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    Predefinito Cavour, il suo e il nostro tempo (1985)



    Intervista con Rosario Romeo a cura di Guido Pescosolido - «Mondoperaio», marzo 1985, pp. 93-102.

    È nelle librerie una biografia del conte di Cavour che può considerarsi l’atto conclusivo di un ciclo più che ventennale di ricerca e di riflessione dello storico Rosario Romeo sulla figura e sull’opera del più grande uomo di stato che l’Italia abbia avuto (Vita di Cavour, Laterza, 1984, pp. 549, L. 26.000). Con essa l’autore, uno degli esponenti più rappresentativi, anche a livello internazionale, della storiografia italiana contemporanea, ha voluto offrire al pubblico dei non specialisti i risultati più importanti e significativi delle sue indagini cavouriane, esposti analiticamente e mirabilmente documentati nella sua opera maggiore, Cavour e il suo tempo (Laterza, 1969-1984), conclusasi di recente con la pubblicazione del terzo e ultimo volume.
    In questo più breve profilo, che comunque supera le 500 pagine, le vicende strettamente biografiche e l’opera personale di Cavour hanno nettamente il sopravvento sulle più generali tematiche di storia italiana ed europea tanto ampiamente trattate nell’opera maggiore; tuttavia il quadro d’insieme emerge ugualmente nitido e completo e nessuna delle più significative acquisizioni della prima e più ampia trattazione manca nell’abrégé. L’importanza storiografica e il valore culturale politico dell’opera di Romeo sono molto grandi. Non si esagera se si afferma che in un’ipotetica, e sia pur arbitraria, graduatoria secolare essa va certamente a occupare una delle posizioni più elevate. Per pochi lavori di storia come per questo si può dire che l’eccellenza dei risultati raggiunti sia proporzionata all’importanza e alla complessità del tema trattato.

    La prima domanda, professor Romeo, potrà apparire scontata, ma resta d’obbligo: perché decise di scrivere una biografia di Cavour?


    Per motivi in parte occasionali, in parte più profondi. Quelli occasionali furono dati dall’invito rivoltomi, su indicazione di Federico Chabod, dal professor Renzo Gandolfi, animatore della Famija Piemontèisa di Roma. Quelli più profondi, che mi indussero poi ad accettare l’invito, furono dati dal fatto che lo studio della personalità di Cavour offriva un punto di vista vantaggioso per conoscere i maggiori processi della storia italiana ed europea della prima metà e della parte centrale del XIX secolo, guardandoli dal punto di vista specifico dell’azione politica di un uomo di stato che fu il massimo artefice dell’unificazione dell’Italia e uno dei maggiori protagonisti della storia d’Europa del secolo scorso. Cavour fu inoltre uno dei maggiori esponenti del liberalismo classico, un uomo di acuta sensibilità e grande capacità di riflessione e organizzazione mentale intorno ai maggiori problemi della sua epoca. Analizzare i risultati del suo pensiero e della sua opera assumeva quindi un interesse tutto particolare per me che ero, e sono, abbastanza vicino al punto di vista liberale.


    In effetti, nella prima parte della sua opera, e non solo in quella, sono affrontati temi cruciali della storia europea: liberalismo, Restaurazione, rivoluzione industriale; inoltre, sul significato storico del Risorgimento, nonché sulla natura e sui caratteri della costruzione unitaria, lei aveva pubblicato studi molto noti, intorno ai quali molto si è discusso. Ma quali erano a tale proposito gli orientamenti prevalenti nella storiografia italiana quando lei iniziò il suo lavoro?

    C’era da un lato la revisione di tipo marxista e gramsciana cui, sulla scia della proposta di interpretazione del Risorgimento avanzata da Gramsci, si era volto, già nell’immediato dopoguerra e poi con intensità sempre maggiore, un numero crescente di storici italiani, giovani e meno giovani, o anche anziani. Il nucleo di questa interpretazione era dato dall’idea che in Italia non era stato mai risolto il problema della rivoluzione borghese, che il processo di unificazione politica della penisola aveva offerto un’occasione storica per risolverlo mediante un’alleanza della borghesia capitalistica con i contadini e che la classe dirigente risorgimentale, non avendo mai affrontato in questi termini il problema, aveva concluso la sua opera, al di là del successo apparente, con un sostanziale fallimento, che poi spiegava le successive involuzioni autoritarie dello Stato italiano. E, poiché la storiografia di quel periodo era dominata dal problema delle origini del fascismo, si finiva per fare di tutta la storia d’Italia precedente, e del Risorgimento in particolare, l’antefatto del 1922 o addirittura del 1925, come in una partizione molto nota si ebbe a vedere. Da un altro lato molta storiografia criticava la soluzione risorgimentale, dall’interno del punto di vista liberale, come soluzione contraddittoria alle esigenze di un regime parlamentare, sostanzialmente elitaria, dovuta al prevalere di un ceto conservatore che di liberale aveva poco più che il nome. Questa era stata una tesi del revisionismo italiano di stampo radicale già prima della guerra e continuava poi ad essere in larga misura prevalente negli studi storici dell’Italia da parte di studiosi inglesi e americani. Insomma, l’atmosfera dominante era quella di un ambiente intellettuale che, trovandosi di fronte al disastro della seconda guerra mondiale, se ne chiedeva le ragioni, e finiva per interpretare in chiave di esso un po’ tutta la storia precedente. Ne derivava un bilancio fallimentare, in cui i protagonisti, che avevano voluto fare dell’Italia un paese che prima aveva ceduto al fascismo all’interno e poi, sul piano internazionale, era miseramente crollato alla prova della seconda guerra mondiale. Il giudizio che ne derivava si rifletteva non solo su ciò che era stato il fascismo e il periodo fascista, ma su tutta la storia dell’Italia unita in quanto collettività politica. Si intende poi che, siccome nessuna interpretazione politica può essere solo ed esclusivamente tale, ne derivava una valutazione negativa della società italiana nel suo complesso, come intrinsecamente incapace di livelli di convivenza accettabili nel mondo moderno.

