di Manlio Rossi Doria – «Mondoperaio», gennaio-febbraio 1983, pp. 120-124.

Questo saggio è tratto dalla relazione di Manlio Rossi Doria al convegno su Salvemini svoltosi a Roma a Palazzo Braschi, per iniziativa del Movimento Salvemini, il 14 dicembre 1982.


Leggendo gli scritti dedicati a Gaetano Salvemini nel quarto di secolo che ci separa dalla sua morte, viene fatto di chiedersi perché il discorso nei suoi riguardi resti ancora caratterizzato da tanti dissensi e talvolta perfino da una certa animosità. Valga come esempio la relazione introduttiva pronunciata da Eugenio Garin nell’ultimo dei convegni dedicati a Salvemini, quello di Firenze di sette anni fa, novembre 1975, nella quale, insieme all’ammirazione e all’alta stima per il Nostro, non poca è appunto l’animosità con la quale se ne sottolineano con particolare insistenza i limiti, gli errori e le sconfitte.
Compito di quel convegno – a giudizio del relatore – avrebbe dovuto essere quello di superare la oleografia di gusto ottocentesco «che aveva caratterizzato alcune delle iniziali commemorazioni» e di «ritrovare – sono le sue parole – con la drammatica complessità delle situazioni, anche i limiti di un uomo che ha tanto pesato sulla vita del paese». «Un uomo – egli incisivamente afferma – che rappresenta per tutti un nodo quasi drammatico, un punto di riferimento, da cui non si può prescindere, qualora si vogliano affrontare i problemi più scottanti della storia italiana recente, anzi della storia d’oggi». Dopo questa affermazione ci si attenderebbe un’analisi che mettesse a fuoco le vicende e i problemi più scottanti della storia italiana nei cinquant’anni nei quali Gaetano Salvemini ha operato, e in questa luce si analizzassero e giudicassero i suoi comportamenti e le sue idee. Invece – sia nella relazione di Garin che in altre – vicende e problemi scottanti della storia italiana sono lasciati nell’ombra o appena accennati e l’attenzione è tutta rivolta sulla sua isolata figura, per giudicare in astratto «quel che è vivo e quel che è morto» dell’opera sua.
Quel che ancora occorre è un ulteriore affinamento degli studi sul pensiero e l’azione di Salvemini in relazione alla nascita e ai caratteri iniziali del movimento operaio, alla reazione del Novantotto, all’evoluzione del Partito socialista, alla crescita del paese nell’età giolittiana, alla comparsa del nazionalismo, alla grande guerra e all’intervento, al biennio rosso, all’avvento del fascismo e alla sua permanenza sino alla seconda guerra. Si ha, invece, l’impressione che molti saggi di questa e delle precedenti raccolte abbiano fatto, per così dire, «a fette» la complessa e coerentissima personalità di Salvemini, e abbiano considerato separatamente lo storico, l’uomo della scuola, il politico e del politico – senza approfondire i motivi del mutamento – isolatamente il marxista, il riformista, il «problemista» dell’Unità, l’interventista, il pessimista del primo dopoguerra, l’antifascista, l’esule e lo scontroso vecchio tornato in patria a dir male di tutti.
Non nego che, con un tale procedimento, l’analisi si sia arricchita e siano emersi aspetti della sua personalità e rapporti con la cultura italiana del tempo che difficilmente sarebbero venuti in luce guardando a lui semplicemente. Ho, tuttavia, l’impressione che, per essere stata trattata a questo modo, la sua figura sia uscita un poco distorta, e che siano rimasti nascosti i motivi dei dissensi e dei risentimenti che essa suscita ancora in molti.

