Tavola rotonda: Lucio Colletti, Augusto Del Noce, Cesare Luporini, Rosario Romeo
«Mondoperaio», a. XXXV, n. 12, dicembre 1982, pp. 75-85.
Mondoperaio
Al pensiero di Croce, nel trentesimo anniversario della sua scomparsa, «Mondoperaio» ha dedicato, nei fascicoli di ottobre e di novembre, una serie di saggi, che esaminano i molteplici profili della sua opera.
In questa tavola rotonda, vorremmo cercare di ricomporre le «disjecta membra» di quest’opera, quanto mai eclettica e multiforme e di tracciarne un bilancio critico. E, soprattutto, rintracciare le ragioni di fondo, filosofiche ed extrafilosofiche, che hanno reso possibile l’egemonia crociana sulla cultura italiana per molti anni.
Colletti
Riconsiderata oggi l’opera di Croce, con tutto il rispetto che le si deve, suscita in me questa impressione complessiva: da una parte mi sembra un’opera di straordinaria importanza dal punto di vista della divulgazione, ad altissimo livello, della cultura romantica tedesca in Italia, un’opera quindi di svecchiamento, di sprovincializzazione della nostra cultura, soprattutto quella dell’Italia cattolica d’allora; d’altra parte, vedo una minor qualità di Croce come filosofo, in senso stretto. I volumi della «filosofia dello spirito», mi appaiono come l’elemento più debole della sua costruzione. Quanto al Croce storico, mi limito a richiamare quelle che forse possono considerarsi due testi antitetiche; la tesi espressa da Federico Chabod nel celebre saggio «Croce storico», e quella espressa in parte da Romeo, ma in modo più esteso da Galasso, nel suo saggio su Croce storico. Viene, infine, il Croce etico-politico. Più ancora che nel Croce politico, nel Croce etico, mi sembra risiedere un elemento importante, ancora vivo della sua opera. Sento ancora l’efficacia che si sprigiona dalla pagina di Croce in quanto «maestro di vita», conoscitore profondo delle passioni umane, alto moralista. Un uomo il cui incitamento alla serietà del vivere, secondo me, oggi vale più che mai.
Questi, in sintesi, i quattro rapidi scorci di Croce, che offro come elemento di riflessione. Volendo motivare, brevemente, il giudizio più ostico tra quelli che ho anticipato, cioè il giudizio sulla minore qualità di Croce come filosofo, indicherò alcune questioni di fondo. In ordine all’estetica, va rilevata la commistione di tesi profondamente eterogenee – non solo dal punto di vista teorico, ma storico culturale – per quanto concerne il concetto di «intuizione». Agisce da una parte una tradizione kantiana, soprattutto nell’Estetica del 1902, dove l’intuizione appare come rappresentazione dell’individuale. È praticamente la tesi di Kant formulata nell’Estetica trascendentale. Contemporaneamente, agisce un concetto di intuizione, negli scritti di estetica successivi, che è desunto da Schelling, e che indurrà Croce a parlare della «cosmicità» dell’opera d’arte. L’intuizione estetica si presenta, qui, come l’indistinzione del possibile e del reale, del sogno e della veglia, è dunque la «totalità» schellinghiana che precede le distinzioni dell’intelletto. Ed è ovvio che l’intuizione così intesa, come totalità del possibile e del reale, quindi come cosmicità, è diametralmente opposta all’intuizione come rappresentazione dell’individuale empirico, della tradizione kantiana.
In ordine alla logica, fallisce – e qui si conferma lo scarso rigore del Croce als philosoph nel senso tecnico della parola, – la tesi fondamentale dell’identità di «giudizio definitorio» e «giudizio storico» o percettivo. Questa identità dovrebbe essere fondata sul carattere di universale concreto che è proprio, secondo Croce, della sintesi. Ora, il giudizio definitorio, cioè il giudizio che definisce le quattro categorie o forme dello spirito, è, come Croce stesso riconosce, universale nel soggetto e nel predicato. Croce ne parla come di una «tautologia sublime». È evidente che, in questo caso, non ricorre la struttura dell’universale concreto. Manca l’elemento della concretezza. Croce si salva con una scappatoia: afferma, cioè, che il giudizio definitorio ritrae la sua storicità e concretezza dalla situazione in cui, di volta in volta, viene pronunciato. Ma, poiché questa situazione non entra a costituire la struttura del giudizio, è evidente che l’argomento non tiene.
