di Giovanni Spadolini – «Il Resto del Carlino», 1° febbraio 1966



Ricordo sempre una «tavola rotonda» sull’attualità del pensiero di Mazzini promossa cinque anni fa da una rivista di larga divulgazione storica che non è ormai discara neppure agli esponenti della cultura scientifica e accademica: la mondadoriana Storia illustrata. Vi partecipavano uomini di diverse sponde culturali e politiche: un monarchico di intransigente fede nei valori dell’Italia liberale e del mondo d’ieri come Manlio Lupinacci, un repubblicano formato piuttosto al revisionismo cattaneiano che non all’ortodossia mazziniana come Ugo La Malfa, un socialista proveniente da tutte le inquietudini e da tutte le insofferenze dell’antico partito d’azione come Riccardo Lombardi. Oltre Franco Catalano e l’autore di queste note.
Fra i quesiti sottoposti alla nostra attenzione, le ragioni dell’«antipatia» che aveva circondato in determinati ambienti, e con tenacia non piegata neppure dalla morte, l’opera del grande apostolo genovese. «L’antipatia verso Mazzini – era la mia risposta che mi piace qui ripubblicare oggi – ha una sola radice: egli è stato l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore metanoia prima ancora di una riforma delle strutture sociali e politiche».
Di qui il problema del peso effettivo, dell’incidenza dell’azione mazziniana sulla storia d’Italia. Era un altro dei quesiti sottoposti al «convegno dei cinque» dal periodico milanese. Ed era un quesito che mi permetteva di richiamarmi ad un giudizio di Francesco De Sanctis ancora insuperato, ad un’immagine usata nel corso di lezioni del 1874 all’università di Napoli e che riassumeva meglio di ogni altra la complessità e quasi la drammaticità del messaggio mazziniano: il «Mosè dell’unità», l’uomo che aveva intravvisto la terra promessa «ma non ci entrò lui, ci entrò Giosuè» (cioè la Monarchia piemontese).
«Il bilancio dell’azione mazziniana – erano parole mie del 1961 cui non saprei aggiungere o togliere una virgola – è negativo solo se si guarda l’intransigenza delle pregiudiziali dottrinarie… non certo per la realtà delle soluzioni storiche. C’è lo stesso rapporto che esiste sempre fra profezia e storia, fra precursori e realizzatori. Citiamo ancora Francesco De Sanctis, che era, oltre tutto, un esponente della sinistra democratica di quel tempo. Mazzini è uno di quegli uomini i quali, chi in un modo, chi in un altro, chi con maggiore, chi con minore efficacia scrivono alcune linee dell’avvenire, credendo che la pagina sarà compiuta secondo quelle linee; ma poi si trovano di fronte alla storia fatta per altre vie e per altri mezzi e vi cozzano contro con tutto il vigore dell’animo offeso. Il che non esclude che quella storia sarebbe stata impossibile senza il contributo determinante della profezia, senza il lievito religioso dell’agitazione ideale».
Queste riflessioni mazziniane mi sono tornate in mente leggendo la bella e ariosa prefazione di Paolo Rossi ad una nuova edizione (chi potrà mai numerarle?) del più classico fra i libri di Mazzini, i Doveri dell’uomo: edizione economica che appare, in una col saggio di tanto precedente su Fede e Avvenire, in un agile volumetto della nuova e fortunata Universale Mursia di Milano.
«Il testamento religioso di Mazzini – sono parole, e giuste parole, di Paolo Rossi – resta tanto più vivo quanto meno eseguito. Ciò che segna la grandezza e capacità perenne d’insegnamento e stimolo etico delle profezie autentiche è precisamente la incapacità attuale degli uomini di metterle in pratica».
Paolo Rossi insiste sul contenuto religioso del pensiero mazziniano fino a parlare di «una moderna teologia», una teologia che non a caso ha suscitato i più profondi consensi nel mondo anglosassone caratterizzato da una perfetta identità fra il cittadino e il credente (chi ha dimenticato che la critica anglosassone ha riconosciuto nei Doveri dell’uomo la più alta opera spirituale dell’intero Ottocento?). I fedelissimi del mazzinianesimo politico, come il Tramarollo, non sono rimasti persuasi dell’interpretazione di Paolo Rossi, che hanno definito, sulle colonne del loro antico giornale, «discutibile»: non senza parlare di «inesattezze e tendenziosità», il che ci sembra – ma non è la prima volta – linguaggio del tutto fuori posto in una polemica culturale e intellettuale, alle soglie della quale dovrebbero placarsi i risentimenti o le differenziazioni politiche aspre e puntigliose (quelle differenziazioni che rendono i repubblicani di oggi così diversi dai repubblicani di una volta).