Un riformista coerente

Tra gli scritti giovanili di Salvemini ce ne sono due – La questione meridionale e Le origini della reazione, rispettivamente della fine del 1898 e della prima metà del 1899 (aveva appena 26 anni) – dai quali balza evidente la concezione della realtà e della storia d’Italia, che – da lui allora straordinariamente intuita – sarà confermata e affinata in seguito nel corso dell’intera sua vita.
Nel primo di quegli scritti, l’analisi delle tre malattie del Mezzogiorno – l’accentramento statale, l’oppressione economica del Nord e la struttura sociale semifeudale – lo portano a definire con chiarezza i termini politici del rinnovamento sia del Mezzogiorno e del paese sia dell’azione socialista, ossia le idee centrali per le quali egli si batterà. La proposta di fondo con la quale il saggio si chiude, ossia la proposta di una operativa alleanza politica tra operai settentrionali e contadini meridionali – per quanto utopica, classista a marxista possa apparire – è formulata in termini politici esplicitamente riformistici, in funzione, cioè, non di uno sconvolgimento, ma di uno sviluppo modernamente democratico della società italiana, nel momento in cui questa è sotto l’attacco della reazione. Lo stesso Salvemini, infatti, nel Partito socialista si batte in quel tempo in favore di una alleanza con le formazioni politiche democratiche e repubblicane della borghesia per la riconquista delle libertà soppresse o minacciate. «La libertà – scrive nello stesso anno – è la base di tutto ed è inutile occuparsi di qualunque altra questione senza aver prima esaurita quella inevitabile pregiudiziale». «Il dovere dei socialisti – scrive anche – è quello di conquistare – con metodi che non possono essere elettorali (per l’ovvia ragione della limitazione del suffragio in quel tempo) – quelle condizioni di libertà politica stabili e definitive, senza delle quali uno sviluppo legale e continuo del nostro partito è assolutamente impossibile».
Nell’altro, contemporaneo scritto sopra ricordato – Le origini della reazione, che si ricollega al lungo studio storico che uscirà l’anno dopo con il titolo I partiti politici milanesi nel secolo XIX – la tesi centrale, illustrata da una rapida e dura analisi «della storia italiana degli ultimi cinquant’anni», è enunciata nella frase con la quale lo scritto comincia. «Il colpo di stato, di cui furono vittime i partiti popolari nel maggio ’98, ha dimostrato che la razione in Italia non è un fenomeno provvisorio, ma emana perennemente da una causa superiore alla volontà dei singoli ministri, causa immanente in tutta la nostra organizzazione politica, senza la cui eliminazione nessun progresso ordinato e sicuro è sperabile». «Il colpo di stato del maggio ’98 – è detto nelle pagine seguenti – non è fatto isolato e senza precedenti, ma si riconnette con tutto un sistema di governo avente per iscopo la trasformazione dello Stato – lenta o repentina, legale o violenta secondo le circostanze – in senso più che sia possibile conservatore». E dopo aver mostrato, uno ad uno, i tentativi di «reazione aperta» dal 1848 in poi, lo scritto di chiude – e mi spiace di non poter riportare per intero il passo, tanto suggestive sono le prove addotte – dicendo che «oltre a questa reazione aperta ve n’è stata un’altra, più subdola, ma molto più pericolosa, perché poco osservata, promossa giorno per giorno, ora per ora; ossia un lento lavoro di trasformazione, per cui lo Stato, sotto la corteccia rappresentativa, diventava un vero e proprio Stato assoluto».
Sin dal primo affacciarsi alla vita politica Salvemini aveva, dunque, compreso quale fosse la situazione di fondo, di lungo periodo, nella quale la vita politica e il Partito socialista in cui militava erano chiamati a muoversi; una situazione nella quale le libere istituzioni e quindi la crescita economica e civile della società avevano fragili fondamenta ed erano continuamente minacciate, da un lato dall’intollerabile dualismo Nord-Sud e dall’altro, dall’antico e durevole conflitto tra le forze del progresso e della reazione. L’ombra del fascismo – ci si potrebbe quindi arrischiare a dire – oscurava già l’orizzonte delle straordinarie intuizioni politiche del giovanissimo Salvemini.
È facile comprendere, dopo quanto sono venuto dicendo, il disagio di molti interpreti di sinistra davanti a un più approfondito esame degli scritti e dell’azione di Gaetano Salvemini in questo suo primo periodo di attività. Il tentativo, infatti, di rappresentarlo come un convinto e fedele socialista marxista che solo più tardi tradisce e abbandona il campo, cade di fronte alla esplicita professione riformistica e democratica. Ciò non può non destare malumore in loro e in coloro che restano loro vicini.