Aggiungerei, a questo punto, la debolezza, dal punto di vista logico-tecnico, delle pagine di Croce sulla dialettica. Ho in mente soprattutto il saggio su Hegel, dove Croce mostra di non intendere la differenza tra «contraddizione» e «contrarietà» e liquida come «avvocatesche obiezioni» le critiche di Trendelenburg. Qui Croce si scopre veramente filosofo minore, proprio in ordine ai problemi della logica dialettica.
Tornando alla Concezione della storia, credo sia ben fondata la tesi riproposta recentemente da Pietro Rossi nel suo saggio pubblicato su «Mondoperaio» (nr. 10, ottobre 1982). Schematizzando al massimo, la posizione di Croce si può dividere in due fasi. La prima fase è quella legata al periodo dei suoi studi marxisti e dei suoi saggi sul marxismo. È la fase più interessante, quella in cui Croce giustamente svolge una critica serrata della «filosofia della storia». Questo è l’aspetto più valido.
Ma, già a partire dagli scritti del 1906-1908 – Ciò che è vivo e ciò che è morto nella filosofia di Hegel, La filosofia della pratica, e finalmente la Logica stessa – a questa iniziale concezione della storia senza soggetto se ne sostituisce un’altra, il soggetto della storia è lo Spirito assoluto. È un ritorno in piena regola della filosofia della storia. Croce ha sposato l’identità hegeliana di finito e infinito. Qui si radica quello che giustamente Chabod ha chiamato il «provvidenzialismo storicistico» di Croce. È caduto l’anatema giovanile contro la filosofia della storia. Ed è ritornata, per contro, una filosofia della storia in cui il soggetto della storia è lo Spirito con la maiuscola. Donde poi la «religione della libertà», la celebrazione della presenza del divino nel mondo, ecc. L’individuo decade qui a mera «istituzione».
Mentre il Croce degli scritti giovanili intorno al marxismo discuteva, come ha ben mostrato Pietro Rossi, i maggiori contributi del tempo alla metodologia storiografica, quali il Lehrbuch di Bernheim oppure il Grundriss der Historik di Droysen, oppure la stessa Introduzione alle scienze dello spirito di Dilthey, per non parlare delle opere di Rickert e di Simmel, questo dialogo, in seguito, si riduce o cessa. È indicativo il fatto che Croce mostri di ignorare, in effetti, gli scritti di metodologia storica di Max Weber. Oppure la reinterpretazione di Hegel avviata da Dilthey nel 1905, che tanto peso ebbe sugli sviluppi dell’hegelismo nel novecento. O, infine, gli esiti del marxismo degli anni ’30. Ho in mente in particolare, sebbene l’opera fosse difficilmente reperibile, Storia e coscienza di classe di Lukacs. Sotto questo profilo, quindi, il ritorno alla filosofia della storia (lo Spirito concepito come il soggetto della storia) si accompagna anche a una chiusura di Croce rispetto a momenti importanti della cultura europea e, indubbiamente, anche a una sua minore influenza su di essa, influenza che invece era stata fortissima nella fase del dibattito intorno al revisionismo.
Ultimo punto: l’atteggiamento di Croce verso la scienza. Trovo giusta, come punto di partenza, la considerazione prospettata da Francesco Barone, («Mondoperaio» n. 11, 1982) che nel suo giudizio sulla scienza Croce utilizza le posizioni di illustri scienziati e filosofi della scienza dell’epoca. In particolare Mach e Poincaré. Così come è anche vero che Croce si appropria sostanzialmente delle posizioni di Bergson e Le Roy. Credo, però, che qui insorga un elemento di contraddizione interna al sistema crociano: conferma di ciò che dicevo all’inizio circa quella sorta di eclettismo che caratterizza spesso l’opera di Croce in ordine ai problemi teorici più importanti. Mi spiego: in quanto critico del panlogismo hegeliano, in quanto filosofo interessato a distinguere la dialettica degli opposti dai distinti, Croce avrebbe dovuto certamente rivalutare l’intelletto, il Verstand, in opposizione e a differenza della Vernunft (ragione) dialettica. Accade invece che la sua presa di posizione sulla scienza intesa come pseudo-concetto e, quindi, non come momento teoretico-conoscitivo, ma soltanto pratico-utilitario, implichi la riduzione dell’intelletto alla sfera pratico-economica. Laddove invece, per la filosofia dei distinti, sarebbe stata necessaria una rivalutazione dell’intelletto proprio nel suo aspetto teoretico.
