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Discussione: Razza e Spirito

  1. #1
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    Predefinito Razza e Spirito

    Da parte di coloro che cercano di creare delle discordie fra noi e i nostri vicini vengono avanzati tre argomenti prin­cipali contro la dottrina della razza.

    In primo luogo si vuoi dare ad intendere che la dottrina tedesca della razza, quasi come maestra a scolari, assegni ad ogni razza un dato valore e quindi le ordini in un insieme, nel quale il primo posto spetterebbe alla razza nordica. E al­lora, naturalmente, razze, come per esempio, quella mediter­ranea, dovrebbero contentarsi di un secondo posto se non anche di una parte ancor più subordinata.

    Ciò è falso. Non si contesta che in Germania e altrove sono usciti libri di varia importanza ove si affermarono idee del genere. Ma la psicologia delle razze, o psicantropologia, che, in fondo, è essa sola chiamata a decidere in ordine ai valori razziali, ha fin dall’inizio sostenuto il principio, che ogni razza è a se stessa il supremo valore. Ogni razza ha in se stessa la misura dei propri valori e della loro gerarchia e non può essere misurata con i criteri di nessun’altra razza. È privo di senso e antiscientifico voler guardare la razza me­diterranea con gli occhi della razza nordica e valutarla secon­do la scala nordica dei valori — così come insensato e antiscien­tifico sarebbe l’inverso, cioè un analogo tentativo da parte della razza, per esempio, mediterranea –. Nella vita pratica ciò si ripete sempre di nuovo ed è quasi inevitabile. Ma nell’ordine della scienza un tale procedere urta contro la logica più elementare. Giudicare circa il valore « oggettivo » di una razza umana potrebbe esser cosa solo di quell’uomo, che stesse di là da ogni razza. Ma questa è una impossibilità, perché esser uomo vuoi dire esser condizionato dalla razza. Forse Dio conosce l’ordine gerarchico delle razze. Noi no.

    Il compito della scienza è di scoprire la legge, in funzione della quale si definisce la forma psichica e corporea di ogni singola razza. In tale legge di una razza è compresa una cor­rispondente gerarchia di valori. Si possono confrontare simili gerarchie — si può, per esempio, confrontare la gerarchia in­terna dei valori nordici con quelli, per esempio, mediterra­nei -—: Tali confronti sono anzi istruttivi, perché ogni cosa al mondo mostra più distintamente ciò che è quando è messa vicino ad un’altra cosa, che se ne distingue. Ma queste gerar­chie di valori non possono, in se stesse, venir valutate da un punto di vista sopraordinato, perché un tale punto di vi­sta ci è ignoto.

    L’uomo nordico deve esser nordico e quello mediterra­neo mediterraneo: così ognuno sarà se stesso, puro e schiet­to, secondo la sua natura propria. Questa è la persuasione della psicologia tedesca delle razze, che io rappresento; per­suasione condivisa anche dalla politica razziale tedesca. L’uf­ficio politico-razziale del partito nazionalsocialista ha fatto stampare e diffondere nelle scuole una tavola con i vari tipi ove si legge a grandi lettere: Ogni razza costituisce a se stessa il supremo valore (1).

    Il secondo errore commesso nelle obiezioni già ricordate consiste nel far credere che secondo la scienza tedesca una razza si distingua dall’altra per avere in proprio, a differenza di questa, certe qualità tipiche; onde, per esempio, la razza nordica sarebbe caratterizzata da una particolare facoltà discriminatrice, dall’attivismo, dal senso della responsabilità, dalla coscienziosità, dallo spirito eroico, capacità che invece mancherebbero in altre razze. Non si contesta, che in alcune antiche opere di antropologia, anche tedesche, si possono trovare tali vedute antipsicologiche. Ma come in fatto di calzature si interroga un calzolaio, in fatto di navigazione un marinaio, così in fatto di leggi psicologiche sarebbe bene ascoltare lo psicologo, e non il competente in anatomia e antropologia.

    La psicologia tedesca delle razze già da anni ha ferma­mente sostenuto, che la « razza dell’anima » non risiede in questa o quella qualità. Le qualità si riferiscono agli uomini quali singoli, l’uno può aver questa qualità e un altro una diversa. Per esempio, lo spirito eroico si trova indubbiamen­te in molti uomini nordici, ma altrettanto positivamente an­che in uomini di altra razza. Lo stesso si dica nei riguardi dell’attivismo, della facoltà di discriminazione e così via. La razza dell’anima non consiste nel fatto di possedere questa o quella dote, ma nella funzione varia che le doti hanno nei vari tipi. Lo spirito eroico di un uomo nordico e quello di un uomo mediterraneo possono essere assolutamente della stessa « grandezza », e purtuttavia hanno un volto diverso, perché si esprime nei due casi in forma e funzione diversa.