    Cominciamo dunque a parlare del pensiero politico di Cavour e del suo liberalismo; attraverso quali fasi essi giungono a piena maturazione?

    Il Cavour giovane è fortemente polemico nei confronti del Piemonte assolutista, non solo sul piano delle istituzioni politiche ma anche su quello dell’ispirazione politico-culturale del regime restaurato, e quindi fortemente polemico contro la Chiesa, contro le istituzioni cattoliche, contro tutto il mondo che esalta quello che egli chiama, in alcune note del suo diario, «le bon vieux temps». Cavour era allora un liberale laico, anticlericale, avanzato, che auspicava una soluzione anche rivoluzionaria, vista come una ripresa della battaglia contro l’antico regime. In questo senso egli salutò la rivoluzione del 1830, in cui vide l’avvio dell’instaurazione di un regime liberale in Francia e anche l’apertura di speranze per le nazioni oppresse, a cominciare dall’Italia e dalla Polonia.


    Si potrebbe parlare di un liberalismo quasi giacobino nel giovane Cavour?


    Direi di no, anche se può darsi che per qualche istante abbia persino vagheggiato la possibilità di una vittoria della repubblica in Francia; ma questa resta solo un’ipotesi. In realtà egli voleva che in Francia trionfasse una monarchia liberale che fosse in grado di realizzare quel liberalismo che già da tempo era al potere in Inghilterra.

    L’Inghilterra era quindi il suo modello preferito già negli anni anteriori al 1830.

    Senz’altro. L’Inghilterra, in quanto paese della moderata libertà e nello stesso tempo del più celere processo economico e sociale, gli sembrava un modello esemplare sia sul piano politico sia sul piano ideologico e culturale; infatti Cavour vedeva il liberalismo inglese soprattutto in chiave benthamita, e di Bentham egli aveva fatto il suo pensatore politico preferito.

    Perché un regime repubblicano non avrebbe potuto perseguire in Francia gli obiettivi raggiunti in Inghilterra dal regime monarchico?

    Perché la repubblica per Cavour significava quello che in sostanza aveva significato per tutti coloro che avevano vissuto l’esperienza della fine del ‘700, i cui echi il conte raccoglieva nel suo ambiente: la ghigliottina, l’ascesa delle classi inferiori a mezzo della violenza e del terrore, la negazione dei valori più alti della tradizione civile europea. Cavour stesso spiega come per qualche tempo, dopo il 1830, egli vivesse un periodo di penosa incertezza, oscillando tra il desiderio di accelerare il progresso a qualunque costo e quello di non sacrificare per questo la libertà. Egli riteneva che l’instaurazione della repubblica dopo il 1830 avrebbe comportato la ripresa della marcia della rivoluzione, intesa come sovvertimento politico e sociale dell’Europa occidentale. Questo comportava la rinuncia, per un certo periodo, all’idea della rivoluzione politica e la concentrazione invece sul progresso economico. Il liberalismo economico costituiva dunque il grande strumento per un reale progresso della società, che doveva però essere garantito dalla conservazione del potere politico da parte dei ceti fondiari. Anche in questo caso il modello non era la Francia ma l’Inghilterra, con la sua classe dirigente formata dall’aristocrazia terriera e un accelerato sviluppo economico affidato alla libera impresa e al progresso della tecnologia; a quello cioè che noi chiamiamo rivoluzione industriale. In tal modo Cavour pensava di poter risolvere il dilemma che Tocqueville aveva individuato tra la tendenza alla concentrazione della ricchezza in una cerchia sempre più ristretta e la diffusione del potere politico attraverso il suffragio universale, cioè attraverso la democrazia. Tale contrasto secondo Tocqueville portava inevitabilmente alla rivoluzione; per evitarla bisognava che, prima di estendere il potere politico a tutta la società, si diffondesse la prosperità economica attraverso le riforme.


    Questo timore della rivoluzione condizionò sensibilmente e a lungo la condotta politica di Cavour?


    Sì, perché Cavour vedeva la rivoluzione nazionale italiana come parte e momento della rivoluzione europea, e quindi tale da non aver successo se non in collegamento con la rivoluzione in Francia. Ma quest’ultima era ai suoi occhi gravida di pericoli sociali, per timore dei quali Cavour finiva per rinviare a un tempo imprecisato anche la rivoluzione nazionale italiana. Di qui il sostanziale attendismo politico di Cavour e, sul piano biografico, il fatto che in politica entrasse solo a 37 anni, trascorrendo la giovinezza e gran parte della maturità fuori del mondo della politica.

    Il 1848 non giovò a cambiare il suo modo di vedere le cose.

    A Cavour, dopo le prime esperienze, sembrò che il 1848 confermasse tutti i suoi timori, con la scena occupata dalle giornate di giugno a Parigi e dalla rivoluzione socialista o comunista, come già allora si diceva. Quindi Cavour finì l’esperienza del biennio rivoluzionario su posizioni nettamente conservatrici. Allineato alla Destra moderata, ossia a D’Azeglio, egli iniziò infatti al sua carriera politica.

    Quali erano i capisaldi del moderatismo azegliano?