Romeo
Come se Croce riducesse l’aspetto teoretico alla critica della scienza…
Colletti
Non mi fraintendere. Ho detto che Croce avrebbe avuto bisogno di dare una qualificazione teoretica all’intelletto; e che questa gli sarebbe stata indispensabile per fornire un fondamento alla sua filosofia dei distinti, alla sua critica del panlogismo hegeliano, come anche dell’attualismo gentiliano. Invece, in Croce una tale valutazione del ruolo conoscitivo dell’intelletto è mancata e l’intelletto è stato colto soltanto nella sua funzione pratico-utilitaria. La critica che avanzo non mi sembra affatto peregrina.
Luporini
Colletti è partito subito da un’operazione di scomposizione di Croce. Io vorrei invece abbracciare, con uno sguardo d’insieme, i fattori che hanno determinato l’egemonia culturale filosofica, etico-politica di Croce. Anzi, del blocco Croce-Gentile. Anche quando hanno operato divisi e contrapposti, filosoficamente e politicamente, essi si dividevano il campo, ma non a caso, per tanti anni almeno, i filosofi italiani erano stati sempre dentro questa contesa. Ricordo, per esempio, filosofi come Calogero o come Colorni, che poi si sono staccati dall’alveo dell’idealismo italiano, ma sono rimasti a lungo impigliati dentro di essa.
A cosa è dovuto il sorgere di questa egemonia? Qui intervengono elementi extra-filosofici. C’è stato, io credo, un bisogno di omogeneizzazione e unificazione culturale dell’Italia, almeno dal punto di vista delle classi dominanti; cosa cui il positivismo aveva mal sopperito, in quanto filosofia particolarmente debole concettualmente, oscillante tra una reverenza scientistica ai fatti e una metafisica molto rozza. Ritardatario rispetto al positivismo europeo, con scarse radici, gli rimaneva di contro un vieto spiritualismo cattolico, anch’esso ritardatario rispetto al movimento della spiritualità cristiana nel resto del mondo.
Anche la reazione antipositivistica europea, tuttavia, era legata a tante cose tra cui i mutamenti del pensare scientifico, a un’autocritica della scienza che poi è stata una delle grandi molle del suo progresso, il progresso della scienza.
Questa reazione antipositivistica di Croce e Gentile assume in Italia l’apparenza di una grande robustezza teorica che sembra differenziarla dal resto della reazione antipositivistica europea. Nello stesso tempo conserva e sublima l’idea del progresso, rifacendosi a Hegel, ecc. Questo andava ancora bene per la borghesia italiana.
Ma questa apparente robustezza era proporzionale alla debolezza dell’avversario, cioè del positivismo. E qui c’è la questione delle scienze toccata da Colletti, rifacendosi a Barone. Barone difende Croce, giustamente direi. Ma la posizione crociana sulle scienze era una posizione bloccata, che intendeva esprimere una verità definitiva. Non ci sono gli elementi da cui si è invece sviluppata la grande epistemologia scientifica nel resto d’Europa.
Dico questo pur non accettando le lamentele, ridicole, che ancora oggi fanno una serie di scienziati e filosofi della scienza italiana, sostenendo che è tutta colpa dell’idealismo. Ma l’idealismo faceva il suo mestiere. Erano gli scienziati italiani che non erano in grado di rispondere e di elevare un’altra problematica. Basta pensare a casi tragici, come quello di Peano, il cui pensiero è alle radici della nuova epistemologia e della logica moderna, e fu invece messo ai margini dai matematici italiani.
Romeo
A me interessa molto sentire i filosofi. Non capisco, però, perché l’idealismo faceva il suo mestiere quando sminuiva il valore, per esempio, della scienza, e Croce invece era in contraddizione con se stesso, quando, da idealista, ne negava il valore teoretico.
Colletti
Luporini non ha parlato di contraddizione. Ha detto che la posizione di Croce era in principio storicamente giusta in quanto per lo meno ricollegata a posizioni come quella di Mach e Poincaré. Ma che era una posizione bloccata, senza sviluppo.
Romeo
Giochiamo a non intenderci. Volevo chiedere soltanto perché, se si dice che l’idealismo faceva il suo mestiere (cioè era nel corso logico interno necessario alle sue premesse, quando giungeva a negare il valore teoretico della scienza), si dice a Croce idealista, che faceva esattamente questo, che era in contraddizione con se stesso. O Croce era un coerente idealista e non era contraddittorio, oppure l’idealismo non ha come risultante necessaria questo.
