di Giovanni Spadolini – «La Gazzetta del Popolo», 21 dicembre 1950


Pochi sanno che il primissimo «Manifesto» della Internazionale dei lavoratori fu steso, nella Londra del 1864, da Giuseppe Mazzini. La storia del contrasto fra Marx e Mazzini è ancora tutta da scrivere (eccellenti pagine si possono leggere nel libro del compianto Nello Rosselli, «Mazzini e Bakunin»); ma è certo che il momento più aspro fu toccato in occasione della fondazione dell’Associazione internazionale, quando le ali democratiche e radicali dell’emigrazione politica si coalizzarono contro la sinistra marxista nel tentativo di imporre un indirizzo gradualistico e riformatore che associasse il proletariato alla difesa delle istituzioni e della mistica democratica. Con la ostinazione, la pedanteria e la tenacia che lo distinguevano, Marx riuscì a manipolare, a mutilare e in ultimo a trasformare completamente l’abbozzo del «Manifesto» mazziniano, fino a liberarlo da tutte le frasi e gli accenni che potessero evocare il socialismo utopistico o comunque la sua mentalità dottrinaria, missionaria, filantropica e piccolo borghese; ed il testo definitivo non conservò quasi più niente dell’intonazione e del «pathos» romantico che i reduci del ’48 avevano voluto imprimergli.
Il secondo volume del «Carteggio Marx-Engels», che le edizioni Rinascita pubblicano in questi giorni a cura di Mario Alighiero Manacorda, scolpisce con l’evidenza e la sincerità degli epistolari i termini di quel conflitto di razza, di educazione e di mentalità che divise implacabilmente i due grandi esuli vicini e lontani; per quanto comprenda solo il periodo dal 1852 al 1856 e non arrivi quindi alla fase dell’organizzazione rivoluzionaria, non potrebbe illuminare con maggior eloquenza la posizione di Marx di fronte al mazzinianesimo e indirettamente, a tutto il Risorgimento italiano. È noto che Marx non attribuì mai nessuna particolare funzione all’Italia nel quadro dell’imminente «rivoluzione sociale», ed è da ritenere, in base alle pagine dei suoi stessi epistolari, che estremamente scarsa fosse la sua stima e la sua considerazione per le varie correnti politiche che si erano messe a capo del processo di libertà e di unità. Ma non si rasenta il paradosso se si afferma che la sua avversione per i protagonisti del Risorgimento era inversamente proporzionale al loro «estremismo» ideologico e al loro «sinistrismo» tendenziale; ed è forse da supporre che solo Cavour e la Monarchia sabauda suscitassero in lui qualche segreta simpatia, un inconfessato rispetto.
Il contrasto che lo divideva da Mazzini e da tutta la corrente repubblicana e democratica era di princìpi, di metodo e di costume: un contrasto in cui si intrecciavano e si sommavano tutte le componenti, politiche, psicologiche, di formazione, di carattere, di cultura, di gusto. Agli occhi della sua concezione storicistica e dialettica, la «teocrazia» di Mazzini, il suo sogno di una democrazia religiosa, la sua visione di un cesaropapismo laico, non rappresentavano altro che un incomprensibile rigurgito di Medioevo, una rinascita di miti e di formule arcaiche ed assurde; né Marx sospettò mai che quella posizione nascondesse l’ultima istanza di «riforma religiosa» in vista di unificare il cittadino e il credente al di fuori degli schemi tradizionali. Tutto era fatto per dividerli: al popolo di Mazzini Marx opponeva il proletariato, alla sua educazione l’autocoscienza, al suo associazionismo la lotta di classe alla sua democrazia la dittatura popolare, alla sua provvidenza la dialettica infinita e incommensurabile della storia, ai «doveri dell’uomo» i diritti imprescindibili degli oppressi, Mazzini negava il proprio tempo in un sogno superbo di restaurazione; la sua critica alla rivoluzione francese, il suo disprezzo dell’enciclopedismo e dell’illuminismo, la sua avversione per i «principi disgreganti» del liberalismo e del laicismo nascondevano il ritorno ad una visione religiosa ed ecumenica della vita, la ricerca di un’organizzazione supernazionale ed universale capace di riunire ed accomunare tutti gli uomini secondo la legge della democrazia, della fratellanza e del progresso. Marx, al contrario, non trascurava nessuno dei dati del pensiero moderno, non rifiutava nessuna delle lezioni della realtà contemporanea: il suo «socialismo scientifico» si innestava, o pretendeva di innestarsi, sullo stadio attuale della evoluzione capitalistica per trarne, in via di logica e di deduzione rigorosa, tutte le conseguenze e tutti gli insegnamenti. Per l’uno, la rivoluzione era un fatto di iniziativa, di coraggio individuale, di eroismi singoli, di barricate e di cospirazioni; per l’altro, nulla serviva che non fosse legato al «sentimento della storia» come avrebbe detto Hegel, alla logica degli avvenimenti, sia pure interpretata drammaticamente e polemicamente.