    Una moderata politica di riforme che facesse del Piemonte uno Stato modello al quale potessero guardare gli altri Stati della penisola, mostrando a tutti i vantaggi di un regime liberale.


    Quali erano i limiti di questo programma?


    Questo disegno aveva il difetto di tutta l’impostazione moderata, che riteneva di mutare l’assetto politico italiano facendo asili infantili, qualche ferrovia, qualche Cassa di Risparmio, e che in seguito a ciò l’Austria se ne sarebbe andata, senza peraltro riuscire a dire come.

    Quando cominciò a mutare l’atteggiamento di Cavour?

    Col colpo di stato in Francia del dicembre 1851, che modificò uno dei dati fondamentali della situazione. Con esso Cavour cominciò a intravvedere la possibilità di un’iniziativa volta a modificare l’assetto europeo in modo vantaggioso per la causa italiana, senza che ciò implicasse la rivoluzione, perché a Parigi vi era ormai un potere capace di controllare la situazione all’interno, pur con intenti revisionisti e dinamici in politica estera. La situazione internazionale tardò tuttavia a modificarsi per qualche anno. Dei disegni di Napoleone III non si conoscevano in Piemonte né i tempi né i modi. Era ferma l’idea che prima o poi ci sarebbe stato uno scontro ideologico tra le potenze occidentali e quelle orientali. Nel frattempo, però, il conte si distaccò dal vecchio moderatismo con un’operazione fondamentale nella storia d’Italia.


    Il Connubio


    Esattamente. Con il Connubio Cavour creò quella che fu poi la Destra, che era cosa diversa dal vecchio moderatismo. Gli uomini caratterizzanti la Destra, da Rattazzi a Lanza, provenivano in realtà dalla Sinistra prequarantottesca, erano uomini che avevano una concezione riformatrice e giacobineggiante dello Stato, considerato come lo strumento principale per la riforma della società. L’immissione di uomini come questi diede al liberalismo della Destra un tono a un carattere diverso dal liberalismo «juste milieu» a cui Cavour si era educato. Perciò la politica riformatrice di Cavour presidente del Consiglio fu molto più aggressiva di quella azegliana, e riguardo ai rapporti tra Stato e Chiesa si spinse tanto oltre da segnare persino una deviazione dal mero separatismo, al quale tuttavia ritornò più tardi con la formula «libera Chiesa in libero Stato».


    Nel Connubio è stata indicata la prima operazione centrista e quindi trasformista della storia parlamentare d’Italia. La forte spinta riformista in politica interna e il suo accentuato dinamismo in politica estera sono sufficienti a differenziarla in modo sostanziale dalle successive operazioni centriste e trasformiste, a partire da quella di Depretis?

    Secondo me sì, perché il trasformismo è una manovra che tende ad assimilare le forze dell’opposizione a quelle di governo, senza modificare l’indirizzo politico in modo sostanziale, decapitando così l’opposizione e risolvendo tutto in chiave conservatrice. Il Connubio può essere considerato la prima operazione trasformista perché attraverso di esso si costituisce una maggioranza centrista, anticipando la caratterizzazione centrista che poi hanno avuto tutti i governi italiani quasi senza eccezioni sino ad oggi. Però quell’operazione non fu affatto di carattere conservatore, non mirò a mantenere l’assetto esistente: far entrare nel governo uomini di centro-sinistra significò allora accentuare la politica riformatrice e la spinta unitaria, mutando radicalmente il quadro politico. La soluzione centrista si spiega in tutta la storia d’Italia, ma nessuna alleanza centrista, neppure quella giolittiana, ebbe il carattere dinamico del Connubio, che puntava addirittura alla creazione di un nuovo Stato nella penisola.


    In che senso la soluzione centrista si spiega in tutta la storia d’Italia?


    L’idea che in Italia potesse esserci una soluzione che facesse proprio il sistema bipartitico parte dall’illusione che vi fosse un’omogeneità politica e sociale inesistente nella realtà. In Italia la destra estrema non voleva l’unità dello Stato e quindi era un tipico movimento antisistema; la sinistra non voleva la forma monarchica dello Stato e pertanto era anch’essa una forza antisistema. Anche in seguito la destra e la sinistra estreme hanno conservato a lungo questi caratteri di forze antisistema e quindi, come avvenne in Francia col centrismo radical-socialista della Terza Repubblica e come è avvenuto in altre democrazie continentali, comprese alcune democrazie nordiche, le maggioranze centriste che hanno governato l’Italia hanno evitato che la contrapposizione netta tra forze rivoluzionarie e forze reazionarie si trasformasse in uno scontro che non si sarebbe risolto in una mera alternanza di governo, ma in un’alternativa di sistema e quindi nella guerra civile.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Cavour, il suo e il nostro tempo (1985)

    Torniamo a Cavour e alla fase cruciale del processo di unificazione; un periodo abbastanza breve di tempo durante il quale lo statista piemontese realizzò più di quanto abbiano realizzato intere generazioni di politici. Su questo periodo «Cavour e il suo tempo» porta elementi di sostanziale novità su fatti minori ma importanti: dalla condotta politico-militare della guerra di Crimea all’atteggiamento di Cavour verso la partenza dei Mille, alla rappresentanza del Mezzogiorno nel Parlamento unitario eccetera. Ma in questa sede dobbiamo limitarci alle linee principali dell’interpretazione. È possibile stabilire quanto concorse ai risultati raggiunti la fortuna e quanto l’abilità dell’uomo politico Cavour?