Luporini
Io ho detto che l’idealismo faceva il suo mestiere di fronte agli scienziati italiani che non hanno saputo farlo in ambito epistemologico, di riflessione sulla scienza. Questa debolezza permane tutt’oggi.
Ma un altro elemento di forza rispetto al resto della reazione anti-positivistica europea è il fatto che Croce e Gentile erano partiti da Marx con l’apparenza di superarlo incorporandolo. Questo naturalmente contribuiva a dare un’apparenza di concretezza e di robustezza alla loro impostazione. Questa robustezza, però, è tutta incentrata su un impianto filosofico speculativo. E in Croce addirittura è incentrata sulla forma del sistema articolato. Forse Croce è stato l’ultimo filosofo, di rilevanza internazionale a produrre un sistema, che né Husserl, né Russell né Peirce, non dico Wittgenstein né Heidegger, si sono sognati di produrre. E questo è un aspetto, visto oggi, molto arcaico, un punto di forza ma insieme di debolezza.
Ancora fra le due guerre, a livello internazionale, Croce figurava tra i grandi filosofi. E in Italia si produsse l’illusione, un po’ ridicola, che noi fossimo alla testa della filosofia mondiale. Anche durante il fascismo, nonostante il fascismo. Una volta mi accadde di dire a Luigi Russo: cosa vuol dire essere alla testa quando nessuno ci viene dietro, e tutto il resto va in un’altra direzione? Eppure anche Gramsci ci credeva. Pensava che si dovesse scrivere l’Anti-Croce, come Engels aveva scritto l’Anti-Dühring. Tra i comunisti, anche Togliatti e Sereni ne erano convinti. Ma un’impresa simile, già nel ’44-’45, appariva, ad alcuni di noi intellettuali comunisti, una cosa surannée, senza interesse teoretico.
Penso siano questi i motivi italiani del dominio di Croce, in Italia. A cui va aggiunta la sua enorme operosità culturale. Soprattutto come storico. Non conosco tutto quello che hanno detto gli storici italiani su Croce. Resto molto legato a quel bellissimo articolo di Chabod nella «Rivista Storica Italiana» su Croce storico, appassionato e dilaniato con sé stesso.
Poi c’è il discorso su Croce politico. Anche qui l’influenza di Marx è stata grande. Un Marx letto e interpretato in un certo modo, quello che poi Croce riassumeva nell’espressione «Machiavelli del proletariato».
Mondoperaio
C’è un classismo aperto in Croce, di ascendenza soreliana. Basta leggere la prefazione alle «Réflexions sur la violence» di Sorel, del 1907. Ma c’è anche, come ha scritto Bobbio, nel suo saggio del 1955 su «Croce e il liberalismo» un culto della forza e un disprezzo per la tradizione giusnaturalistica. Le sue sortite contro le alcinesche seduzioni della Dea Giustizia e della Dea Umanità, fanno bene il paio, con il disprezzo soreliano per «le banalità umanitaristiche» con cui Jaurès cercava di «incantare» il proletariato.
Luporini
Ancora nel 1925, in un articolo intitolato Affaccendamenti inutili e mal graditi, scritto nel momento della sua reazione al manifesto degli intellettuali fascisti Croce afferma: «Il fascismo è stato un moto in difesa dell’ordine sociale, patrocinato in prima linea dagli industriali e dagli agrari». E di qui tira la conseguenza che per sua natura il fascismo era ostile alla cultura, al pensiero e così via. Queste posizioni poi non le ritroviamo più. Di fronte al risorgere pratico e teorico del marxismo in Europa, questo atteggiamento si attenua.
Del Noce
Colletti ha tentato una scomposizione del pensiero di Croce. Io invece parlerò della sua unità e anche delle sue difficoltà, senza entrare nelle ragioni dell’egemonia, ovvero in giudizi critico-valutativi.