Una battaglia su due fronti

Quale sia stata l’azione di Salvemini negli anni in cui militò nel Partito socialista è abbastanza noto, sebbene manchi ancora – malgrado i buoni scritti di Gaetano Arfè, di Lelio Basso e di Massimo L. Salvadori – un analitico esame delle sue iniziative e dei suoi rapporti personali, sia prima che dopo l’immane tragedia del terremoto di Messina.
Fermo sin dall’inizio su di una posizione riformista e gradualista («non solo ero un riformista – disse una volta di sé – ma un riformista di destra, che aveva criticato Turati perché non lo riteneva abbastanza riformista»), nei dieci anni dell’inizio di secolo esercita la sua critica specialmente nei riguardi appunto dei riformisti, per la loro indulgenza verso quello che egli chiamò il «pervertimento oligarchico» delle organizzazioni sindacali e cooperative del Nord e per la loro indifferenza di fatto verso tutte le riforme di interesse generale. «Le riforme tributarie, le autonomie comunali, le riforme doganali, quelle militari e specialmente quelle elettorali e quelle della legislazione sociale per tutti i lavoratori – egli diceva – non hanno mai seriamente impegnato il Partito socialista, malgrado la loro straordinaria importanza in un programma che mirasse a farne – ed è il solo partito che lo possa – il motore centrale della nuova storia». In questa incessante polemica – condotta in massima parte civilmente nelle pagine della Critica sociale dello stesso Filippo Turati – hanno avuto un posto di particolare rilievo le questioni connesse al Mezzogiorno, e in particolare la campagna per la introduzione del suffragio universale e la denuncia del malgoverno giolittiano – corruttore al Nord e reazionario e violento al Sud – oltre che dei pericoli del ministerialismo socialista.
Queste posizioni di Salvemini avevano anch’esse radici più profonde di quanto la loro diretta formulazione mettesse in luce. Il «pervertimento oligarchico» dell’ala riformista e il «rivoluzionarismo parolaio» dell’ala estremista (anch’essa partecipe del pervertimento oligarchico) erano combattuti da Salvemini non soltanto per quel che erano, ma ancor più per il vuoto che aprivano sulla strada del progresso democratico del paese e del consolidamento delle libere istituzioni, nonché per l’insperato aiuto che davano alla capillare trasformazione dello Stato in senso accentratore e conservatore e alle oscure forze della reazione eversiva, ricomparse in veste nazionalista dopo i primi anni del restaurato governo liberale.
Per quanto strano ciò possa apparire, a distanza di tanti anni, per molti interpreti di Salvemini, malgrado il verbale consenso a quelle sue battaglie, la denuncia del comportamento delle oligarchie operaie del Nord e l’antigiolittismo suonano oggi altrettanto sgraditi quanto in quegli anni lontani.

