Intervista con Rosario Romeo a cura di Guido Pescosolido - «Mondoperaio», marzo 1985, pp. 93-102.
È nelle librerie una biografia del conte di Cavour che può considerarsi l’atto conclusivo di un ciclo più che ventennale di ricerca e di riflessione dello storico Rosario Romeo sulla figura e sull’opera del più grande uomo di stato che l’Italia abbia avuto (Vita di Cavour, Laterza, 1984, pp. 549, L. 26.000). Con essa l’autore, uno degli esponenti più rappresentativi, anche a livello internazionale, della storiografia italiana contemporanea, ha voluto offrire al pubblico dei non specialisti i risultati più importanti e significativi delle sue indagini cavouriane, esposti analiticamente e mirabilmente documentati nella sua opera maggiore, Cavour e il suo tempo (Laterza, 1969-1984), conclusasi di recente con la pubblicazione del terzo e ultimo volume. In questo più breve profilo, che comunque supera le 500 pagine, le vicende strettamente biografiche e l’opera personale di Cavour hanno nettamente il sopravvento sulle più generali tematiche di storia italiana ed europea tanto ampiamente trattate nell’opera maggiore; tuttavia il quadro d’insieme emerge ugualmente nitido e completo e nessuna delle più significative acquisizioni della prima e più ampia trattazione manca nell’abrégé. L’importanza storiografica e il valore culturale politico dell’opera di Romeo sono molto grandi. Non si esagera se si afferma che in un’ipotetica, e sia pur arbitraria, graduatoria secolare essa va certamente a occupare una delle posizioni più elevate. Per pochi lavori di storia come per questo si può dire che l’eccellenza dei risultati raggiunti sia proporzionata all’importanza e alla complessità del tema trattato.
La prima domanda, professor Romeo, potrà apparire scontata, ma resta d’obbligo: perché decise di scrivere una biografia di Cavour?
Per motivi in parte occasionali, in parte più profondi. Quelli occasionali furono dati dall’invito rivoltomi, su indicazione di Federico Chabod, dal professor Renzo Gandolfi, animatore della Famija Piemontèisa di Roma. Quelli più profondi, che mi indussero poi ad accettare l’invito, furono dati dal fatto che lo studio della personalità di Cavour offriva un punto di vista vantaggioso per conoscere i maggiori processi della storia italiana ed europea della prima metà e della parte centrale del XIX secolo, guardandoli dal punto di vista specifico dell’azione politica di un uomo di stato che fu il massimo artefice dell’unificazione dell’Italia e uno dei maggiori protagonisti della storia d’Europa del secolo scorso. Cavour fu inoltre uno dei maggiori esponenti del liberalismo classico, un uomo di acuta sensibilità e grande capacità di riflessione e organizzazione mentale intorno ai maggiori problemi della sua epoca. Analizzare i risultati del suo pensiero e della sua opera assumeva quindi un interesse tutto particolare per me che ero, e sono, abbastanza vicino al punto di vista liberale.
In effetti, nella prima parte della sua opera, e non solo in quella, sono affrontati temi cruciali della storia europea: liberalismo, Restaurazione, rivoluzione industriale; inoltre, sul significato storico del Risorgimento, nonché sulla natura e sui caratteri della costruzione unitaria, lei aveva pubblicato studi molto noti, intorno ai quali molto si è discusso. Ma quali erano a tale proposito gli orientamenti prevalenti nella storiografia italiana quando lei iniziò il suo lavoro?