Esordirò con una frase di Croce del ’41, da Il carattere della filosofia moderna che rende l’intenzione di tutto il suo pensiero: «Lo storicismo assoluto non nega il divino perché non nega il pensare filosofico, ma nega volutamente la trascendenza del divino e la metafisica che gli corrisponde. Diversamente da positivismo, empirismo e pragmatismo, che per liberarsi dalla trascendenza della metafisica, sopprime il filosofare stesso. Quale, non dico identità, ma affinità può esservi dunque tra i due? Semmai lo storicismo si sente più affine alle religioni e alla vecchia e adesso combattuta e sorpassata metafisica, la quale a modo suo accoglieva e pensava il divino, che non all’arido empirismo, positivismo e pragmatismo». Croce sentì se stesso come il filosofo della restaurazione del divino dopo la scomparsa del Dio trascendente. E in qualche modo la sua filosofia deve essere vista essenzialmente come una teodicea adeguata alla modernità. Molti hanno parlato di teologia rovesciata immanentisticamente. Ma a me parrebbe più adatto parlare di teodicea, nel senso proprio di giustificazione del male. Il pensiero di Croce è sotteso sempre da un profondo pessimismo di cui vuole trionfare.
Lo stesso marxismo gli serve per trionfare di questo pessimismo perché è occasione della sua affermazione della forma economica dello spirito che è in fondo il surrogato della razionalità del reale. Quindi il suo è uno storicismo che non ha niente da fare con gli storicismi di Dilthey ecc., ma uno storicismo della razionalità del reale.
Il problema è di salvare in qualche modo il particolare stesso, il particolare ultimo, quello dell’interesse anche per le minori figure. Questo pessimismo è testimoniato per esempio dal Contributo alla critica di me stesso, nonché dagli scritti giovanili di Croce. In fondo anche nel tema della vitalità riaffiora questo pessimismo originario di cui vuole trionfare. E vuole trionfare come? Secondo una via obbligata della teodicea immanentistica; sopprimendo l’individuo, sostituendo al realismo degli individui, il realismo delle opere. L’individuo come istituzione, come simbolo in qualche modo. Così che la morte non distrugge realmente niente. Questo mi pare il punto decisivo della sua ricerca. Ed è questa, in effetti, una via obbligata per una teodicea adeguata alla modernità, in cui non c’è al di là religioso, e non c’è neanche al di là politico. Si veda tutta la polemica di Croce contro l’utopismo, contro il progressismo, ecc.
Da questa restaurazione del divino, arriviamo alla figura, di cui Gramsci ha tanto parlato, del papa laico. E a partire da questa caratteristica del papa laico, come restauratore del divino, possiamo trovare le ragioni dell’egemonia crociana quale si stabilì nei primi tre decenni del nostro secolo. Croce poté riuscire ad esercitare questa egemonia perché l’Italia era ancora, allora, un paese cattolico. L’intellettuale crociano, per dirla con una battuta, non urtava né le donne, né il popolo. La donna doveva andare in chiesa, e i contadini dovevano aderire a una religione in cui, sia pure in senso mitico, veniva espressa la verità. Gli studiosi cattolici, inoltre, guardavano non tanto al sistema di Croce quanto alle singole parti – estetica, metodologia della storiografia, ecc. – che come ricerche particolari potevano essere utilizzate.
Una terza ragione dell’affermazione di Croce è la singolarità della sua filosofia, che si presenta come avversaria degli stessi avversari del cattolicesimo. Questo era un carattere quasi unico nella filosofia moderna. Cioè dal punto di vista filosofico, del positivismo, del panalogismo stesso, dell’irrazionalismo, dell’immoralismo, Croce salva di fatto la morale cattolica. C’è inoltre, in lui, una critica del verismo, del decadentismo, dell’immoralismo artistico: il Croce anti D’Annunzio, ecc.
Luporini
C’è una critica al modernismo, anche, estremamente dura.
Del Noce
Diciamo che si è avuta soprattutto nei primi decenni una convergenza di laici e di cattolici. Croce rappresenta, in un certo modo, il filosofo del mondo cristiano borghese.
Colletti
Che è cosa diversa dal cattolicesimo, però…
Del Noce
Non l’ho ridotto al cattolicesimo, ho detto delle ragioni per cui questo filosofo della restaurazione del divino parve rappresentare la forma più moderata di laicismo, nei primi anni del Novecento.
Poi abbiamo il momento vociano dell’elezione di Croce a pedagogo d’Italia. Abbiamo la conquista di Firenze, sempre cercata dagli hegeliani. Nel 1908 Prezzolini rappresenta l’elezione del Croce a filosofo del regno d’Italia.