    Il procedimento infantile di chi si mettesse a collezionare le qualità singole che si ritrovano nei vari esponenti di una data razza, mettiamo di quella nordica, e poi credesse di aver colto, per mezzo di tali qualità, l’essenza della razza, sarebbe paragonabile a quello di chi volesse descrivere più o meno così l’apparenza corporea, per esempio, della razza nordica: un naso, una bocca, delle braccia, delle mani. Certo, essa ha tutto questo ed altro ancora. Ma tutte le altre razze hanno parimenti naso, bocca, braccia, mani. Non è dunque qui che risiede il nucleo essenziale della razza: esso non ha a che fare con il possesso di queste o quelle parti corpo­ree. Dalla razza dipende anzitutto la forma del naso, la forma della bocca e il modo con cui la bocca viene usata o si muove; dalla razza è determinata la forma delle braccia e delle mani e il modo in cui esse si muovono e fanno da strumenti espressivi nel tipo, che le possiede. Ora, nessuno potrà contestare che un uomo di razza mediterranea si muo­va in modo diverso da quello nordico, che egli cammini di­versamente, balli diversamente, accompagni con altri gesti il suo dire. Nessun uomo, che abbia occhi, può contestare que­sto fatto. Chi porrà ora la questione circa quello dei due movimenti o dei due gesti che sia più pregevole, il mediter­raneo o il nordico? Questa questione sarebbe priva di senso. Ognuno segue la sua specie, il suo stile.

    I movimenti del corpo sono l’espressione del moto del­l’anima. Ciò appare nel modo più chiaro nel giuoco dei mu­scoli del viso e nei gesti delle braccia e delle mani con cui chi parla accompagna il proprio discorso. Perché egli muo­ve le mani proprio così e non altrimenti? Perché il moto specifico della sua anima gli prescrive esattamente quei gesti delle mani. Lo stile del moto dell’anima determina lo stile del movimento del corpo le due cose ne vanno a costituire una sola.

    Un esempio banale dalla vita d’ogni giorno può chiarire l’idea. Chi è più adatto a guidare un’auto, l’uomo nordico o quello mediterraneo? Anche questa domanda è priva di senso. Né l’uomo mediterraneo né quello nordico sono, in se stessi, più adatti per una particolare attività. Devesi in­vece dire che all’interno delle due razze vi sono diversi uo­mini dotati per guidare un’auto. Se lo sono, allora quelli di razza nordica lo faranno in un modo nordico, che farà ap­punto trasparire la loro razza. Se essi sono invece mediter­ranei, lo faranno in modo mediterraneo, cosa che farà tra­sparire la loro natura mediterranea. E questi due modi si distinguono come segue. L’autista mediterraneo è padrone del momento: è sempre presente, in qualsiasi punto. Inve­ste in piena velocità una curva, scarta o frena con un atto pronto, sicuro e istantaneo — più la vicenda è pazza e pe­ricolosa, più la sente magnifica —. Su questo piano un au­tista nordicamente intonato non può seguirlo non perché egli non sappia guidare, ma perché la legge del suo movi­mento psichico e materiale lo porta ad un altro stile del gui­dare. L’uomo nordico non vive in quel che avviene nel mo­mento, si preoccupa di più di quel che avverrà: egli controlla la lontananza così come il mediterraneo — nel caso in que­stione — è invece signore del momento. Non affronterà ve­locemente la curva, ma la supererà con un ampio arco; per lui la curva è « bella » se può prevederla e lasciarla in­dietro quasi senza darvi rilievo. Il guidatore mediterraneo ama l’impreveduto e di fronte ad esso si mantiene signore del momento. Il guidatore nordico si tiene sempre attento a quel che può sopravvenire, anche come pura possibilità. Per questo egli ha creato un ordinamento del traffico stradale che contempla ogni possibile caso e che disturberebbe un guidatore mediterraneo forse più di quel che invece non lo facilitasse. Privare un guidatore di stile mediterraneo del piacere della sorpresa, non significa per nulla andargli in­contro.