C’era da un lato la revisione di tipo marxista e gramsciana cui, sulla scia della proposta di interpretazione del Risorgimento avanzata da Gramsci, si era volto, già nell’immediato dopoguerra e poi con intensità sempre maggiore, un numero crescente di storici italiani, giovani e meno giovani, o anche anziani. Il nucleo di questa interpretazione era dato dall’idea che in Italia non era stato mai risolto il problema della rivoluzione borghese, che il processo di unificazione politica della penisola aveva offerto un’occasione storica per risolverlo mediante un’alleanza della borghesia capitalistica con i contadini e che la classe dirigente risorgimentale, non avendo mai affrontato in questi termini il problema, aveva concluso la sua opera, al di là del successo apparente, con un sostanziale fallimento, che poi spiegava le successive involuzioni autoritarie dello Stato italiano. E, poiché la storiografia di quel periodo era dominata dal problema delle origini del fascismo, si finiva per fare di tutta la storia d’Italia precedente, e del Risorgimento in particolare, l’antefatto del 1922 o addirittura del 1925, come in una partizione molto nota si ebbe a vedere. Da un altro lato molta storiografia criticava la soluzione risorgimentale, dall’interno del punto di vista liberale, come soluzione contraddittoria alle esigenze di un regime parlamentare, sostanzialmente elitaria, dovuta al prevalere di un ceto conservatore che di liberale aveva poco più che il nome. Questa era stata una tesi del revisionismo italiano di stampo radicale già prima della guerra e continuava poi ad essere in larga misura prevalente negli studi storici dell’Italia da parte di studiosi inglesi e americani. Insomma, l’atmosfera dominante era quella di un ambiente intellettuale che, trovandosi di fronte al disastro della seconda guerra mondiale, se ne chiedeva le ragioni, e finiva per interpretare in chiave di esso un po’ tutta la storia precedente. Ne derivava un bilancio fallimentare, in cui i protagonisti, che avevano voluto fare dell’Italia un paese che prima aveva ceduto al fascismo all’interno e poi, sul piano internazionale, era miseramente crollato alla prova della seconda guerra mondiale. Il giudizio che ne derivava si rifletteva non solo su ciò che era stato il fascismo e il periodo fascista, ma su tutta la storia dell’Italia unita in quanto collettività politica. Si intende poi che, siccome nessuna interpretazione politica può essere solo ed esclusivamente tale, ne derivava una valutazione negativa della società italiana nel suo complesso, come intrinsecamente incapace di livelli di convivenza accettabili nel mondo moderno.
Cominciamo dunque a parlare del pensiero politico di Cavour e del suo liberalismo; attraverso quali fasi essi giungono a piena maturazione?
Il Cavour giovane è fortemente polemico nei confronti del Piemonte assolutista, non solo sul piano delle istituzioni politiche ma anche su quello dell’ispirazione politico-culturale del regime restaurato, e quindi fortemente polemico contro la Chiesa, contro le istituzioni cattoliche, contro tutto il mondo che esalta quello che egli chiama, in alcune note del suo diario, «le bon vieux temps». Cavour era allora un liberale laico, anticlericale, avanzato, che auspicava una soluzione anche rivoluzionaria, vista come una ripresa della battaglia contro l’antico regime. In questo senso egli salutò la rivoluzione del 1830, in cui vide l’avvio dell’instaurazione di un regime liberale in Francia e anche l’apertura di speranze per le nazioni oppresse, a cominciare dall’Italia e dalla Polonia.
Si potrebbe parlare di un liberalismo quasi giacobino nel giovane Cavour?
Direi di no, anche se può darsi che per qualche istante abbia persino vagheggiato la possibilità di una vittoria della repubblica in Francia; ma questa resta solo un’ipotesi. In realtà egli voleva che in Francia trionfasse una monarchia liberale che fosse in grado di realizzare quel liberalismo che già da tempo era al potere in Inghilterra.
L’Inghilterra era quindi il suo modello preferito già negli anni anteriori al 1830.
Senz’altro. L’Inghilterra, in quanto paese della moderata libertà e nello stesso tempo del più celere processo economico e sociale, gli sembrava un modello esemplare sia sul piano politico sia sul piano ideologico e culturale; infatti Cavour vedeva il liberalismo inglese soprattutto in chiave benthamita, e di Bentham egli aveva fatto il suo pensatore politico preferito.