Questa è la prima forma dell’egemonia crociana, che è contrastata, ma non veramente soppiantata, da quella gentiliana. Nei primi tre decenni del secolo c’è insomma una egemonia crociana attraverso l’estetica. Pensiamo a che cosa rappresentava il professore di italiano nel liceo di quel tempo: era l’erede di quello che De Sanctis si proponeva. Il professore che attraverso la lingua e la letteratura formava, educava la coscienza nazionale.
Il secondo momento dell’egemonia crociana comincia col discorso di Oxford, del 1930. Discorso che è la fondazione della politica della cultura. E il manifesto di questa politica è la Storia d’Europa. In questo periodo possiamo parlare del Croce anticattolico e del Croce antifascista. Croce anticattolico perché il Croce precedente aveva realizzato una conciliazione a cui si sostituiva, adesso, la conciliazione giuridica dei patti lateranensi, e quella che Croce chiamava la rinnovata clericale baldanza. Croce antifascista segna un incrinamento se non la rottura fra cultura e politica, e soprattutto tra coscienza morale e culto della riverenza. Credo si debba dire che, nonostante la sincerità e il dubbio di Croce, la sua incidenza sugli stessi politici antifascisti sia stata assai scarsa. Stranamente, i GUF preparano assai più l’antifascismo successivo di quanto non lo prepara il Croce. Quelli del GUF volevano un totalitarismo coerente, in modo che passarono poi facilmente da una posizione totalitaria a un’altra…
Luporini
L’intervento di Del Noce, è molto stimolante anche perché è fatto da un’angolatura completamente diversa da quella mia e di Colletti. Del Noce ha sollevato problemi che sono un po’ fuori del nostro orizzonte. Ha parlato di una teodicea laica, di restaurazione del divino dopo la fine della trascendenza, ecc. Ma secondo me qui si rivela la grande debolezza della sistematica di Croce: la sua incapacità di dare una spiegazione dell’errore e del male. In Hegel questo esiste, nella forma della potenza del negativo. In Croce questo non c’è. C’è invece una confusione delle forme tra di loro. L’intenzione della teodicea esiste, ma se il cattolicesimo italiano fosse stato più robusto, invece che così accomodante, vis à vis all’accomodantismo di Croce, gli avrebbe obiettato veramente la grande teoria del male.
Romeo
Parlando per ultimo, non posso non tener conto di quello che gli altri hanno detto. Colletti ha parlato di Croce maestro di vita, moralista. Questa è un’affermazione che non mi sembra si possa accogliere, né sul piano storico, né sul piano logico, se si parte da un giudizio di Croce come debole filosofo, storico di scarso valore e critico letterario tutto sommato marginale. Per quanto riguarda l’estetica, poi, già la critica di Colletti al concetto di intuizione, alla commistione che nell’estetica c’è della posizione kantiana e di quella di Schelling infirmerebbe tutta la teoria dell’estetica di Croce. Detto tutto questo, dire che poi Croce fu un maestro di vita perché lavorava seriamente, mi sembra contraddittorio. Perché in realtà non lavorava seriamente. Non faceva bene nessuna delle cose che credeva di fare, e quindi la cosa che resterebbe è in fondo quel che già si disse ai tempi di Croce, la seduzione di questo stile in un certo senso trascinava con sé il lettore, ottundendone quasi le capacità critiche. Anche se non mancavano, e non mancano, dei fiorentini i quali sostengono che in fondo Croce scrive male, con stile ampolloso e ridondante. Affermare che ci sia un maestro di serietà, di vita morale, come Croce, che ha avuto influenza su basi così poco consistenti, induce a concludere che in fondo c’è stata una grande crisi nella vita intellettuale italiana se per maestro di vita morale essa ha potuto accogliere un personaggio che, visto poi da vicino, così poco aveva da insegnare.
Devo dire che ascoltando non solo questa discussione, ma tante cose che si dicono su Croce ho l’impressione che la cultura italiana dal secondo dopoguerra abbia verso il maestro dell’antifascismo un atteggiamento analogo a quello che ha nei confronti di Mussolini. Ma com’è possibile che gli italiani si siano fatti governare da un uomo così dappoco? dicono i politici. E gli intellettuali dicono: ma come è possibile che gli intellettuali italiani, nostri predecessori, si siano fatti governare da un uomo di cultura così dappoco? Sono delle storie parallele che possono insegnare molto al moralista, ma che credo non sia lecito accettare. E per non accettarle bisognerebbe decidersi sulle due posizioni. Noi cosa vogliamo fare? Una discussione con Croce come se fosse un nostro contemporaneo, e quindi discutere con la mentalità del 1982 uno scrittore che ha scritto l’Estetica nel 1902? Oppure vogliamo individuare qual è la posizione storica di questo studioso e non discutere quindi come se discutessimo Aristotele in qualità di professore di filosofia all’università di Atene? A me sembra che la posizione giusta sia la seconda.
