabile. Ci vorrà lo scoppio della guerra per dare al processo un moto più accelerato. Le varie fronde culturali esistenti sempre più numerose a partire dal 1934 (l’anno dell’«andare a sinistra») indicano certo una crisi di orientamento, ma non ancora una ripresa di prospettive. Si rivela in quegli anni trenta la crisi dell’idealismo, insufficiente con le sue versioni (quella liberale di Croce e quella fascista di Gentile) a rispondere alle ansie, agli interrogativi angosciosi che la crisi economica del 1929-32, l’ascesa di Hitler al potere, la «crisi della civiltà», provocarono su scala europea e che penetrarono anche in Italia. Ma in compenso il distacco tra le opposizioni clandestine e militanti e le nuove opposizioni che sorgono in seno al fascismo continua ad impedire quella saldatura, che si opererà su larga scala, tardi ed in fretta, senza una approfondita preparazione intellettuale, nei mesi roventi del 1943, e dopo l’8 settembre, nel fuoco della Resistenza.
    Le vie percorse da giovani intellettuali cresciuti nel fascismo per giungere all’antifascismo militante furono assai diverse e sempre difficili. Il saggio su Curiel indica una esperienza diventata esemplare, e non soltanto per il sacrificio con cui si concluse. Altri percorsero strade diverse. Garin ricorda la «generazione degli anni difficili» (Laterza, Bari, 1962) con le testimonianze di Alicata ed altri, il Lungo viaggio di Zangrandi, il Voltagabbana di Lajolo. Si dovrebbe sempre ricordare il Diario di un borghese di Bianchi Bandinelli. C’è l’esperienza dei giovani di Corrente, ci sono i romanzi di Moravia, di Vittorini, Pavese, Bilenchi, Pratolini. Sono fermenti nuovi, ma ancora isolati. Ci sono le palestre universitarie dei littoriali e quelle giornalistiche offerte da Primato, Omnibus, da Oggi, a giovani come Giaime Pintor, Pannunzio e Benedetti.
    Se il fascismo offriva, nelle sue organizzazioni culturali, delle palestre alle nuove generazioni, esso riusciva nello stesso tempo a conoscere e a controllare la formazione di gruppi di dissenso. La funzione di Bottai è stata quella di mantenere un collegamento con le nuove leve intellettuali. Ma si pensi anche alla funzione svolta dalla Enciclopedia Treccani, e dal suo presidente Gentile per offrire lavoro ad intellettuali, e mantenere un collegamento che poteva essere anche una forma di controllo. In questo incrocio di tentativi di controllo e di sforzi di liberazione, avanza tuttavia nella gioventù intellettuale una volontà rinnovatrice. L’analisi dei movimenti di nuova opposizione indica che alla vigilia della prima guerra mondiale la maggioranza degli italiani era stata su posizioni di preparazione dell’avvento del fascismo.
    Il saggio di Garin su Banfi sottolinea come il filosofo fosse consapevole della necessità di una «ricerca storica». Quella «verità rivoluzionaria», se ricercata con «logica coerenza, non poteva non riuscire alla fine spietata e dolorosa per tutti, anche per chi la faceva, non poteva non mettere in esistenza responsabilità di tutti» (pag. 248). Se nell’ultimo ventennio è venuta affermandosi nella cultura italiana, sulle rovine dell’egemonia crociana e liberale, e di fronte all’arido sociologismo cattolico, la nuova egemonia del pensiero rivoluzionario di Gramsci, è perché soltanto questo è risultato immune da corresponsabilità con il fascismo. Ma bisogna che coloro che intendono ispirarsi alla severità critica e al rigore morale di Gramsci, sappiano portare avanti una ricerca storica condotta con logica coerenza. Solo questa ricerca permetterà di comprendere qual è la «sostanza» ancora presente nella società e nella cultura italiana, e nella quale si annidano i germi sempre operanti dell’infezione fascista.
    Garin ricorda l’indicazione di Togliatti: «Per non sbagliare nell’orientamento politico occorre non sbagliare nell’analisi» (Lezioni sul fascismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, pag. 11). Il suo libro stimola dunque nuove ricerche sul carattere del rapporto tra intellettuali e fascismo, ricerche che possono contribuire ad una rimeditazione critica della storia del fascismo (e dell’antifascismo).

    https://musicaestoria.wordpress.com/...io-garin-1974/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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