Il distacco dal Partito socialista

Dove la critica a Salvemini non resta più nell’ombra, ma si fa esplicita, è nei riguardi del successivo periodo della sua attività, quando, abbandonato il Partito socialista, diede vita all’Unità, ne portò avanti l’azione sino al 1914 e nell’ultimo anno prima della guerra ne fece l’organo dell’interventismo democratico in favore dell’Intesa.
Non ho bisogno di ricordare che dagli interpreti di sinistra questa fase dell’attività di Salvemini è considerata quasi interamente negativa. Sarebbe impietoso ricordare al riguardo le brutte pagine di Giorgio Amendola nello scritto Il lungo cammino di Gaetano Salvemini, ma dalle belle pagine di Lelio Basso si vede come di quella fase rimanga solo il nobile ricordo di un Salvemini moralista. «Nell’Unità – disse Lelio Basso nell’intervento al convegno di Firenze – Salvemini dà prova di quello che egli considerava un pregio, ma che io considero un difetto, il concretismo, lo sforzo cioè di esaminare il problema concreto senza riferimento al contesto generale, facendo così esattamente l’opposto di quello che aveva insegnato inutilmente ai socialisti, che non si può mai isolare un problema dal suo contesto».
Anche molti di coloro, tuttavia, che riconoscono il valore positivo degli anni dell’Unità, esprimono al riguardo ampie riserve, se pure le attenuino poi dietro la citazione di una celebre frase di Piero Gobetti.
Nel 1919, ancora ragazzo, Gobetti aveva detto degli scritti dell’Unità: «sono certamente l’opera più salda, più solida, più efficace che la coscienza morale d’Italia abbia dato in questo primo scorcio di secolo». Ma poi nel 1923, nel lungo saggio dal titolo La nostra cultura politica, egli scrisse la frase alla quale molti in seguito si sono richiamati: «Proprio questo moralismo solenne, che è il suo più intimo fascino, appare il segreto delle debolezze di Salvemini: la troppa moralità è il limite della sua azione. Chiarificatore, schematizzatore, ma chiuso al senso degli imponderabili, è troppo sofferente per riuscire un vero uomo di lotta. Gli è più facile descrivere un fenomeno che aderire al gioco sottile delle forze operanti. Uscito dal socialismo senza critica e senza crisi, il suo illuminismo si è chiarito come problemismo. Il suo problemismo… è una concezione razionalista e si risolve in una azione illuministica e propagandistica. Nella sua aridezza può essere l’oggetto di una società di cultura, non il terreno per una impostazione di partiti. È una preparazione scolastica per la serietà delle classi dirigenti, ma non risolve il problema degli uomini e delle iniziative perché non dà il senso dell’azione e della intransigenza».
Personalmente ritengo profondamente errato questo giudizio di Gobetti, anche se contiene accenni illuminanti sulla personalità di Salvemini. Lo ritengo errato in particolare con riferimento ai primi quattro anni di vita dell’Unità, tra la guerra di Libia e la nostra entrata nella grande guerra.
È indubbia, infatti, anche e specialmente allora, la sua incapacità ad «aderire al gioco sottile delle forze operanti», ma alla espressione «incapacità» sostituirei la parola «rifiuto». È facile, d’altra parte, dimostrare con infiniti scritti quanto profonda sia stata la critica con la quale egli uscì dal socialismo (o meglio – come disse più volte in seguito – non dal socialismo, ma dal Partito socialista, quale era allora) e – sulla base delle lettere a Oddino Morgari, a Mondolfo, alla Kuliscioff, agli stessi Turati e Bissolati, oltre che a Fortunato – quanto sia stata dura per lui la crisi che portò a quel distacco. Ma principalmente quel passo di Gobetti rivela la totale incomprensione – né c’era da meravigliarsene al suo tempo – del chiaro disegno politico che Salvemini aveva nel dar vita all’Unità e nel guidarne le numerose battaglie.

L’idea di un blocco democratico

Come ho avuto occasione di ricordare l’estate scorsa, parlando del rapporto di Salvemini con Giustino Fortunato in occasione dei quarant’anni della morte di questi, a entrambi – e non solo a loro – attorno al 1910 tutte le formazioni politiche apparivano estranee al processo di rapido rinnovamento economico e civile della società italiana e del tutto inadeguate a farsene rappresentanti e promotrici. Questa inadeguatezza appariva sia nel campo delle formazioni politiche borghesi, il cui stato di confusione e di arretratezza era attestato dalla incerta divisione tra la eterogenea maggioranza parlamentare tenuta insieme dalla empirica abilità di Giolitti, il nuovo equivoco radicale, la serpeggiante rinascita clericale e cattolica e la crescente pattuglia nazionalista; sia nel campo della sinistra socialista, di fatto paralizzata e incapace di azione coerente per effetto della scissione tra i riformisti filogovernativi, i finti rivoluzionari dell’estrema e la inquieta corrente dei sindacalisti rivoluzionari.
Nell’articolo di presentazione dell’Unità, Salvemini si richiamava a questa situazione e al «bisogno largamente sentito – sono le sue parole – di una nuova azione politica, non legata a nessuno dei partiti tradizionali, ormai tutti inesorabilmente discreditati e disfatti»; alla «necessità di combattere senza riguardi il movimento nazionalista» che si andava rapidamente diffondendo tra i giovani e che – sono sempre parole di Salvemini – «era solo portatore della volontà arbitraria di negare i problemi della nostra vita interna e dello sforzo per farli dimenticare con diversivi di avventure diplomatiche e militari a vantaggio di tutti quegli interessi parassitari e antinazionali che da un vigoroso sforzo di riforme interne uscirebbero distrutti».
L’obiettivo politico di Salvemini (interamente condiviso da Fortunato, come mostra il carteggio di recente pubblicato) non era, tuttavia, la costituzione di un nuovo partito, bensì di quello che egli chiamava «un blocco democratico unitario». «Come tra il 1899 e il 1902 – scriveva – esisté in Italia un blocco di partiti liberali-democratici, che si propose e raggiunse la conquista della libertà di organizzazione operaia e la difesa delle franchigie costituzionali contro gli attentati del blocco cortigiano-militaresco-reazionario, così oggi si tratta di formarne uno diretto ad uscire dall’azione equivoca e radicalmente conservatrice dei politicanti e ad avviare la realizzazione di un programma di riforme immediate corrispondenti alle esigenze del paese».
Un siffatto obiettivo non poteva essere qualificato come irrealistico e velleitario. Il porselo presupponeva solo il tempo inevitabilmente lungo necessario per raggiungerlo in qualunque modo ciò dovesse avvenire. A renderlo irrealistico e velleitario fu solo, quindi, la guerra, la quale, nel 1911, malgrado la Libia e le oscure minacce all’orizzonte, non era da nessuno seriamente preveduta. Ho, pertanto, l’impressione che le riserve e i giudizi negativi su questa fase dell’attività di Salvemini astraggano da questa circostanza, alla cui luce soltanto essa dovrebbe essere considerata.