Quando Colletti critica Croce, perché nella sua teoria della scienza ha mancato di restituire all’intelletto quella funzione che la teoria dei distinti richiedeva, mi chiedo come egli faccia a inserire questa critica in una posizione come quella di Croce, la quale era tutta tesa a sottolineare, o a restaurare, se volete, Vernunft (la ragione) e non Verstand (l’intelletto). Se Croce avesse seguito il consiglio di Colletti si sarebbe precluso ogni possibilità di restaurazione della ragione storica, perché la filosofia storicistica diventava impossibile se condizione essenziale era mantenere il vecchio concetto di intelletto. E, quanto al confronto con Hegel non è affatto detto che tutte le volte che Croce si discosta da Hegel avesse torto Croce.
Circa la collocazione storica di Croce, devo dire che personalmente non riesco a spiegarmi, secondo le ragioni che sono state addotte, come mai Croce abbia avuto la funzione che ha avuto. Colletti dice che è stato un grande divulgatore della cultura romantica, un ripensatore di cose che erano certamente vecchissime anche in Italia, nella prima metà del Novecento, che erano state già sentite, sperimentate e abbandonate. E coloro i quali avevano tentato di tenerle in piedi erano quei tali hegeliani di Napoli che tutti sanno quale figura facevano. Quindi una cultura la quale, avendo avuto sentore che in Europa c’era stato il positivismo, avesse mirato a restaurare i romantici della prima metà dell’Ottocento, veramente avrebbe compiuto un’operazione di un vecchiume inimmaginabile.
L’hegelismo era stato già rimacinato in tutti i modi alla metà del secolo Se si fosse trattato di riproporre Hegel nei termini dei primi dell’800, questa sarebbe stata un’operazione inutile. Ma il successo dell’operazione intellettuale crociana, non poteva essere dovuto a una semplice riproposizione o divulgazione di qualche cosa che già si sapeva. Se diciamo che era un ripensamento, facciamo un’affermazione ovvia: tutti sanno che Croce affermò, almeno a partire da una certa data, di rifarsi a Hegel. Tutto sta a vedere (e sono due cose molto diverse) se si trattava di una riproposizione in termini di altissima divulgazione, come dice Colletti, cioè delle riproposizioni in termini sostanzialmente ripetitivi, oppure se c’era qualche cosa di innovativo. Colletti non può dire che le due cose fanno lo stesso.
La spiegazione storica dell’influenza di Croce in questo periodo, non regge se si parte dall’idea che si sia trattato della divulgazione pura e semplice di un pensiero che in Italia aveva già avuto il suo corso. La cultura filosofica tedesca non era un mondo ignoto alla cultura italiana.
Il salto di qualità culturale non consisteva nell’informare che esisteva la logica di Hegel. Perché questa era stata già studiata a fondo da Bertrando e da Silvio Spaventa, il quale aveva passato anni nella sua prigione a studiarla. La cosa che invece deve interessare non è che Croce si rifacesse a Hegel, ma in che modo vi si rifaceva e che cosa portava di nuovo. Questo qualcosa di nuovo, voi mi dite, in fondo, è irrilevante. Tant’è vero che i filosofi che hanno preso sul serio Croce si conteranno sulle dita di una mano. Resta però il fatto che un filosofo del cui vigore teoretico di solito non si dubita, cioè Gentile, è stato, con Croce, protagonista di un dialogo filosofico che è risultato poi la sola operazione filosoficamente importante della cultura italiana nella prima metà del secolo. Mi dovreste allora spiegare come questo pensiero di Croce, così irrilevante, fosse tuttavia al centro di questa operazione. E in questo devo dire che Luporini si colloca su una posizione diversa da quella di Colletti, perché facendo un unicum dei due evidentemente evita quella contrapposizione che invece è propria di Colletti.