La verità è che le pagine mazziniane dei Doveri dell’uomo appartengono ai grandi testi della religiosità contemporanea. «La dottrina mazziniana del popolo – scrive, e scrive bene, Paolo Rossi – non è una dottrina sociale, è una dottrina teologica molto prossima a quella del corpo mistico». Cosa insegnava Mazzini, nella sua epistola agli «operai» italiani, se non a credere nel dovere, nella rinuncia e nel sacrificio, unico modo per vincere le tentazioni del «benessere» e sottrarsi ai richiami della «felicità»?
I due nemici che Mazzini additava ai «figli e figlie del popolo» nella prefazione al suo aureo libretto, e cioè il «machiavellismo» e il «materialismo», erano da secoli ormai i nemici giurati del popolo italiano: contro «il travestimento meschino della scienza di un grande infelice», contro il «culto degli interessi», occorreva impugnare e sventolare la «bandiera del Bene» che da sola avrebbe fugato tutti i fantasmi del Maligno. La grande efficacia di quel libro, che pur riproduceva, ingrandendole, le feconde antinomie del pensiero mazziniano va ricercata in un ineffabile «stimolo» morale, in un quid religioso e romantico: l’incitamento al bene per il bene, alla virtù per la virtù, al sacrificio per il sacrificio, in nome di un ideale civico e umanitario che si identificava con la patria e l’umanità, attuando contemporaneamente, in terra, la legge umana e divina.
Il popolo italiano, che non aveva vinto la trascendenza con le armi del pensiero, si riconosceva perfettamente in Mazzini, che fissava l’origine di tutti i doveri in Dio e ne esaltava la legge suprema, «che vive nella nostra coscienza, nella coscienza dell’umanità, nell’universo che ci circonda». Nulla era minacciato: la «famiglia» trovava in quel libro la sua celebrazione, la «patria» la sua apoteosi, l’«umanità» il suo trionfo, il «progresso» il suo inno, il «patto sociale» garantiva diritti e doveri, l’«associazione» distribuiva compiti e responsabilità, la «nazione» divideva eroismi e sacrifici, lo «stato» amministrava anime e corpi.
Rivoluzionario nella forma, nell’accento, nel «pathos» drammatico contro la Monarchia e il Papato «base di ogni autorità tirannica», il libro nascondeva un conservatorismo interiore, una concezione «quiritaria» della vita, degna di un repubblicano dell’antica Roma. Basta leggere le pagine sulla «questione economica»: opponendosi al «socialismo delle sette francesi», alle dottrine che proclamavano l’autonomia della classe, in quanto si rifacevano a un’interpretazione dialettica della storia, il profeta dell’unità addita nell’associazione fra i vari fattori della produzione, fra capitale e lavoro, una soluzione definitiva e dogmatica del problema sociale, la risposta ultima a tutte le domande dei diseredati.
Lo Stato ha, nella visione mazziniana, gli stessi attribuiti sacri che possedeva per il cittadino dell’antica civitas, ma arricchiti da un misticismo religioso di tipo medievale e gioachimita: tocca all’«autorità sociale» impartire l’istruzione, amministrare la religione, guidare l’economia, armare gli eserciti, avviare le coscienze sulla via del progresso, che si identifica con la verità e col bene.
Nessun privilegio, al di fuori del genio e della virtù: come gli antichi romani, Mazzini esalta le «qualità sociali», le doti civiche, l’abnegazione al servizio della comunità, i cui interessi trascendono quelli dell’individuo, il cui destino assorbe in sé la sorte dei singoli.
L’«emancipazione» dell’operaio e della donna, che Mazzini propugnava con un profetismo religioso illuminato da una febbre di martirio, non ha niente a che fare con l’«autogoverno» voluto dal liberalismo moderno, con le «autoconquiste» sognate dal marxismo, con la «liberazione» del proletariato che si compie in virtù di un’esperienza storica che ha tutti i caratteri della tragedia e del dramma. Al contrario, la polemica contro la rivoluzione francese, che si rinnova ad ogni pagina, nasconde un’ostilità implacabile a tutte le rivoluzioni fondate «sopra una teoria di libertà, sull’insegnamento dei propri diritti ad ogni individuo»: essendo inammissibile affermare che «l’uomo è nato per la felicità, che ha diritto di ricercarla con tutti i suoi mezzi, che nessuno ha diritto di impedirlo in quella ricerca».
Ecco perché la repubblica di Mazzini coincideva al limite con un ideale di vita religiosa, configurava gli estremi di una «teocrazia laica»: modello di vita molto più che schema di azione pratica o pragmatica. No: non c’è proprio da vergognarsene.

https://musicaestoria.wordpress.com/...-mazzini-1966/