    Cavour forse ebbe fortuna in varie circostanze. Si può dire che ebbe fortuna per il fatto che i risultati del Congresso di Parigi riuscissero ad apparire come un grande successo diplomatico, nonostante non vi fossero stati mutamenti territoriali nell’assetto della penisola. Ebbe fortuna per il fatto che l’Austria ruppe le relazioni diplomatiche con il Piemonte quando sembrava che la politica di Plombières si fosse arenata. Ebbe ancora fortuna quando nel 1859 l’Austria dichiarò la guerra proprio nel momento in cui allo stesso conte pareva che ogni speranza in tal senso si fosse chiusa. Tuttavia, se si analizzano attentamente i fatti, ci si accorge che questa fortuna non cadde dal cielo. Intanto la partecipazione alla guerra di Crimea era stata fermamente voluta da Cavour contro lo stesso schieramento azegliano, che non vedeva nel conflitto l’atteso scontro ideologico tra Oriente e Occidente. Inoltre è un fatto che il risultato del Congresso di Parigi fu ottenuto da Cavour nonostante la pace fosse avvenuta prima del tempo e quindi in condizioni diversa da quelle previste a Torino. Fu Cavour, inoltre, a far in modo che il risultato del Congresso fosse non solo propagandistico ma anche politico, raggiungendo il massimo degli obiettivi che la diplomazia piemontese si era proposta nell’ipotesi che non vi fossero stati cambiamenti territoriali in Italia, cioè di imporre la questione italiana come problema davanti alla diplomazia europea. Da quel momento il Piemonte si collocò sul crinale fra l’Europa e l’Italia, presentandosi all’opinione nazionale italiana come l’interprete della diplomazia europea presso di essa e nel contempo erigendosi di fronte all’Europa come il rappresentante di tutto il movimento nazionale italiano. Con ciò il Piemonte conseguiva un vantaggio diplomatico di enormi proporzioni, che nessun altro Stato italiano si sarebbe mai potuto sognare di avere, e che invece venne dato per acquisito dalle potenze europee, nonostante le proteste espresse al riguardo dall’Austria e dagli Stati conservatori della penisola. Per quanto riguarda poi la rottura delle relazioni diplomatiche e la dichiarazione di guerra all’Austria, bisogna ricordare che l’una e l’altra furono il risultato di una politica, deliberatamente condotta da Cavour, di provocazione estrema della potenza austriaca, tenuta sempre sotto pressione, ma non tanto da far trovare il Piemonte coinvolto, senza alleati, in un conflitto con l’Austria stessa.


    Ma la decisione austriaca di aprire le ostilità non fu irrazionale?


    No. L’Austria sapeva che se avesse trionfato la tesi del Congresso vi sarebbe stata la revisione di tutte le sue posizioni nella penisola italiana al di sotto del Po, il che equivaleva a compromettere, e in pratica a rinunciare alla sua egemonia nella penisola. Essa ritenne che questa evenienza fosse tale da coinvolgere i maggiori interessi della monarchia asburgica come grande potenza e che quindi il governo di Vienna, in quel caso, dovesse correre i rischi di una grande guerra.

    Cavour avrebbe potuto raggiungere un risultato di grande importanza anche solo con mezzi diplomatici. Perché non lo fece?


    Perché questo non sarebbe bastato al movimento nazionale italiano che voleva la liberazione del Lombardo-Veneto. Se non avesse puntato a questo scopo, il conte avrebbe perso il collegamento con il movimento nazionale, perché sarebbe stato accusato di avere ancora una volta sacrificato l’obiettivo dell’unità nazionale a un nuovo compromesso di natura diplomatica.

    Posto dunque che nell’opera di Cavour l’abilità prevalse sulla fortuna, è possibile stabilire quale fu il peso della sua azione nelle fasi cruciali dell’unificazione? Leggendo le pagine dell’opera si ha a tratti l’impressione di trovarsi di fronte a una personalità superiore che riesce a strumentalizzare alleati e avversari, orientando quasi da solo il corso della storia.

    Certamente Cavour ebbe un ruolo eminente come personaggio, che poi culminò, nel 1860, in quel periodo decisivo di circa tre mesi che va dall’annessione dell’Umbria e delle Marche fino all’ingresso di Vittorio Emanuele a Napoli. Durante quel periodo il Consiglio dei ministri non deliberò più e Cavour portò avanti da solo tutta la politica del governo. Certamente in quel momento la sua personalità ebbe un’importanza molto grande per il concentrarsi in essa di poteri decisionali che investivano tutta la strategia nazionale italiana. Però bisogna dire, e questo anche a proposito del discorso sulla fortuna che facevamo poc’anzi, che in fondo tutto ciò fu sempre reso possibile, al di là dell’abilità personale di Cavour, dalla presenza di una pressione costante dal basso, esercitata dal movimento nazionale. Era, questa, una realtà incomprimibile, che dava a Cavour la possibilità di perseguire con successo operazioni con elevatissimi margini di rischio. Al di fuori di questo grande movimento di fondo, la sua capacità di manovra gli si sarebbe infranta nelle mani. Per quel che riguarda poi il tentativo di strumentalizzare amici e alleati, va detto che esso non era solo di Cavour. In politica questo accade sempre, e in fondo lo stesso Mazzini, mediante quella rete di contatti più o meno chiari che talora stabilì col governo, cos’altro fece se non tentare di strumentalizzare l’alleanza con il governo, cercando di comprometterlo quanto più poteva, onde creare le premesse affinché la situazione reale fosse poi controllata dalle forze rivoluzionarie? La differenza sta nel fatto che Mazzini finì per essere battuto perché l’ala marciante del movimento democratico, il garibaldinismo, venne strumentalizzata, senza riuscire a strumentalizzare a sua volta le altre forze.