In che cosa consisteva dunque questa rivoluzione intellettuale? Come mai un pensatore, in fondo di secondo piano, ha potuto esercitare una funzione di primo piano nella cultura italiana? Se la spiegazione non è la divulgazione dell’hegelismo primo Ottocento, e se il suo pensiero teoretico era in arretrato rispetto ai tempi, buono solo da discutere neanche con i filosofi della scienza, ma con gli scienziati italiani che allora, come adesso, poco si curano delle implicazioni filosofiche delle loro rispettive discipline, allora la domanda rimane senza risposta.
Poco intendo, inoltre, l’affermazione di Luporini che Croce e Gentile dominarono nel loro periodo perché la borghesia italiana aveva bisogno di omogeneizzare l’ambiente intellettuale italiano. Non lo hanno omogeneizzato e non capisco che bisogno ve ne fosse. Non poteva avere senso un processo di omogeneizzazione culturale in un paese delle dimensioni demografiche, sociologiche, culturali dell’Italia.
Colletti
Ma tu consideri in astratto assurda l’idea che uno stato italiano, giunto all’unità da poco, all’inizio del Novecento, quando Croce esordisce, senta l’esigenza di un ethos pubblico, quindi di un omogeneizzazione nel senso che diceva Luporini, tenendo conto soprattutto che si tratta di un paese cattolico, legato cioè a una Chiesa che in quel momento ha rotto con lo Stato italiano?
Romeo
Che la classe politica che ha fatto lo Stato italiano, gli uomini che parteciparono al Risorgimento, e furono poi al potere ritenessero che all’Italia cattolica bisognava contrapporre una giustificazione intellettuale dell’Italia in termini di cultura moderna, questo è fuori di dubbio. Ma non in termini di omogeneizzazione, in funzione di una singola cultura filosofica. Accanto ai due Spaventa, quanti erano i positivisti, i materialisti, i progressisti, i democratici, e via dicendo? Si trattava di fondare l’Italia laica: e a questo contribuivano hegeliani come De Sanctis, positivisti come Carducci, ecc. Una funzione primaria ebbe in questo senso la scuola di ispirazione carducciana. Erano moderati ed erano democratici e progressisti, avevano una cultura perfettamente adeguata alla consolidazione dello Stato italiano che celebrava in Roma la vittoria del mondo moderno, sul Papato, ecc.
Non discutiamo queste cose da un punto di vista strettamente cattedratico. Teniamo conto che il positivismo italiano aveva in realtà un carattere polemicamente e violentemente anticattolico. Pensate solo a cosa è stata la prima celebrazione del 20 settembre a quello che disse Crispi sul senso che aveva l’affermazione dell’Italia in Roma. Pensate a quella che era la posizione di De Sanctis: la sua storia della letteratura ha avuto quell’enorme importanza che ha avuto perché era uno dei punti in cui confluivano l’emigrazione politica, le congiure, le condanne a morte, la letteratura, l’insegnamento, la conoscenza della filosofia tedesca, ecc. Ripeto: non vi era né soggettivamente, né oggettivamente, e non v’è mai stata in nessun paese del mondo, l’idea di unificare culturalmente un paese intorno a una singola dottrina filosofica come tale (tranne che in URSS).
Luporini
I positivisti italiani avevano, in realtà, questo disegno. Ma non ce l’hanno fatta.
Romeo
Attenzione a queste affermazioni: non ce l’hanno fatta neanche gli idealisti, non ce l’hanno fatta neanche i marxisti.
Colletti
Ma perché ti dà fastidio l’idea dell’omogeneizzazione?
Romeo
Perché è un’operazione astratta, una cosa che non è mai esistita.
Colletti
E la creazione di un ethos pubblico?
Romeo
La creazione di un ethos pubblico non è l’accettazione di una teoria filosofica idealistica. E l’ethos pubblico di tipo positivistico, di tipo antipapalino, l’affermazione che con la caduta del potere temporale una nuova era si era aperta nella storia universale, non aveva bisogno dei professori di filosofia per affermarsi.
La creazione di una cultura laica, in Italia, è un’operazione che non coincide affatto con l’unificazione di essa intorno alla filosofia hegeliana o ad altra filosofia qualsiasi. Si poteva essere idealisti da un lato e positivisti dall’altro, si poteva essere herbartiani o hegeliani, ma tuttavia uniti nella persuasione che l’Italia costituita in Stato nazionale era un fatto moderno che si contrapponeva alla tradizione cattolica, che aveva invece coinciso con la divisione del paese. E questa varietà di posizioni non era peculiare della situazione italiana, ma si riscontrava in qualunque paese.
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