    Il terzo equivoco consiste nel far pensare che il popolo tedesco si identifichi con la razza nordica e quello italiano con la razza mediterranea. Ciò di solito non lo si dice espres­samente, ma lo si sottintende. Invece sta di fatto che il popolo tedesco è un miscuglio di varie razze, anche se in esso l’elemento nordico predomina. In esso son presenti san­gui diversi, ad esempio anche sangue mediterraneo. Del pari, il popolo italiano consta di diverse razze e nella parte me­ridionale della penisola può darsi che la componente medi­terranea vi predomini. Ma ciò non vuoi dire che nel popolo italiano non sia presente un sangue diverso, ad esempio, un po’ di sangue nordico. Non si può pensare che i due popoli siano separati da una netta frontiera razziale, perché essi hanno invece molto di comune nel loro sangue. Questa parentela del sangue risale alla prima epoca romana e da quel tempo si è spesso rinnovata. E nelle due civiltà, in quella germanica e in quella romanica, le due leggi — quella del tipo nordico e del tipo mediterraneo — sono parimenti in giuoco, secondo azioni e reazioni: con risultati diversi per ciascuna delle due civiltà.

    Ogni tentativo di mettere in cattiva luce la politica raz­ziale tedesca e di creare un dissenso culturale fra i due po­poli amici sulla base dei tre equivoci qui segnalati è dunque condannato all’insuccesso. Le conoscenze della psicologia del­le razze e dottrina dell’anima delle razze trovano conferma ad ogni passo nel campo della politica internazionale e colo­niale e dimostrano la loro utilità dovunque si entri in rap­porto con uomini di tipo diverso. Esse non mirane a sepa­rare, ma a connettere i popoli, fornendo le basi di una com­prensione scientificamente illuminata fra tipo e tipo.

    Ludwig Ferdinand Clauss

  2. #2
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    Predefinito Re: Razza e Spirito

    Abbiamo ritenuto opportuno pubblicare questo scritto di Ludwig Ferdinand Clauss, che è il massimo esponente della “psicologia razzista” o, come anche egli la chiama, della “scienza dell’anima delle razze”, per una triplice ragione.

    In primo luogo, le considerazioni del Clauss servono ad eliminare dei malintesi, che, come egli stesso accenna, non di rado sono creati ad arte per pregiudicare una intesa fra il razzismo tedesco e quello italiano. In secondo luogo, già i rapidi accenni contenuti in questo scritto del Clauss circa i compiti e lo speciale campo di azione del razzismo psicologico possono servire a dare il senso di ricerche razziali, intorno alle quali da noi ancora si sa poco ma che sono essenziali per una formulazione integrale della dottrina fascista della razza. Infine la posizione assunta dal Clauss nei riguardi della plu­ralità delle razze e dei loro rapporti ci da modo di precisare lo specifico punto di vista che, secondo noi, deve caratterizzare, in sede culturale e spirituale, il nostro razzismo e di­stinguerlo dai principi ai quali può invece inspirarsi la for­mulazione dell’idea di razza in popoli diversi, da quello ita­liano.

    Poiché il primo punto è già esaurito dalle considerazioni del Clauss, è sul secondo e sul terzo che qui ci proponiamo di dire qualcosa, ai fini di un generale orientamento.

    Soprattutto avendo riguardo per le finalità attive e crea­tive proprie al razzismo fascista, è d’importanza fondamen­tale far superare alla dottrina della razza quelle sue forme scientiste — astrattamente antropologiche e anatomico-biologiche – per via delle quali essa si esaurirebbe in una mera scienza naturale classificatoria. Il razzismo fascista deve partire da una idea, che è anche la verità-base della più mo­derna biologia, vale a dire che l’uomo non è un fascio di “funzioni” e di elementi bio-psichici, bensì una unità orga­nica, nella quale si esprime una forza formatrice dall’interno.

    Sapere riconoscere attraverso le forme di ciò, in cui essa si esprime esteriormente e corporalmente, il volto e il signi­ficato di questa forza inferiore, procedere quindi alla più precisa individuazione delle caratteristiche anatomiche, morfologiche e psicologiche, ma senza fermarsi qui, raccoglien­do invece tutto questo materiale per poter, sulla base di esso e del suo valore di segno, sintomo e simbolo, risalire fino alla razza interiore — questo dovrebbe essere il criterio di una ricerca veramente completa, veramente superante gli schemi del positivismo e del materialismo ottocentesco.