Due scelte controverse

Analogamente a quanto ho fatto sinora, il discorso potrebbe e dovrebbe continuare per mostrare la coerenza e l’altro senso politico anche di altre scelte e linee di condotta adottate in seguito, sulle quali si sono anche manifestati giudizi negativi e perplessità.
Non considero la sua attività di antifascista e di esule e lascio anche da parte l’attività da lui svolta tra la guerra e il 1921. Mentre, infatti, la prima è nota, per la seconda occorrerebbe un’analisi molto lunga tanto complesse e controverse sono state le vicende della sua coerente e coraggiosa azione nella campagna «rinunciataria» contro una parte delle annessioni italiane dopo la guerra e nel ritorno alla politica attiva quando nel 1919 fu eletto deputato in Puglia in una lista di ex-combattenti.
Non posso, tuttavia, non ricordare due scelte, nei riguardi delle quali più esplicite sono state le critiche e le riserve: l’interventismo del 1914-15 e favore dell’Intesa e il suo comportamento nel 1922 subito prima e dopo la marcia su Roma.
Sulla prima – dopo che per anni l’argomento è stato considerato tabù per il fatto che gli interventisti democratici si erano trovati nel 1914-15 affiancati e talvolta confusi coi nazionalisti e i futuri fascisti – dovrebbe essere finalmente venuto il tempo (e per fortuna questo da molti è già stato fatto) – di riconoscere con orgoglio come gli interventisti democratici siano stati tra i primi antifascisti militanti e come si debba al loro interventismo se la bandiera della migliore tradizione liberale e democratica è stata risollevata; se, durante il fascismo, l’Italia potrà essere rispettata nei paesi dell’Occidente democratico e se gli antifascisti hanno potuto aprire la strada alle idee sull’Europa unita.
Sulla seconda scelta – quella che indusse Salvemini a ridurre al minimo il suo impegno politico nel 1922 – le critiche sono purtroppo degenerate in una vera calunnia, ripetuta a Firenze nel 1975 da Lelio Basso e da Giorgio Amendola, nei loro interventi alla finale tavola rotonda di quel convegno. Le parole da loro pronunciate in quella occasione vanno rilette, tanto grave è la falsità dell’accusa da loro formulata. Lelio Basso – dopo avere accennato a un presunto incontro di Salvemini con Mussolini nel 1914 ai tempi ini cui si discuteva dell’intervento – disse a Firenze: «Se ai tempi dell’interventismo Salvemini si trovò in una compagnia malvagia e scempia, ciò doveva in un primo momento incidere anche sul suo atteggiamento verso il fascismo. Infatti quando a Parigi seppe che Mussolini aveva preso il potere ebbe, come reazione immediata, un meglio lui che un altro. Una simile, diciamo pure infelice reazione non l’avrebbe avuta se fosse rimasto nel Partito socialista. E non si tratta solo di cinque parole, perché quelle cinque parole denotavano uno stato d’animo, il quale a sua volta condizionava un comportamento, che fortunatamente ebbe presto termine». Parole, come ognuno vede, di estrema gravità.
Più gravi ancora quelle allora pronunciate da Giorgio Amendola. «La guerra, la sconfitta dei rinunciatari, il fallimento del movimento dei combattenti hanno provocato in lui una grossa crisi che si esprime nei tre anni in cui non ha detto una parola di fronte allo squadrismo violento che assaltava le istituzioni del movimento operaio… Egli è stato così molto tempo assente e non ha partecipato alla prima fase della lotta antifascista, anzi… ha ammesso che il pericolo bolscevico poteva in un primo tempo giustificare la violenza fascista».
Dopo aver anch’egli ricordato quello che Salvemini avrebbe detto a Parigi al momento della marcia su Roma, ossia che «il fascismo era una scopa necessaria per spazzar via la vecchia e corrotta classe dirigente», ebbe, per fortuna, il pudore di concludere che, «da uomo sensibile quale Salvemini era, avvertì in seguito l’orrore del delitto Matteotti e prese subito una posizione di punta contro il fascismo».