    Siamo entrati così nella fondamentale tematica dei contrasti: con Mazzini, con Vittorio Emanuele, con Garibaldi, ma anche con Napoleone III e con l’Inghilterra. Sono temi sui quali il suo lavoro innova molto rispetto al passato. Cominciamo dal contrasto con Napoleone III. La storiografia francese, alla luce della seguente storia europea e del successivo evolversi dei rapporti tra Francia e Italia (le due nazioni furono nel 1881 sull’orlo della guerra e rimasero legate a blocchi contrapposti fino al 1915), ha rilevato più volte che i timori di Walewski e di Thiers a proposito della politica estera di Napoleone III erano largamente fondati.


    Thiers disse chiaramente che la Francia non aveva nessun interesse alla formazione di due grandi Stati nazionali ai suoi confini e che, pertanto, la politica dell’imperatore era contraria agli interessi della Francia. Walewski temeva qualcosa di più, addirittura la ripresa di una coalizione europea contro la Francia. In realtà Napoleone III era convinto di poter strumentalizzare il movimento nazionale italiano per giungere alla creazione nella penisola di un gruppo di Stati satelliti. Come lui stesso scrisse a Walewski in una sua memoria, essi dovevano circondare la Francia come i pianeti circondano il sole. Questo proposito però non si realizzò perché Cavour, in merito alla questione toscana e agli Stati romani, già prima di Villafranca ma soprattutto dopo, puntò a una soluzione che andava al di là di quanto voleva concedere Napoleone III, e sostanzialmente riuscì a imporla. Napoleone III non aveva mai voluto in Italia uno Stato unitario, e anche dopo il 1861 continuò a dire di non credere alla sua stabilità, e ad affermare che esso sarebbe andato in frantumi quanto prima.


    Napoleone III, quindi, non sarebbe affatto quell’ideologo delle nazionalità che spesso di è voluto far apparire.

    Ne sono fermamente convinto. Neppure lui voleva trovarsi di fronte una Germania e un’Italia capaci di pesare sulla bilancia internazionale quanto la Francia. In questo senso la sua posizione non era diversa da quella di un Thiers o di un Walewski. Ma la sua era una posizione aggressiva, dinamica, non conservatrice. Gli altri volevano raggiungere questo fine mantenendo invariata la distribuzione del potere esistente in Europa; Napoleone III invece voleva fare della Francia il centro di un nuovo assetto europeo, strumentalizzando i movimenti nazionali. Soltanto che in Italia incontrò nell’azione di Cavour una soluzione politicamente più forte della sua, e in Germania una soluzione non solo politicamente ma anche militarmente più forte, e il nuovo assetto europeo segnò la fine dell’egemonia francese.

    Un altro aspetto in cui la sua opera rivede posizioni abbastanza consolidate della storiografia tradizionale è quello dei rapporti con l’Inghilterra, il primo amore di Cavour.


    Sì, perché l’Inghilterra, che è apparsa come la grande amica del movimento nazionale italiano, in realtà, se si eccettuano simpatie platoniche o puramente verbali, poco influenti sulla condotta del governo, non volle mai l’unità d’Italia, perché temeva che si indebolisse in tal modo la posizione dell’Austria, sua maggiore alleata, anzi unica alleata che le fosse rimasta in Europa contro il pericolo di una rinnovata egemonia francese. Fino all’estate del 1860 l’Inghilterra tentò, per quanto possibile, di frenare il processo di unificazione in Italia e, soprattutto dopo l’affare della Savoia, vide in Cavour un semplice strumento di Napoleone III. Il riconoscimento poi dell’unità d’Italia, e anche il famoso dispaccio del Russell del 27 ottobre 1860 arrivarono entrambi a cose ormai fatte. In realtà ancora nell’estate del 1860 Russell aveva preso in considerazione la possibilità di un intervento militare inglese in difesa dei residui possessi austriaci in Italia. Certo, l’Inghilterra si rifiutò di aderire alla proposta francese di un intervento congiunto teso a fermare Garibaldi allo Stretto, ma ciò non avvenne per un cambiamento di vedute rispetto al problema italiano: essa infatti nel tempo stesso faceva pressione su Torino affinché Vittorio Emanuele invitasse Garibaldi a fermarsi in Sicilia, senza passare sul continente. Il rifiuto di un intervento diretto si inquadrava in realtà nell’atteggiamento generale della politica estera inglese, entrata, dopo la dimostrazione della sua insufficienza militare nella guerra di Crimea, in quella fase di «splendid isolation» che comportava il rifiuto di ogni coinvolgimento militare non solo nella questione italiana ma in qualunque questione continentale. Il governo di Londra cercava nello stesso tempo di impedire che Napoleone III intervenisse a propria volta, perché dal suo eventuale intervento sarebbe certamente derivato un incremento dell’influenza francese in Italia. Si potrebbe dire che l’atteggiamento antipiemontese e antiunitario dell’Inghilterra era dovuto alla decisione di Cavour di unire le sorti del Piemonte a quelle della Francia. Ma questa era stata in realtà una scelta obbligata. L’Inghilterra non aveva mai preso in considerazione nessuna azione che davvero tendesse a modificare l’assetto creato in Europa e nella penisola italiana dai trattati di Vienna.


    Veniamo ora ai grandi contrasti interni. Il contrasto che creò a Cavour i maggiori problemi fu senz’altro quello con Vittorio Emanuele.