    Perciò bisogna riconoscere la relatività di quel razzismo antropologico, il quale si arena in uno studio disanimato di crani e di ossa, e crede far qualcosa di conclusivo stendendo degli elenchi di “caratteristiche” astratte. È, certo, cosa per nulla indifferente, che un individuo abbia il cranio di una data forma, un dato angolo facciale, una data proporzione fra le membra, un certo ritmo delle reazioni psichiche, capelli e occhi di un dato colore, e via dicendo. Ma tutti questi elementi cominciano a parlare, cominciano a significare davvero qualcosa, solo quando si giunga ad intuire la funzione che essi hanno in un dato individuo o in un dato gruppo etnico. Così, ad esempio, è noto che dolicocefali a statura alta sono non solo i nordici, ma anche certi ceppi neri e che occhi chiari si trovano anche fra i Herbert e i Mauri, mentre un colorito chiaro di pelle è proprio altresì agli Aino dell’Estre­mo Oriente. Ma è evidente che questi elementi anatomici e morfologici, in se stessi uguali in varie razze, in ciascuna di esse hanno un significato diverso, hanno un diverso valore funzionale ed espressivo in ciascuno dei casi. Ed è quindi evidente che fermarsi a parlar di crani e a misurare indici e angoli significa fermarsi ancor meno che a mezza strada e, nel parlare di razza a questo livello, è come cercar di impa­dronirsi di un corpo inseguendone l’ombra. Ai fini pratici, creativi e perfino politici della dottrina della razza, se è im­portante individuare scheletri, crani e elementi tipici del cor­po e della psiche, per uscire da un ambito da museo è dunque necessario far parlare il tipo che così si ricostruisce, penetrare che cosa esprime una data forma corporea nel suo esser normalmente determinata con quei caratteri, e non con altri, insomma presentire di che cosa sia simbolo una data strut­tura.

    E questa ricerca, per così dire, razzista in secondo grado, è di tanto più importante quando ci si trovi dinanzi a razze che hanno perduto la loro purità originaria, a popoli che, pur presentando un certo tipo comune relativamente stabile, constano di sangui diversi. In tali casi, l’indagine che, parten­do da tipi conservanti ancora una certa purità, riesca a co­gliere l’elemento centrale interiore e essenziale, vale a dire la razza come potenza primaria formatrice, epperò anche la legge a cui normalmente corrisponde la sua espressione, cor­porea e caratteriologica, con ciò stesso si trova in possesso di elementi sufficienti per orientarsi negli altri casi, ove si è affermata la potenza degli incroci. Vogliamo dire che, per tal via, si avrà modo di riconoscere fino a che punto certe carat­teristiche fisiche di dati individui esprimano davvero la legge della loro razza, e fino a che punto invece il loro uso è di­storto, la loro presenza è casuale perché la loro funzionalità rimanda ad un principio e ad un modo di essere, che non è quello della razza di cui si tratta.

    Poiché precisamente queste sono le idee direttive della psicantropologia o “dottrina dell’anima delle razze” del Clauss è evidente l’interesse che essa può avere per la costruzione di un razzismo fascista completo, non esaurentesi in un ca­pitolo di anatomia o di storia naturale. Si tratta, naturalmen­te, di direttive metodologiche, con indipendenza dai risultati che, in questo dominio, il Clauss personalmente crede di aver raggiunti: il campo è vasto e la sua esplorazione è appena cominciata, specie se si consideri che, qui, non solo le forme , fisiche debbono essere considerate come segni, da cui si deve risalire ad un corrispondente significato, ma anche le doti psicologiche — lo si è visto dallo scritto che abbiamo tradotto — esse stesse vanno studiate nella loro funzionalità razziale e considerate non come punti di arrivo, ma punti di

    partenza per giungere a scoprire lo “stile”, il modo interno di essere e V “anima” di una data razza. Invece, la psicologia fino ad oggi ha seguito una considerazione affatto indivi­dualistica delle doti psichiche; si è data ad una astratta, ge­nerica individuazione e classificazione di esse, guardando al singolo come tale o come elemento di una uniformità stati­stica e non al singolo come portatore di una data razza, razza dello spirito oltre che del corpo. La dottrina fascista della raz­za, procedendo su tale via, è dunque destinata a dare un nuo­vo, rivoluzionario indirizzo all’insieme stesso delle scienze pro­priamente psicologiche.