Perché un regime repubblicano non avrebbe potuto perseguire in Francia gli obiettivi raggiunti in Inghilterra dal regime monarchico?
Perché la repubblica per Cavour significava quello che in sostanza aveva significato per tutti coloro che avevano vissuto l’esperienza della fine del ‘700, i cui echi il conte raccoglieva nel suo ambiente: la ghigliottina, l’ascesa delle classi inferiori a mezzo della violenza e del terrore, la negazione dei valori più alti della tradizione civile europea. Cavour stesso spiega come per qualche tempo, dopo il 1830, egli vivesse un periodo di penosa incertezza, oscillando tra il desiderio di accelerare il progresso a qualunque costo e quello di non sacrificare per questo la libertà. Egli riteneva che l’instaurazione della repubblica dopo il 1830 avrebbe comportato la ripresa della marcia della rivoluzione, intesa come sovvertimento politico e sociale dell’Europa occidentale. Questo comportava la rinuncia, per un certo periodo, all’idea della rivoluzione politica e la concentrazione invece sul progresso economico. Il liberalismo economico costituiva dunque il grande strumento per un reale progresso della società, che doveva però essere garantito dalla conservazione del potere politico da parte dei ceti fondiari. Anche in questo caso il modello non era la Francia ma l’Inghilterra, con la sua classe dirigente formata dall’aristocrazia terriera e un accelerato sviluppo economico affidato alla libera impresa e al progresso della tecnologia; a quello cioè che noi chiamiamo rivoluzione industriale. In tal modo Cavour pensava di poter risolvere il dilemma che Tocqueville aveva individuato tra la tendenza alla concentrazione della ricchezza in una cerchia sempre più ristretta e la diffusione del potere politico attraverso il suffragio universale, cioè attraverso la democrazia. Tale contrasto secondo Tocqueville portava inevitabilmente alla rivoluzione; per evitarla bisognava che, prima di estendere il potere politico a tutta la società, si diffondesse la prosperità economica attraverso le riforme.
Questo timore della rivoluzione condizionò sensibilmente e a lungo la condotta politica di Cavour?
Sì, perché Cavour vedeva la rivoluzione nazionale italiana come parte e momento della rivoluzione europea, e quindi tale da non aver successo se non in collegamento con la rivoluzione in Francia. Ma quest’ultima era ai suoi occhi gravida di pericoli sociali, per timore dei quali Cavour finiva per rinviare a un tempo imprecisato anche la rivoluzione nazionale italiana. Di qui il sostanziale attendismo politico di Cavour e, sul piano biografico, il fatto che in politica entrasse solo a 37 anni, trascorrendo la giovinezza e gran parte della maturità fuori del mondo della politica.
Il 1848 non giovò a cambiare il suo modo di vedere le cose.
A Cavour, dopo le prime esperienze, sembrò che il 1848 confermasse tutti i suoi timori, con la scena occupata dalle giornate di giugno a Parigi e dalla rivoluzione socialista o comunista, come già allora si diceva. Quindi Cavour finì l’esperienza del biennio rivoluzionario su posizioni nettamente conservatrici. Allineato alla Destra moderata, ossia a D’Azeglio, egli iniziò infatti al sua carriera politica.
Quali erano i capisaldi del moderatismo azegliano?
Una moderata politica di riforme che facesse del Piemonte uno Stato modello al quale potessero guardare gli altri Stati della penisola, mostrando a tutti i vantaggi di un regime liberale.
Quali erano i limiti di questo programma?
Questo disegno aveva il difetto di tutta l’impostazione moderata, che riteneva di mutare l’assetto politico italiano facendo asili infantili, qualche ferrovia, qualche Cassa di Risparmio, e che in seguito a ciò l’Austria se ne sarebbe andata, senza peraltro riuscire a dire come.
Quando cominciò a mutare l’atteggiamento di Cavour?