    Sì, perché Cavour governava in nome di Vittorio Emanuele, e il re, a partire dal gennaio del 1859, gli tolse l’appoggio che fino ad allora gli aveva sempre dato. I dissensi tra i due sorsero per l’affare della Rosina, e a tale proposito sono convinto che Cavour fece benissimo ad opporsi al matrimonio del re con la figlia di una delle guardie del palazzo reale, matrimonio che avrebbe screditato lo stesso re e ridicolizzato quello della principessa Clotilde col principe Napoleone, un evento cui, alla vigilia della guerra, Napoleone III attribuiva tanta importanza. Sul piano personale le cose toccarono estremi molto gravi e il rancore del re durò anche oltre la morte di Cavour. Vittorio Emanuele, quando fu possibile, specialmente tra Villafranca e il ritorno di Cavour al governo nel gennaio del 1860, e anche durante la spedizione garibaldina, cercò di liberarsi del conte. Però nella sostanza il re, anche in quel periodo, fu completamente dominato da Cavour. Anche i suoi tentativi di allacciare rapporti con Garibaldi furono in parte consentiti da Cavour stesso. Nei momenti decisivi (spedizione negli Stati romani, licenziamento del ministero, plebiscito ecc.) il re non poté che seguire la politica di Cavour, senza riuscire a svilupparne una propria alternativa.


    Fu dunque un contrasto di carattere soprattutto personale. Il contrasto politicamente più profondo e complesso resta invece quello con Mazzini, nonostante sembri che non sia mancata una certa influenza del mazzinianesimo nella formazione del pensiero politico di Cavour.


    Mazzini influenzò Cavour nel senso che fu soprattutto ad opera sua che l’idea dell’unificazione divenne comune a tutto il movimento nazionale e quindi anche a Cavour. Lo influenzò anche nel senso che in certa misura Cavour partecipò della convinzione, tipicamente mazziniana, che l’unificazione dovesse avvenire anche ad opera degli italiani stessi e non solo in virtù di mere combinazioni diplomatiche, anche se peraltro Cavour fu sempre persuaso che l’idea della grande rivoluzione popolare, a cui Mazzini continuava a credere, fosse, in sostanza, come poi in realtà era, un’utopia, poiché in Italia non ne esistevano le condizioni.


    Sulla mancanza di queste condizioni rivoluzionarie e sui limiti dell’impostazione mazziniana lei si è soffermato abbastanza, allontanandosi decisamente dalle passate acquisizioni storiografiche.


    Sì, nel senso che non era stato mai visto con chiarezza questo limite, se non nei termini polemici dei moderati, che accusavano Mazzini di essere un utopista.


    Ma in che senso Mazzini non era un utopista?


    Mazzini era un utopista solo in parte, ossia nella misura in cui riteneva di poter coinvolgere le grandi masse nella guerra rivoluzionaria, quando invece non aveva soluzioni per il problema dei contadini, e non le aveva neppure Garibaldi. Non bisogna infatti dimenticare che, nonostante tutti i decreti garibaldini sull’assegnazione delle terre ai reduci, la cui importanza è stata sopravvalutata, i volontari siciliani furono pochi e in parte furono anche costretti, in sostanza, a varcare lo Stretto. Molti di essi non si sentivano affatto coinvolti in una guerra che si estendesse al continente.


    E nel Mezzogiorno?


    Vi fu anche lì un’eco del movimento di massa, ma Napoli, città che rasentava il mezzo milione di abitanti, diede a Garibaldi solo 80 volontari. Il che dimostra come poi non c’era nel Sud tutta questa grande base rivoluzionaria. Va però considerato, e questo è un fatto che io ritengo molto importante, che il ruolo di Mazzini non era quello di un semplice apostolo o di un profeta. Mazzini era un vero rivoluzionario, mirante a creare rapporti di forze che gli consentissero di assumere la direzione del movimento nazionale. In questo il suo contrasto con Cavour non poteva essere più grande. Egli perseguiva infatti il suo obiettivo attraverso iniziative politico-militari che, se fossero riuscite, gli avrebbero dato un potere reale. Il suo sforzo di infiltrarsi nell’esercito e di provocare insurrezioni tendeva di fatto, e non solo sul piano propagandistico, a creare situazioni in cui l’iniziativa rivoluzionaria precedesse quella regia, sicché la monarchia sabauda si trovasse di fronte al dilemma di abbandonare la stessa iniziativa patriottica, passando così dalla parte della reazione, o di seguire l’ala rivoluzionaria, perdendo così la guida del movimento nazionale. Questo egli tentò ancora fino al 1860, quando con tutta la sua ostinazione cercò di organizzare una spedizione negli Stati romani. E lo fece non tanto per ripetere l’esperienza della Repubblica romana, quanto per creare nell’Italia centrale una zona sottratta all’influenza di Garibaldi, troppo legato a Vittorio Emanuele, e che desse invece ai mazziniani una consistente base operativa. Per questo obiettivo riuscì a mettere insieme forze militari di un certo peso, anche rispetto a quelle mobilitate da Garibaldi e dal Piemonte. Quindi la sfida rivoluzionaria di Mazzini, anche quando nel ’60 diceva di aver rinunciato ai suoi obiettivi, non era in realtà cessata, poiché, cercando di strumentalizzare Garibaldi col costringerlo ad operare nella sua scia, egli in realtà riproponeva il suo vero problema.
    Ossia? Il problema della rivoluzione europea.

    Il contrasto politicamente più profondo fu dunque quello con Mazzini. Quello più duro, però, Cavour lo ebbe con Garibaldi.