    Ed ora al secondo punto. Se abbiamo volentieri segna­lata la importanza che per noi possono avere le direttive di metodo della psicantropologia, noi dobbiamo formulare delle riserve nei riguardi del problema dei valori e, propriamente, nei riguardi della differenza e della gerarchia delle razze. Qui il punto di vista fascista, nella sua romanità, è diverso da quello del Clauss così come da quello di vari altri razzisti te­deschi, i quali corrono il pericolo di finire in un relativismo e in un particolarismo di ben angusto respiro. Parlando del­l’idea di impero e del prestigio che ne costituisce la base, Mussolini ha fermamente sostenuto, nel suo discorso dell’8 settembre 1938 a Trieste, la necessità di “una chiara severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime”.

    Ora, è evidente che una tale veduta del razzismo mussoliniano è in preciso contrasto con la persuasione del Clauss, che ogni razza sia a se stessa il supremo valore, che fra le razze si possano sì stabilire dei confronti, ma non dei rap­porti gerarchici, implicanti la conoscenza del loro valore oggettivo. « II valore oggettivo di una razza potrebbe essere conosciuto solo da quell’uomo che stesse di là da ogni raz­za — ha detto il Clauss — cosa impossibile, perché esser uomo vuoi dire esser condizionato dalla razza ».

    La debolezza di una tale posizione è abbastanza evidente. Per precisare, diremo che, naturalmente, noi parliamo dei va­lori veramente spirituali di una razza, di quelli, da cui dipen­de la sua potenza civilizzatrice: non di valore di “stile” su di un piano contingente, perché possiamo volentieri conce­dere, se lo si desidera, che, nell’esempio citato dal Clauss, il “modo” di guidare un’auto dell’uomo nordico non può esser messo al disopra o al disotto di quello più dinamico dell’uomo “mediterraneo”, perché è semplicemente un altro modo, oggettivamente né superiore né inferiore al primo. Ma le premesse di una gerarchia o di un primato, evidente­mente, si riferiscono ad un piano diverso.

    E qui non si può dire che l’uomo è condizionato dalla sua razza fino al punto di non potersi pronunciare nei ri­guardi di un’altra, pena venire a conseguenze assurde e inaccettabili. Anzitutto dal punto di vista teoretico. Se l’uomo fosse davvero condizionato dalla razza in questo senso unilaterale voluto dal Clauss, è evidente che non potrebbe fare nemmeno la psicantropologia di una razza diversa, per­ché non potrebbe davvero comprenderla, ma solo ne potreb­be dare una immagine deformata seguendo il proprio punto di vista. In secondo luogo, riprendendo un noto argomento contro lo scetticismo, se si ammette che l’uomo, tutto l’uomo, con tutte le sue verità, è condizionato dalla razza, ciò varrà anche per ogni teorico del razzismo, che come tale non cessa di esser uomo e, secondo il Clauss, sarebbe dunque condi­zionato dalla sua razza. Ma condizionata dalla razza e relati­va sarà allora anche ogni veduta che questo teorico del raz­zismo ritiene vera, epperò la stessa affermazione del Clauss, che ogni razza costituisca a se stessa l’estremo valore. Lungi dall’avere un qualunque valore oggettivo, scientifico, questa affermazione allora rifletterebbe solo il modo di vedere det­tato da un certo sangue, valido per esso e non per un altro.

    Questa obiezione non è frutto di sottigliezze dialettiche, ma riflette la verità indiscutibile, che del razzismo sono pos­sibili diverse formulazioni e che queste formulazioni risen­tono del ceppo e della tradizione a cui appartiene chi le esprime. Così noi possiamo affermare che se il concepire insularmente le razze e il ripugnare a gerarchizzarle riflette forse una inclinazione di certe diramazioni della razza tede­sca di oggi, il nostro razzismo ha in proprio una diversa verità, quella espressa appunto dalle parole già citate di Mussolini.

    Il punto di vista relativista del Clauss è tanto meno sostenibile, in quanto ché la sua scienza non si è applicata a razze assolutamente diverse, come potrebbero essere, per esempio, i negri e i nordici, gli indigeni della Terra di Fuoco e gli Slavi, ma a razze che, come quella nordica, mediterra­nea, dinarica, sono indubbiamente della stessa famiglia “aria”. Ora per porre il problema della gerarchia, non c’è bisogno di risalire razionalisticamente a valori di carattere assoluta­mente e astrattisticamente universale. È sufficiente riferirsi a quei valori spirituali che sono parimenti presenti in razze della stessa famiglia, ma in alcuna in più alto grado, per cui queste possono legittimamente sovrastare sulle altre, eserci­tare una superiore funzione direttiva, creare i principi di una civiltà comune, anche se suscettibile di assumere, nelle altre razze, espressioni distinte, nelle quali si potrà dare un pieno riconoscimento alle differenze individuate dalla ricerca psicantropologica. Ed è esattamente questa la premessa dell’idea­le imperiale romano e, del resto, di ogni ideale che sia dav­vero imperiale, non “imperialistico”.

