Mazzini e l’organizzazione della democrazia italiana tra la prima e la seconda «Giovine Italia»
di Franco Della Peruta – In “Mazzini e il mazzinianesimo”, Atti del XIV Congresso di Storia del Risorgimento italiano (Genova, 24-28 settembre 1972), Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, Roma 1974, pp. 489-520
Oggetto di questa relazione è il mazzinianesimo tra il 1831, data di fondazione della Giovine Italia, e l’inizio degli anni ’40, quando si concretò la decisione di Mazzini di riprendere in prima persona il lavoro di orientamento e di organizzazione delle forze democratiche richiamando in vita la Giovine Italia: un arco di tempo all’interno del quale la periodizzazione è scandita dapprima dalla spedizione di Savoia del febbraio 1834, che con il suo fallimento coronò la crisi dell’associazione mazziniana inducendo il rivoluzionario genovese a volgere le sue energie alla creazione di una organizzazione sopranazionale della democrazia europea, la Giovine Europa; e poi dalla così detta «tempesta del dubbio», la crisi motivata dalla disgregazione della Giovine Italia e dall’esaurimento della Giovine Europa, che Mazzini visse nei primi anni del suo esilio in Inghilterra, tra l’inizio del ’37 e la metà del ’39. L’accento batterà però, più che sul mazzinianesimo come ideologia o dottrina, nella sua genesi, nelle sue derivazioni, nei suoi apporti originali, nel suo svolgimento, sul mazzinianesimo come movimento politico, come organizzazione o elemento propulsore delle forze che intendevano battersi per l’unità e l’indipendenza sulla base di un programma democratico e repubblicano; e questo sia perché il «sistema» mazziniano arrivò presto a una definizione che si cristallizzò, senza lasciare spazio a modificazioni di rilievo, sia perché questo particolare aspetto è stato approfondito, anche in lavori relativamente recenti, come quelli del Galante Garrone, del Berti, del Mastellone, del Passerin d’Entrèves. La scelta di questo taglio non escluderà però, ovviamente, il riferimento alle idee del Mazzini più immediatamente «politico», impegnato di fronte alle concrete e mutevoli situazioni storiche e che a quelle reagiva modificando parole d’ordine, scelte tattiche e linee d’azione, anche se pur sempre all’interno di direttrici saldamente coerenti.
Il Mazzini che, a mezzo il 1831, prendeva a dare corpo in Marsiglia all’«antico disegno di Savona», la creazione della Giovine Italia, era un uomo già passato attraverso esperienze culturali e politiche che, sedimentando, avevano lasciato tracce profonde nella sua formazione. Era cioè il Mazzini che, nei suoi interventi di letterato militante – dagli scritti per i due Indicatori al più organico saggio «D’una letteratura nazionale» - aveva condotto un’assidua battaglia ideale, incentrata sul motivo del «progresso» e sulla funzione del «genio» come interprete profetico dei futuri destini delle nazioni e dell’umanità, per un romanticismo di impronta laica e democratica in cui il concetto di «popolo» si allargava ben al di là del ristretto ambito della classe media delimitato dalla teorizzazione di un Berchet, e per una letteratura che corrispondesse ai bisogni della società, che interpretasse le aspirazioni dei tempi e che, superando le borie nazionali, si rannodasse alle altre letterature europee per avviare quell’alleanza dei popoli cui spingeva il moto progressivo della civiltà moderna. Ed era anche il Mazzini che dal 1827 aveva fatto il suo apprendistato di lavoro cospirativo e di organizzazione settaria nella Carboneria, per cui conto aveva steso il suo primo scritto politico, quel «Della Spagna del 1829 considerata in rapporto alla Francia» in cui, al di là dei limiti imposti dalla natura occasionale del lavoro, il genovese enunciava alcuni motivi tipici delle posizioni democratiche che andava elaborando, come la dottrina del progresso, già colorita di religiosità; la coscienza del ruolo dell’intellettuale nella società quale interprete delle tendenze dell’opinione pubblica; l’esaltazione della religione del martirio; il problema del rapporto masse-rivoluzione e dell’elaborazione di un programma capace di trascinarle nel movimento («per comunicare dell’attività alle masse, - scriveva – bisogna cominciare col convincerle dei risultati che possono risultarne»).