    Sì, ed è questa una cosa che va riconfermata, chiarendo peraltro che in un primo tempo, e fino alla fine del 1859, i rapporti del conte con Garibaldi erano migliori di quelli che qualunque altro esponente della classe politica avesse col generale. Cavour aveva appoggiato la formazione dei Cacciatori delle Alpi, dei corpi volontari, e aveva avuto con Garibaldi ripetuti contatti segreti. Fu con l’incidente della Cattolica e poi con la questione della Nazione Armata che si formò quell’avversione di Garibaldi, per Cavour, che poi esplose in occasione della cessione di Nizza. Sulle prime Cavour non si era neppure reso conto di questo mutato atteggiamento di Garibaldi nei suoi confronti.


    Comunque non mancavano tra i due divergenze strategiche e politiche di fondo.

    Strategicamente Garibaldi ebbe il merito di credere nella possibilità di una soluzione immediata del problema meridionale, alla quale Cavour non credeva. La sua spedizione creò una situazione che anticipava fortemente i tempi dell’unificazione rispetto alle aspettative di Cavour. Politicamente Garibaldi riteneva che vi fosse una legittimità nazionale impersonata dal popolo in armi, cioè dai suoi volontari. In nome di essa pensava di avere il diritto di prendere iniziative anche al di fuori del governo legittimo. Con ciò egli costituiva un elemento destabilizzante assai grave nella vita di un paese a governo parlamentare; costituiva non solo la negazione della soluzione diplomatica ma anche una minaccia all’esistenza stessa dello Stato, che egli rischiava di coinvolgere in conflitti internazionali al di fuori dei poteri legittimi.

    Ma non era Garibaldi troppo realista da non spingere le cose fino a questo punto?


    Era realista sino al punto in cui il realismo è consentito dall’intelligenza politica. E la sua intelligenza politica non arrivava fino al punto da fargli capire che era utopistico credere che un suo attacco ai francesi avrebbe provocato una ripresa della rivoluzione in Francia. Analogamente Garibaldi non riteneva utopistica l’idea di una grande rivoluzione ungherese e balcanica in seguito a un suo attacco all’Austria; egli in tal modo pensava di poter ripetere il 1848 dopo il 1860.


    Qual era per Garibaldi lo Stato ideale?


    Garibaldi in realtà avrebbe voluto una monarchia popolare fondata sull’esaltazione di Vittorio Emanuele come capo dell’impresa nazionale, e in cui il popolo in armi, al di là delle forme parlamentari, avrebbe dovuto legittimare l’esercizio della dittatura rivoluzionaria da parte della monarchia. Nei periodi di ordinaria amministrazione la monarchia avrebbe dovuto ovviamente rispettare le istituzioni liberali, salvo ritornare alla dittatura nei momenti di emergenza. Tuttavia bisogna ricordare che quando una monarchia viene instaurata attraverso l’esercizio di poteri dittatoriali è difficile che poi diventi una monarchia parlamentare. Inoltre, per i fautori di questo regime è facile ritenere che i periodi di emergenza, in cui ritornare alla dittatura, si verifichino piuttosto frequentemente. In altri termini vi era in Garibaldi un’istanza populistico-democratica, ma anche populistico-illiberale. La sua avversione alla Camera, al Parlamento, tante volte espressa, era un’avversione di fondo, istintiva, che nasceva dalla scarsa considerazione dei meccanismi fondamentali di uno Stato liberale.

    (...)
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    Predefinito Re: Cavour, il suo e il nostro tempo (1985)

    L’entità di questi contrasti, qualunque fosse la loro natura, fu dunque notevole. Cavour concluse la sua opera di statista e la sua stessa esistenza in un isolamento personale per molti versi sorprendente e impressionante.

    Nell’ultimo biennio entrarono in crisi, uno dopo l’altro, i rapporti di Cavour con molti dei suoi antichi alleati: Napoleone, l’Inghilterra, il re, Garibaldi, senza però che costoro diventassero avversari attivi della sua opera. Seppe imporre il suo disegno senza per questo spingere su posizioni di aperta rottura quelli che erano stati i suoi alleati e che poi non ne condividevano più gli obiettivi.

    È per questo che Cavour va considerato il massimo artefice dell’unificazione italiana?

    Come abbiamo visto è difficile, nel complesso gioco di uomini e forze che parteciparono al Risorgimento, misurare il peso dei rispettivi ruoli e valutare poi con precisione quello del fattore fortuna. Esiste però un parametro oggettivo che ci autorizza a dare una risposta positiva a questa domanda ed è che, al di là delle notevolissime doti politico-diplomatiche di Cavour, sulle quali si potrebbe sempre opinare, il progetto politico-istituzionale realizzato con la formazione dello Stato unitario fu più vicino a quello ideato da Cavour che a quello di qualunque altra forza che abbia partecipato al Risorgimento.

    Sulla natura e sui limiti del nuovo Stato si è molto discusso in questo secondo dopoguerra e a quel dibattito lei ha partecipato con opere troppo note per essere ricordate in questa sede, tornandovi, infine, a conclusione dei suoi lavori cavouriani. Qual è dunque la sua posizione oggi?