Nelle pagine del «Carteggio», gli scatti, le invettive, le ingiurie e gli insulti contro Mazzini non si contano: lo stile di Marx, come si sa, non arretrava di fronte ai consigli della prudenza e aveva un fondo amaro, sarcastico, irritante e spietato, tipico dell’uomo e della sua mentalità. «Il signor Mazzini – dice in data 3 marzo 1852 a commento di una manifesto sull’«iniziativa» italiana – mentre, come Pietro l’Eremita, tiene sermoni ai viziosi francesi, lecca intanto il sedere al Freetraders inglesi, che incarnano così bene le devouement e la foi. L’imbecile!». E pochi giorni dopo, il 30 marzo: «il signor Mazzini, da due anni papa della chiesa democratica in partibus riversa sui socialisti la colpa del 2 dicembre, della presa di Roma, in breve di tutta la controrivoluzione, e nella sua altisonante maniera da domenicano strepita contro gli eretici, le sette, il materialismo, lo scetticismo, la babele francese, con altrettanta decisione con quanta qui a Londra lecca il sedere ai borghesi liberali».
Ma non è soltanto contro «l’arrogante Teopompo» che si rivolge tutta l’ira di Marx, la sua derisione implacabile, il suo odio teologico; le conclusioni di Cattaneo, nell’«Archivio delle cose d’Italia», per una federazione europea sono giudicate grottesche, «divertenti» è la parola testuale, e l’unica volta che nel carteggio si parla di Garibaldi, ad opera di Engels, è per irridere alla «nave mercantile» che egli comanda in America e che rappresenterebbe «la flotta italo-ungherese nell’Oceano Pacifico»: i sarcasmi si alternano alle calunnie: e una volta Mazzini che ha comprato, con 10.000 franchi dei fondi italiani, «La Nation» di Bruxelles per condurre la campagna contro il socialismo, ed un’altra ancora sono Mazzini e Kossuth, «questi vecchi somari di cons pirateurs», che si sono prestati a un’insidia e a un tranello bonapartisti, per sfogare il loro esibizionismo e la loro ambizione. «Un lache et un miserable» è giudicato Kossuth, l’apostolo della rivoluzione ungherese; e quando si arriva alla rivolta milanese del 6 febbraio 1853, Marx si preoccupa solo di gettare un’ombra sul coraggio fisico di Mazzini assente dal centro di operazioni e la «grand affaire» viene definita «miserevole» e declamatoria.
«Bestioni di ferro», chiama in altra occasione i democratici tedeschi, rei di «credere sempre al suffragio universale» e di voler imporre al popolo «la loro pidocchiosa personalità»: tutte le responsabilità del fallimento del ’48 ricadono sulle correnti radicali e progressiste, e il linguaggio che arriva a usare in questi casi è infinitamente più violento di quello che adoprerà contro la reazione.
Fin da queste lettere, che appartengono al periodo più nero del suo esilio, a quello della miseria ostinata e implacabile rotta solo dalla generosità di Engels, appare con estrema chiarezza il disprezzo della democrazia e del razionalismo che egli portò sempre con sé, il suo culto della forza, dell’organizzazione e della disciplina, la sua ammirazione per tutti coloro che riuscissero a «cambiare la realtà» e il suo disgusto per le prediche, i sermoni, le declamazioni religiose o pedagogiche («padre Mazzini», dice a un certo punto). Polacchi, ungheresi, francesi, italiani, tutti gli emigrati dei vari «risorgimenti» appaiono a lui come «little» tribunizi e irresponsabili, demagoghi impudenti e sfacciati, agitatori frenetici e incoscienti, sfruttatori del sangue, delle speranze e dei denari altrui: Louis Blanc, che lo invita a una riunione per un fronte comune dei socialisti, ne riceve una risposta «bismarckiana» e «imperiale». A leggere i vari volumi del carteggio, con Engels, il marxismo appare ancor meglio come l’ultima teoria aristocratica, l’espressione più drammatica e più intransigente del «machiavellismo», della «volontà di potenza».

Giovanni Spadolini

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