    Infatti, se non esistesse alcun comun denominatore fra i criteri di valore delle varie razze, queste, di diritto, non po­trebbero stare che l’una a lato dell’altra, i rapporti reciproci non potrebbero essere che estrinseci e contingenti, data la mancanza di una vera base di intesa, e quindi ogni affermarsi di una razza su di un’altra non sarebbe che un puro fatto di violenza. Così ogni dinamismo espansivo verrebbe o con­dannato, o materializzato. L’idea romana, la quale, almeno all’interno di un gruppo di razze di ceppo affine, riconosce il diritto di una superrazza, esponente eminente dei superiori valori ad esse tutte comuni, supera queste conseguenze inac­cettabili.

    Infine l’incomunicabilità dei valori razziali creerebbe una seria pregiudiziale anche nei confronti dei compiti attivi e se­lettivi del razzismo. Infatti il Clauss, come appare anche dal­l’ultima parte del suo scritto, ammette senz’altro che in po­poli, come quello tedesco o italiano, esistano varie compo­nenti razziali. Come conciliarle, se esse fossero davvero ete­rogenee? E come decidersi di fronte al problema di metter l’una o l’altra al centro del processo destinato a purificare, dignificare e potenziare il tipo generale di un popolo? Si badi, questo problema il Clauss senz’altro se lo pone in un suo li­bro notevole, intitolato « Die nordische Seele: egli giunge perfino a dire che nel popolo tedesco la razza nordica, lungi dall’essere un fatto, è piuttosto una decisione ~ vale a dire, l’uomo tedesco, in cui si incontrano vari sangui, deve optare per il suo elemento nordico e far sì che esso dia il tono a tutta la sua vita. Come sarebbe mai possibile ciò, se “og-gettivamente” non si potesse pronunciare alcun giudizio? Co­me si potrebbe eleggere l’elemento nordico se non si av­vertisse la sua superiorità sugli altri compresenti?

    Lo stesso vale per la razza italiana. Se il noto manifesto degli intellettuali ha dichiarato che il tipo italiano è nordico-ario, ciò, evidentemente, non si deve interpretare nel senso di un mero constatare l’esistenza di questo tipo in tutto il popolo italiano, in sé così variopinto, ma nel senso, che pro­prio quel tipo è davvero rappresentativo per il nostro mi­gliore e più puro sangue, a differenza di ogni altro. E se noi studiamo razzisticamente le testimonianze delle antiche tradizioni, ci rendiamo conto delle convergenze. Il più alto ideale che cerca di dar forma al nuovo tipo dell’uomo fa­scista ricorda lo stile, la dignità e la forza della prima razza romana, quella che, secondo la più antica testimonianza gre­ca, fece apparire il senato romano come un “concilio di re”; esso ricorda lo stile dorico e virile della prima Ellade; esso ricorda certi tratti delle stesse élites arie dell’Oriente indo­germanico. Di nuovo, qui si afferma una razza dello spirito unica in ceppi diversi delle razze del corpo della stessa fa­miglia e con caratteri effettivi di superrazza, di razza domi-natrice non per un potere materiale, ma prima di tutto per una dignità spirituale. Rispetto ad essa, le differenze di “stile”, che la ricerca del Clauss potrà individuare, eviden­temente rappresentano un elemento secondario, riguardante l’espressione varia di un contenuto unico. E solo tenendo ben presente tutto ciò il razzismo, all’atto di discriminare e di superare la deviazione individualistica e egualitaria anche nel campo dello spirito, potrà conseguire risultati validi, confor­mi sia alla nostra tradizione che alla nostra superiore voca­zione.

    J. Evola

  3. #3
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    Predefinito Re: Razza e Spirito

    Possiamo affermare che noi europei siamo spiritualmente e razzialmente siamo all'apice della gerarchia delle razze dal punto di vista animico e razziale?

  4. #4
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    Predefinito Re: Razza e Spirito

    No. Bentornato comunque!

  5. #5
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    Predefinito Re: Razza e Spirito

    Grazie.

 

 

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