    Per quel che riguarda la diretta derivazione del fascismo dal processo di unificazione e dalla società dei «notabili» risorgimentale, ripeterò che nazionalità e liberalismo erano per Cavour inscindibili, che il fascismo nacque da una serie di cause strettamente legate alla prima guerra mondiale e che esso germinò da tronchi politico-culturali chiaramente distinti da quello liberale. Più complesso e difficile è invece il compito di giudicare i caratteri e la storia dello Stato unitario a prescindere da scorciatoie di questo tipo. Lo Stato liberale creato nel 1861 era uno Stato elitario, di una «élite» però ben più avanzata del resto del paese, che mirava all’avvento della borghesia dell’impresa e a far crescere l’etica della civiltà moderna, laica e terrena, in sostituzione della vecchia morale cattolica. Esso tuttavia recava in sé una debolezza che non va sottovalutata. Per molti decenni l’opera di aggregazione della società italiana al nuovo Stato procedette lentamente, senza la partecipazione attiva di larghi strati della popolazione. Tale debolezza non sappiamo se sia stata poi sanata interamente dalla storia successiva. Lo Stato italiano in effetti ha retto alla prova decisiva della seconda guerra mondiale. Tuttavia molti contrasti interni che ancora permangono tra regioni, categorie, strati diversi della società italiana dimostrano che la materia con cui fu costruito l’edificio unitario era fortemente eterogenea. Ma proprio questa eterogeneità ci rafforza nell’idea che un’alternativa rivoluzionaria rimanesse quanto mai ipotetica. Fu invece elemento di forza il fatto che l’«élite» che prese il potere fosse progressista e più avanzata rispetto al resto del paese, anche se creò essa stessa le condizioni per il proprio superamento. Quel ceto di ottimati, nobili e proprietari terrieri, non era adeguato per una società che si andava incamminando sulla via dell’industrializzazione e della massificazione. Il fatto che questo e non altro fosse lo Stato creato da Cavour spiega perché in fondo esso rimase sempre al di qua dell’ideale non solo di Mazzini, ma dello stesso Cavour. L’Italia grande, gloriosa e potente vagheggiata dallo statista piemontese e dai suoi amici sin dalla giovinezza, non fu mai realizzata. È stata invece realizzata una società di livello mediano che ha ancora molti elementi di arretratezza ma che tuttavia partecipa in larga parte alla vita del mondo più avanzato; che non è nel gruppo di testa delle nazioni del mondo moderno ma non è nemmeno tra quelle ancora strette nelle gore del sottosviluppo. È una storia media, che si inserisce a un livello medio nella storia del mondo contemporaneo.

    Si è parlato e si parla molto di storia delle permanenze, del quotidiano, delle mentalità, delle strutture, a scapito di quella etico-politico e narrativa. Nel suo lavoro l’analisi dei fatti economici e sociali occupa uno spazio non trascurabile, con tecniche di indagine veramente d’avanguardia (penso ad esempio alla riclassificazione secondo criteri moderni dei bilanci della tenuta di Leri). Eppure mi pare che non vi possa essere alcun dubbio che se vi è un’opera a riaffermare il primato della storiografia politica sulle altre questa è il suo «Cavour». In che senso questo è vero?

    Io ho cercato di fare, trattando della biografia di un uomo politico, essenzialmente storia politica. Tuttavia le diverse fasi della vita di Cavour offrivano l’opportunità di guardare anche ad aspetti non politici della società del tempo, relativi al costume, alla vita economica, ai rapporti tra le classi sociali ecc., specie durante la fase della formazione dello statista. Io sono persuaso che la storia politica non può essere rettamente intesa se non si analizza a fondo la materia su cui si esercita, cioè quali sono le forze presenti nella società, nella realtà del tempo, che le forze politiche cercano di controllare, di dominare, di indirizzare. Ciò comporta la necessità di un’analisi di quella realtà, che secondo me non può mancare in qualunque opera di storia politica che non voglia restare a un livello superficiale. Tuttavia vi sono almeno due modi diversi di intendere questa necessità. Io non ho voluto fare una storia sociale in cui i processi sociali venissero visti come il prodotto di automatismi economici risolti in se stessi, o come processi aventi una loro oggettiva dinamica che li conduce a risultati già impliciti nelle premesse. Non perché questo tipo di processi non esista nella storia: vi sono a volte logiche oggettive le quali comportano rapporti di forza che si sviluppano secondo una loro interna dinamica, sino a quando non si sono esauriti. Io ritengo tuttavia indispensabile fare storia sociale analizzando la parte in cui essa vien continuamente individuata, rinnovata, condizionata, dall’intervento attivo della politica, della cultura, delle forze sociali. Cioè come un processo in cui forze oggettive e interventi soggettivi si influenzano continuamente. Quindi l’utilizzazione di tecniche quantitative e di analisi economico-sociali, anche spinte abbastanza in avanti, deve avvenire in modo che i processi economico-sociali appaiano come il frutto dell’azione degli uomini, e i numeri non nascano automaticamente l’uno dall’altro, ma siano anche la risultante di certe volontà inserite nel processo, che hanno modificato, anche in termini quantitativi, la realtà preesistente. Ignorare questa componente soggettiva e «umana» significa trasformare la storia in un campo di esercitazione in cui le scienze sociali verificano le loro posizioni e le loro leggi. Affermo questo non per patriottismo disciplinare, ma perché ho l’impressione che in tal modo si escluda la conoscenza di una parte imponente della realtà, provocando una deformazione grave della realtà stessa. Le serie quantitative non esauriscono tutta la realtà della storia, e chi vuole attingerla solo loro tramite finisce per scontrarsi con un irrazionale che gli apparirà poi indominabile perché non suscettibile di risoluzione in termini di analisi quantitativa o di semplice applicazione di modelli e leggi delle scienze sociali. Credo dunque che, in quanto strumento atto ad affrontare e risolvere nel processo storico complessivo quella componente irrazionale, volontaristica, non deterministica, e capace di utilizzare modelli interpretativi come mezzo conoscitivo senza esaurirsi in essi, e di porsi come sintesi ultima e superiore di processi anche di natura socio-economica, quella politica conservi una posizione centrale rispetto ad altri tipi di storiografia.

    https://musicaestoria.wordpress.com/...ro-tempo-1985/
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