La Giovine Italia nella fase aurorale della sua esistenza, quando l’ancora embrionale struttura ne limitava il peso e la rappresentatività e non ne lasciava presagire gli sviluppi futuri che ne avrebbero fatto un’esperienza radicalmente diversa rispetto al vecchio mondo settario ed agli effimeri tentativi di collegare gli emigrati avutisi nei mesi immediatamente successivi alla rivoluzione del luglio 1830 (dalla Società dei patrioti fondata nell’agosto 1830 dal novarese Fossati a quella, di indirizzo più moderato, che metteva capo al Salfi, alla Giunta liberatrice istituita nel gennaio 1831 in cui entrarono lo stesso Salfi, il Bianco e il Buonarroti), non si presentò come un’entità assolutamente esclusiva e rigidamente contrapposta alle altre organizzazioni liberali operanti nell’emigrazione o all’interno del paese, ma come una «fratellanza» di giovani che si proponeva l’obiettivo di avviare, anche a prezzo di concessioni reciproche, la fusione tra le associazioni patriottiche e le società segrete preesistenti, con compiti di controllo politico e di stimolo, in una prospettiva unitaria, della direzione che il movimento rivoluzionario, giudicato vicino, avrebbe espresso dal suo seno. «Noi dobbiamo – così Mazzini chiariva esplicitamente il suo orientamento in una lettera a Giuseppe Giglioli del 6 agosto – prepararci rapidamente per poter presentar fronte al nemico e all’amico. La Giovine Italia deve ordinarsi non tanto per operare da sé la rivoluzione che verrà inevitabile, per opera d’altre Società, delle quali siamo pure a capo; ma per dirigerla, per vegliare gli uomini del potere, per esprimere i voti della gioventù, per farla muovere a un tratto unita, affratellata, concorde, come Associazione Nazionale della Giovine Italia».
Per cogliere gli orientamenti della Giovine Italia in questi primi delicati mesi di vita è di valido aiuto la più antica redazione dell’«Istruzione generale per gli affratellati», redatta nel giugno o luglio del 1831 ed anteriore a quella pubblicata nell’edizione nazionale degli scritti di Mazzini. Il documento è infatti caratterizzato da un clima ideologico permeato di riferimenti a motivi giusnaturalistici e della tradizione rivoluzionaria francese, come l’insistenza sul tema dei «diritti dell’uomo e del cittadino» e l’affermazione dell’esistenza di leggi naturali; e di concessioni alle formulazioni rituali del carbonarismo (l’obbligo di «spegnere» i tiranni e i traditori e i nemici della Federazione); indici questi degli adattamenti cui Mazzini ritenne necessario piegarsi inizialmente per meglio inserire la sua iniziativa nel chiuso mondo settario con cui era costretto a misurarsi. E a questo scopo mirava anche la tattica che adottando un neologismo della moderna terminologia politica si potrebbe definire «entrista», per cui si faceva obbligo ai soci della Giovine Italia di appartenere anche ad altre società, per tentare di orientarle verso i fini della Federazione.
Nella successiva redazione dell’«Istruzione», di alcuni mesi successiva, i toni si facevano più personalmente mazziniani, nell’ambito di una impostazione etico-religiosa in cui la teoria dei «diritti» cedeva di fronte alla legge del «dovere», la Giovine Italia da setta era sublimata a «credenza ed apostolato», a «religione» della rigenerazione della nazione italiana, richiedente una costante tensione delle qualità morali dei militanti, in una intima connessione del «pensiero» e dell’«azione». E un’altra delle idee-chiave del sistema mazziniano, l’idea del «progresso» - su cui si innestava quella della «missione» che l’Italia era chiamata a svolgere nell’umanità – serviva poi da supporto teorico alle affermazioni unitarie e repubblicane, motivate anche con argomenti di probabile derivazione buonarrotiana (del Buonarroti dei «Riflessi sul governo federativo»: il federalismo, smembrando l’unità nazionale in una molteplicità di sfere locali, avrebbe permesso il pullulare delle piccole ambizioni favorendo il risorgere dell’aristocrazia e del privilegio), sismondiana (esaltazione della tradizione storica repubblicana in Italia) e con spunti che rivelano l’assorbimento di motivi messi in circolazione nella più recente pubblicistica di tendenza democratica (come le «Considerazioni sull’Italia», sulle quali ha richiamato l’attenzione Galante Garrone, o l’anonimo «Invito ai patrioti italiani», del settembre 1830, che aveva insistito sulla necessità di dare uno sbocco unitario alla rivoluzione italiana, così da rendere la nazione abbastanza forte da resistere alla prevedibile reazione delle potenze rette dispoticamente). E mentre scomparivano le intrusioni del linguaggio di tipo carbonaro, in implicita polemica con la Carboneria veniva affermata la necessità di una organizzazione coesa ed omogenea, i cui aderenti fossero concordi su di un programma diffuso pubblicamente e senza reticenze; e, innovazione significativa, si prescriveva ai federati della Giovine Italia «di non appartenere, da questo giorno in poi, ad altre associazioni».