Col colpo di stato in Francia del dicembre 1851, che modificò uno dei dati fondamentali della situazione. Con esso Cavour cominciò a intravvedere la possibilità di un’iniziativa volta a modificare l’assetto europeo in modo vantaggioso per la causa italiana, senza che ciò implicasse la rivoluzione, perché a Parigi vi era ormai un potere capace di controllare la situazione all’interno, pur con intenti revisionisti e dinamici in politica estera. La situazione internazionale tardò tuttavia a modificarsi per qualche anno. Dei disegni di Napoleone III non si conoscevano in Piemonte né i tempi né i modi. Era ferma l’idea che prima o poi ci sarebbe stato uno scontro ideologico tra le potenze occidentali e quelle orientali. Nel frattempo, però, il conte si distaccò dal vecchio moderatismo con un’operazione fondamentale nella storia d’Italia.
Il Connubio
Esattamente. Con il Connubio Cavour creò quella che fu poi la Destra, che era cosa diversa dal vecchio moderatismo. Gli uomini caratterizzanti la Destra, da Rattazzi a Lanza, provenivano in realtà dalla Sinistra prequarantottesca, erano uomini che avevano una concezione riformatrice e giacobineggiante dello Stato, considerato come lo strumento principale per la riforma della società. L’immissione di uomini come questi diede al liberalismo della Destra un tono a un carattere diverso dal liberalismo «juste milieu» a cui Cavour si era educato. Perciò la politica riformatrice di Cavour presidente del Consiglio fu molto più aggressiva di quella azegliana, e riguardo ai rapporti tra Stato e Chiesa si spinse tanto oltre da segnare persino una deviazione dal mero separatismo, al quale tuttavia ritornò più tardi con la formula «libera Chiesa in libero Stato».
Nel Connubio è stata indicata la prima operazione centrista e quindi trasformista della storia parlamentare d’Italia. La forte spinta riformista in politica interna e il suo accentuato dinamismo in politica estera sono sufficienti a differenziarla in modo sostanziale dalle successive operazioni centriste e trasformiste, a partire da quella di Depretis?
Secondo me sì, perché il trasformismo è una manovra che tende ad assimilare le forze dell’opposizione a quelle di governo, senza modificare l’indirizzo politico in modo sostanziale, decapitando così l’opposizione e risolvendo tutto in chiave conservatrice. Il Connubio può essere considerato la prima operazione trasformista perché attraverso di esso si costituisce una maggioranza centrista, anticipando la caratterizzazione centrista che poi hanno avuto tutti i governi italiani quasi senza eccezioni sino ad oggi. Però quell’operazione non fu affatto di carattere conservatore, non mirò a mantenere l’assetto esistente: far entrare nel governo uomini di centro-sinistra significò allora accentuare la politica riformatrice e la spinta unitaria, mutando radicalmente il quadro politico. La soluzione centrista si spiega in tutta la storia d’Italia, ma nessuna alleanza centrista, neppure quella giolittiana, ebbe il carattere dinamico del Connubio, che puntava addirittura alla creazione di un nuovo Stato nella penisola.
In che senso la soluzione centrista si spiega in tutta la storia d’Italia?
L’idea che in Italia potesse esserci una soluzione che facesse proprio il sistema bipartitico parte dall’illusione che vi fosse un’omogeneità politica e sociale inesistente nella realtà. In Italia la destra estrema non voleva l’unità dello Stato e quindi era un tipico movimento antisistema; la sinistra non voleva la forma monarchica dello Stato e pertanto era anch’essa una forza antisistema. Anche in seguito la destra e la sinistra estreme hanno conservato a lungo questi caratteri di forze antisistema e quindi, come avvenne in Francia col centrismo radical-socialista della Terza Repubblica e come è avvenuto in altre democrazie continentali, comprese alcune democrazie nordiche, le maggioranze centriste che hanno governato l’Italia hanno evitato che la contrapposizione netta tra forze rivoluzionarie e forze reazionarie si trasformasse in uno scontro che non si sarebbe risolto in una mera alternanza di governo, ma in un’alternativa di sistema e quindi nella guerra civile.
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