Di fronte al fascismo

Chi cerchi di ricostruire – e il carteggio di prossima pubblicazione dovrebbe portar nuova luce – il comportamento di Salvemini in quegli anni sa come e perché la veridicità degli atteggiamenti denunciati sia assolutamente esclusa. È ben vero, infatti, che sopraffatto dal lavoro, alla fine del 1920 Salvemini cessò la pubblicazione dell’Unità e che, ammalatosi e deluso dalla vita parlamentare, non si ripresentò alle elezioni del 1921, per le quali, tuttavia, votò e fece votare, malgrado gli antichi dissensi, per il Partito socialista. Ripresosi dalla malattia a metà del 1921 decise di astenersi da ogni attività politica per dedicarsi allo studio e alla meditazione. Frutto di quella decisione furono, da un lato, il bel saggio su Carlo Cattaneo pubblicato all’inizio del 1922 e forse in parte il saggio sul Risorgimento, che doveva comparire due anni dopo; e, dall’altro, la pubblicazione a metà del 1922 di una gran parte dei suoi scritti politici nel libro Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano, al quale premise un lungo saggio dal titolo Tirando le somme. Il saggio, scritto nel settembre 1921, si chiude con alcune pagine del luglio 1922, nel momento in cui – come egli dice – «le organizzazioni socialiste piegano ovunque sotto l’offensiva fascista». In queste pagine è contenuta una frase molte volte ricordata: «Non la reazione fascista ha prodotto la depressione socialista; la depressione socialista ha reso possibile la reazione fascista. E la depressione è diventata sfacelo, perché alle spalle dei fascisti manovra assai meno rumorosa, ma ben più efficace la macchina della polizia, della magistratura, dei comandi militari regionali che disarmano i socialisti e armano i fascisti e scendono in campo apertamente non appena si delinea una controffensiva da parte delle organizzazioni contadine ed operaie». Il lungo saggio si chiude raccomandando per l’avvenire – tanto poco in quel momento Salvemini considera inevitabile e durevole la vittoria del fascismo – una collaborazione tra socialisti e cattolici con un programma concreto e moderato di riforme democratiche, ripetendo così il messaggio che non si era mai stancato di proporre agli italiani da venticinque anni.
Chi nel luglio 1922 così scriveva come avrebbe potuto nell’ottobre pronunciar le parole «meglio Mussolini che un altro», secondo la falsa leggenda avallata da Lelio Basso?
Il diario, d’altronde, che – una volta ritornato in Italia dopo il breve soggiorno in Francia e in Inghilterra – Salvemini cominciò a scrivere, solo per sé, il 18 novembre 1922, venti giorni dopo la marcia su Roma, ci dà la definitiva risposta. Esso inizia con un indignato commento al discorso pronunciato da Turati alla Camera in quei giorni. «Il discorso – scrive con il consueto piglio dissacrante – superò ogni limite. Turati non ha sentito nulla del disastro morale in cui è precipitata l’Italia. Ha visto solo l’occasione per un successo parlamentare. Non ha osato neanche definire i fatti di fine ottobre per quello che sono realmente: un colpo di stato militare».
Ogni illusione – in quei giorni nei quali di illusioni in giro ce n’erano molte – era in Salvemini caduta sin da allora. Non c’era posto, infatti, per illusioni per chi giudicava la marcia su Roma per quello che era: un colpo di stato realizzato con il pieno consenso e la diretta partecipazione di una gran parte dell’apparato dello Stato e di quelli che il suo prediletto discepolo Ernesto Rossi chiamerà «i padroni del vapore».
Già in quel momento Salvemini sapeva che era cominciata una lotta nuova e diversa, molto incerta, alla quale tutto il resto avrebbe dovuto essere subordinato. È appunto quello che Salvemini allora fece e continuò a fare per oltre vent’anni.


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