Sempre in questa seconda «Istruzione» erano poi enunciati altri due motivi centrali, che Mazzini avrebbe tenuto fermi anche per il futuro: quello della dittatura, di probabile derivazione buonarrotiana, e quello della guerra per bande, sul quale si tornerà in seguito. Dopo aver distinto tra lo stadio dell’insurrezione (la fase compresa cioè tra l’inizio del movimento e la liberazione dell’Italia continentale), Mazzini sosteneva la necessità che nel corso dell’insurrezione il potere fosse concentrato in «un’autorità provvisoria, dittatoriale», in un nucleo di pochi uomini che soltanto a liberazione completa avrebbe rimesso le sue funzioni al «Concilio nazionale», unica fonte legittima dell’autorità.
Le posizioni così sinteticamente esposte furono poi sistemate più organicamente negli scritti pubblicati sulla Giovine Italia, in cui Mazzini sviluppò anche altre delle sue idee-forza. Anzitutto l’investitura della gioventù come elemento motore essenziale della rivoluzione democratica italiana, affermazione che si caricava del valore politico di una rottura radicale con «gli uomini del passato», che avevano diretto fin lì il movimento settario e che erano stati alla testa dei movimenti del ’20-’21 e del ’31. Che era poi l’asserzione non tanto di un meccanico contrasto generazionale, quanto di una consapevole divergenza di orientamenti politico-culturali con i «vecchi», ai quali si faceva carico dei peccati di «materialismo» e individualismo e di ossequio alle teorizzazioni francesi e inglesi di costituzionalismo e di bilancia dei poteri: atteggiamento che trovava un riscontro, ed un modello, nella polemica che nel paese che lo ospitava opponeva la «Jeune France» democratica e repubblicana, gli uomini della Tribune e del National ai «dottrinari» che dopo le «Tre gloriose» avrebbero voluto fermare il movimento della storia nei limiti del «giusto mezzo» e della monarchia censitaria di Luigi Filippo.
A questo attacco si connetteva poi l’attribuzione ai «vecchi» della principale responsabilità nel fallimento delle più recenti rivoluzioni. A giudizio di Mazzini, infatti, inferiori al loro compito storico erano stati i capi, municipalisti, timidi, esitanti e destituiti di potenza iniziatrice, e non le masse che, sebbene ancora poco sensibili al linguaggio delle idee perché diseducate da secoli di oppressione, avevano tuttavia mostrato di anelare a un cambiamento profondo. Il genovese arrivava così ad affrontare il problema centrale del rapporto tra le moltitudini, tra il «popolo» (concepito ancora, sansimonianamente, come «la classe la più numerosa, e la più povera» ed elemento primo delle rivoluzioni, accanto alla gioventù) e la rivoluzione: e realisticamente, partendo dalla considerazione che gli ultimi tentativi rivoluzionari della penisola, diretti dalle classi medie, timorose dell’ingresso nella scena dei ceti popolari, si erano limitati a sostituire «il privilegio dell’oro» a quello del sangue ingenerando nelle masse sfiducia e diffidenza, sosteneva che gli uomini della Giovine Italia avrebbero dovuto scendere nelle «viscere della questione sociale», facendo leva sugli interessi materiali delle moltitudini, parlando loro «una parola di diritto, di rigenerazione, di miglioramento civile e materiale», nella prospettiva di una società fondata sulla eguaglianza e sul principio di «associazione». Anche se è poi da rilevare che il rilievo dato da Mazzini al momento e al carattere sociale della rivoluzione trovavano limiti e condizionamenti, quali il carattere subordinato, e per certi aspetti strumentale, che la «questione sociale» prendeva di fronte al fine prioritario dell’emancipazione nazionale, il prevalere dell’impostazione etico-spiritualistica che assegnava il primato ai princìpi rispetto agli interessi, il diniego della lotta di classe come metodo e strumento d’azione politica, il sostanziale interclassismo nella cui ottica si auspicava la riduzione al minimo delle lacerazioni interne così da evitare al movimento nazionale lo scoglio fatale del degenerare in «guerra di classi», l’ostilità non solo nei confronti di ogni forma di «comunismo» ma anche di ogni progetto di trasformazione radicale e subitanea dell’assetto della proprietà, il rifiuto di misure terroristiche («Aborriamo dal sangue fraterno; - avrebbe scritto Mazzini col pensiero rivolto al Buonarroti – non vogliamo sovversioni de’ dritti legittimamente acquistati, non leggi agrarie, non violazioni inutili di facoltà individuali, non usurpazioni di proprietà»).
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