di Giovanni Spadolini – «Il Resto del Carlino», 22 giugno 1955

«Il signor Mazzini, capo della Chiesa democratica in partibus – scriveva Marx ad Engels il 30 marzo 1852 nella sua altisonante maniera – strepita contro gli eretici, le sette, il materialismo, lo scetticismo, la babele francese, con altrettanta decisione con quanta qui a Londra lecca il sedere ai borghesi liberali». La volgare polemica di Marx contro il grande apostolo italiano non rinunciò a nessuna delle armi della diffamazione e delle insinuazioni della libellistica. Pur di colpire il suo pensiero, il suo apostolato, che contraddiceva radicalmente alla sua visione del mondo, Marx non esitò ad accusare Mazzini di collusioni con le classi dominanti di Gran Bretagna e di Francia: e «spillare danari alla Mazzini» fu una delle espressioni cui ricorse nel carteggio con Engels.
L’odio contro Mazzini si prolungò oltre la conclusione del Risorgimento. Quando i vari capi della democrazia in esilio elaborarono, nel 1864, il primo testo del «Manifesto ai lavoratori», Marx ebbe un solo obiettivo: stralciarne tutte le frasi o le espressioni che comunque ricordassero l’associazionismo mazziniano, gli ideali democratici riformatori e progressisti «mascherati coi più vaghi cenci del socialismo francese».
Lanciare «mine contro Mazzini»: fu l’ultima opera di Marx, non contento di essersi impadronito dell’Internazionale. I primi passi di Bakunin in Italia furono guidati e sorretti per distruggere l’influenza mazziniana. Marx lo paventò sempre, e ancora negli ultimi anni dopo il ’70 ricordava che gli operai italiani stavano in gran parte «in coda a Mazzini». L’espansione del socialismo marxista fu consapevolmente indirizzata a strappare le posizioni conquistate dal mazzinianesimo. Lo «scaltrito fanatico», come lo aveva chiamato Engels, aveva parlato al cuore degli artigiani, dei primi nuclei operai, creando le basi di un movimento che avrebbe potuto sbocciare, col tempo, a una forma di laborismo all’inglese. Fu quell’istinto «associazionistico» e «solidaristico» che Marx temé sopra ogni altro. Il profeta del Capitale vi scorse il germe di un sindacalismo di massa legato ai principî nazionali.
Quale migliore conferma dell’azione di Mazzini nel campo delle «Società operaie»? Fu il «Patto di Fratellanza», stipulato a Roma nel novembre del ’71, a segnare il punto estremo dell’antitesi fra mazzinianesimo e marxismo. 1871. Il socialismo internazionalista non è più soltanto una minaccia ma una realtà operante. Molta della gioventù repubblicana è passata armi e bagagli all’anarchismo. Bakunin ha assunto l’autorità di un maestro e il prestigio di un profeta, la visione religiosa di Mazzini è svalutata e condannata. La Comune parigina ha lacerato tutti gli schemi tradizionali delineando il primo esempio di «lotta di classe» sullo sfondo di una rivolta nazionale e popolare.
Mazzini si preoccupa di correre ai ripari. Il mito dell’Internazionale lo rivolta e lo spaventa. Le infiltrazioni materialistiche lo pongono in uno stato di preoccupazione e di allarme. L’ateismo rivoluzionario gli appare come una mostruosità e un crimine. Nella guerra di classe intravede soltanto un artificio sociologico e un assurdo etico: non ammette la prevalenza dei problemi economici sugli imperativi morali; non riconosce la possibilità di contatti e di collegamenti fra i vari movimenti proletari al di fuori del «concetto nazionale riconosciuto»; non vuole che gli operai italiani cadano in preda alle «dottrine oltremontane», erede coerente e intransigente dei miti della «terza Roma», dell’«iniziativa italiana», della «missione nazionale», legato ancora agli ideali generosi del 1830 e del 1848. «Meglio il ritorno degli austriaci», griderà una volta, «che l’impianto di quelle false e perverse dottrine che dividerebbero gli italiani in oppressi e oppressori!».
Associazionismo contro comunismo. Ecco perché Mazzini decide di convocare a Roma, il 1° dicembre del ’71, i delegati di circa 135 società operaie, operaie talvolta di nome e talvolta di fatto, centri di mutuo soccorso e gruppi di rivoluzionarismo democratico, cellule sparse già dell’Internazionale e rappresentanze singole del «sindacalismo» apolitico, organizzazioni di classe e organizzazioni di partito, nuclei di categoria, come le associazioni dei parrucchieri e dei tipografi di Genova, e focolai di ribellione istituzionale, come la «Società dell’Avvenire» di Faenza; complessivamente Romagna, Marche, Liguria, Toscana, un po’ di Sicilia, qualche propaggine a Napoli, isolotti del Lazio, punte nel Veneto, frammenti in Piemonte, una sola sezione a Milano. Figure vecchie e nuove della democrazia sfilano nell’assemblea romana, i superstiti delle guerre d’indipendenza si alternano agli esponenti delle tendenze d’avanguardia, i capi d’ieri a quelli di domani («il primo atto veramente italiano compiuto nella capitale d’Italia», tuona il presidente): Brusco Onnis rappresenta Langhirano, Giuseppe Petroni Chivasso e Catania, Antonio Fratti Forlì, Ernesto Nathan Messina, Eugenio Valzania Fano, Giorgio Asproni Nuoro, Federico Campanella e Felice Dagnino Genova; Mazzini, che non interviene e tiene i fili di tutto, è investito e delegato dal circolo «Carlo Cattaneo» di Roma (singolare incontro degli avversari di ieri!) e da numerose società di Genova; Benedetto Cairoli, il futuro presidente del Consiglio della Monarchia, il salvatore di Umberto I, il leale e disinteressato cavaliere della conciliazione, è il portavoce delle Società di Spezia; Giuseppe Marcora, il futuro presidente della Camera, il radicale giolittiano di domani, è il fiduciario di Mortara; Mauro Macchi di Modigliana; Giuseppe Beghelli di Torino; Mario Paterni di Pesaro; Valentino Armirotti di Sampierdarena; Giuseppe Ceneri di Bologna.
«Foste schiavi un tempo», aveva detto Mazzini agli operai, «poi servi, poi salariati; sarete fra non molto, purché vogliate, liberi produttori e fratelli nell’associazione». Il Patto di Fratellanza, che fu votato nelle assise romane, rispondeva a tutti i principî fondamentali del maestro, codificava i suoi insegnamenti, ribadiva i suoi obbiettivi (il testo stesso era stato in gran parte elaborato da Mazzini, e nelle linee generali riproduceva quello del congresso di Napoli del 1864). Alla Commissione direttiva toccava un compito vasto ed impegnativo: promuovere l’apostolato in pro delle società affratellate, propagare il principio d’associazione fra le classi agricole e le donne, creare scuole operaie e aprire biblioteche, condurre una grande inchiesta sulle condizioni degli operai, moltiplicare e incrementare le cooperative, indire un certo numero di esposizioni e infine fondare un organo settimanale della classe operaia che si chiamerà L’Emancipazione. Tutti i temi tradizionali del mazzinianesimo tornavano nel patto, in materia di organizzazione della terra, si riafferma la necessità della costituzione di società miste di braccianti e coloni, dell’espansione del credito agrario, della colonizzazione delle terre incolte, della disciplina rigorosa e severa della emigrazione, dell’incremento e dello sviluppo dei contratti agrari sul tipo della mezzadria.
In materia industriale, una società di Bologna arrivò a formulare, al punto 3 del suo ordine del giorno, la richiesta di una compartecipazione agli utili «almeno» per tutti gli operai delle grandi manifatture; ma il congresso non la seguì su quella strada e si limitò a votare una serie di raccomandazioni di massima, di esortazioni di principio, di dichiarazioni di fede, senza violare i confini della collaborazione di classe. Più larghe e più ardite le iniziative in materia di assistenza e di legislazione previdenziale (è nota l’importanza che Mazzini attribuiva alla tutela e alla elevazione delle classi operaie per via dello «Stato», di quello «Stato» a cui rimetteva la funzione fondamentale, l’educazione e la trasformazione morale, il riscatto delle coscienze). Si accenna a una protezione organica delle prestazioni di donne e fanciulli, si prospetta la necessità di sanzioni e di risarcimenti sugli infortuni sul lavoro, si comincia a parlare di pensioni operaie, si esclude categoricamente lo sciopero, ma si riconosce l’opportunità di ricorrere alla costituzione di leghe e di camere organizzate per far valere i diritti della classe lavoratrice. Ci si preoccupa in particolare (e sarà una costante dell’Estrema Sinistra) dell’inferiorità civile e giuridica della donna, si guarda alla riforma del sistema penitenziario, si invoca la revisione radicale del meccanismo tributario e la creazione di un’imposta progressiva (primo strumento di perequazione e di equilibrio sociale).
«Il progresso del lavoro, la moralità non si avranno senza risolvere la questione politica»: è l’impostazione coerente e risoluta di quello che sarà il futuro atteggiamento del partito negli anni della sua solitudine sdegnosa e orgogliosa, è l’anticipazione della propaganda di domani, della lotta per associare la redenzione delle classi con la trasformazione istituzionale; è il preludio dei contrasti e dei dissidi col socialismo e con la sua impostazione economistica.
Non a caso i «giovani turchi» di Romagna, convinti dell’indissolubilità fra questione politica e sociale, presentano al congresso di Roma un ordine del giorno che suona testualmente: «Il Congresso proclama solennemente i principî politici e sociali propugnati da 40 anni da Giuseppe Mazzini, come quelli che condurranno più prontamente ed efficacemente alla vera emancipazione dell’operaio». 34 voti favorevoli, contro 19 contrari e 6 astenuti, segnano nettamente i confini fra il nuovo operaismo repubblicano e l’Internazionale e il movimento marxista: e d’ora in là la lotta fra le due correnti non si manterrà più sul piano ideologico e programmatico e si estenderà presto sul terreno della violenza, della vendetta e del sangue. Il primo esempio della nuova lotta fra internazionalisti e mazziniani sarà in Romagna, il 2 maggio ’72, l’uccisione dell’internazionalista Franco Piccinini di Lugo. Vittima di «ferri omicidi e cori bestiali e menti selvagge», scriverà il Carducci in vena di socialismo garibaldino, quasi a riassumere in versi la posizione di Mazzini di fronte al comunismo.


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