di Rosario Romeo – «Il Mondo», 16 maggio 1953



Dalla discussione aperta su queste colonne da Guido Calogero intorno ai «programmi», sono emersi alcuni punti che si prestano a essere sviluppati al di là della questione originaria. Rifiutata l’eccessiva semplificazione del problema tentata da Enzo Tagliacozzo, che era giunto a includere tra i «programmi» nel senso inteso da Calogero persino quelle manifestazioni di autentica incoscienza politica che sono le sollecitazioni passionali di cui si servono monarchici e fascisti; e ribadito d’altra parte, di contro all’opposizione stabilita da Calogero, il nesso indissolubile tra pensiero storico e volontà concreta di azione, che è tanto più efficace quanto è più chiara la conoscenza della situazione reale sulla quale l’azione stessa si inserisce: il concetto di programma viene a configurarsi come il prender coscienza, da parte di una forza politica, della situazione storico-politica in cui essa è chiamata a operare, e dalla quale scaturiscono quelle esigenze che è suo compito rendere esplicite e trasformare in obiettivi precisi. Sono poste così le premesse per il passaggio di questa discussione su un più specifico terreno: l’esame cioè di quale sia il programma (la funzione storico-politica) di un determinato partito. E da parte nostra vorremmo dedicare alcune riflessioni al partito liberale, cioè a uno di quei partiti democratici laici nei quali, per comune consenso, la deficienza programmatica raggiunge le punte più alte.
E poiché la discussione si è svolta sotto il segno di Clio, non sarà forse inopportuno richiamare alla memoria le fasi essenziali della storia dell’ideologia e della coscienza liberale nell’ultimo trentennio. Il momento di maggiore decadenza che questa storia conosca cade negli stessi anni in cui la classe dirigente italiana, abbandonata l’idea liberale che era stata per un secolo la sua insegna, si volse a cercare nel fascismo la salvaguardia della sua posizione dominante. La critica al parlamentarismo; certe cattive prove del suffragio universale; la critica socialista della libertà, denigrata come libertà formale e borghese; il crescente prevalere delle preoccupazioni anticomuniste su quella dello sviluppo sempre più ampio delle conquiste liberali; le passioni scatenate dalla guerra: tutto ciò, e altro ancora, avevano tolto alla libertà ogni forza di persuasione e di impulso morale, e ridottala a frusto motivo di retorica celebrativa. Poi fu il fascismo: che provocò indirettamente la rinascita dell’idea liberale, poiché nella volontà dell’antifascismo democratico di ridare all’Italia dignità di vita politica e civile, i princìpi liberali riconquistarono il loro valore di ideali morali. Questo processo di rinascita ebbe la sua massima espressione nell’opera di Croce: per opera sua la libertà fu riaffermata come forza e attività originaria della storia e della vita tutta, con la quale nel senso più ampio si identifica; a chi chiedeva ansioso se la libertà avesse per sé l’avvenire, si rispose ch’essa aveva di meglio, perché aveva l’eterno; nel promuovere lo sviluppo della libertà, come conquista di una vita sempre più alta e più ricca si additò, senz’altro, la suprema legge morale. Indubbiamente il significato dell’opera del Croce va al di là della storia ideologica di un partito, giacché può dirsi che non vi sia stato settore dell’antifascismo, comunisti compresi, che dal suo pensiero non abbia tratto, in maggiore o minore misura, impulso e alimento: ma esso rimane per i liberali la fonte primaria della loro adesione morale all’idea di libertà, cioè la premessa dalla cui serietà e dalla cui forza dipende, in ultima istanza, ogni capacità di azione pratica.
Tuttavia, un po’ per le specifiche attitudini e gli interessi personali del Croce, oltre che per le condizioni in cui egli era costretto a lavorare; un po’ per l’inesistenza, fin dopo l’inizio della guerra, di un vero e proprio movimento politico liberale clandestino: a tutto ciò non si accompagnò un adeguato sforzo di rendersi conto delle condizioni politiche effettive dell’Italia, in funzione delle quali solamente la rinata coscienza liberale poteva diventare forza politica concreta, capace di proporre e di attuare soluzioni liberali delle questioni di fondo della vita italiana. E, correlativamente, mancò anche la possibilità di tradurre le molte cognizioni tecniche che uomini liberali possedevano o acquistavano su particolari aspetti della vita italiana in termini politici generali, atti cioè a diventare segnali di raccolta di larghi moti di opinione pubblica. Tutto ciò determinò negativamente l’atteggiamento dei liberali tra la Liberazione e i primissimi anni del dopoguerra: genericità e astrattezza di dibattiti; incapacità di agitare davanti al paese nessuno dei suoi grandi problemi; ricorso a inconsistenti motivi di tradizione e di sentimento. Le conseguenze non tardarono a rendersi visibili: crollo verticale delle posizioni liberali, delusione e incertezza, snaturarsi, persino, del partito; e, inoltre, abbandono del liberalismo da parte di molti, che pur avevano attinto alle medesime fonti vitali, ma che adesso venivano attirati dalla maggiore coerenza e consapevolezza di altre forze politiche. E in ciò va vista, sia detto di passata, una delle ragioni delle non poche conversioni di intellettuali liberali al comunismo, cioè a una forza politica dotata in alta misura proprio di quella chiarezza di idee e conoscenza reale del paese nella quale invece i liberali mostravano deficienze così radicali. Tanto per indicare delle date, si può dire che questa crisi raggiunse il suo apice fra il 1948 e il 49, con l’insuccesso elettorale, la scissione del partito, la crisi di scoraggiamento largamente diffusa nell’opinione liberale.
Il fatto nuovo degli anni successivi, che sono poi i nostri, è stato «Il Mondo»: il quale ha assolto una funzione di primo piano (sia lecito dirlo su queste colonne a chi non ha avuto alcuna parte nella vita del giornale) nella storia ideologica dei liberali italiani. Esso ha rappresentato soprattutto il primo concreto sforzo, da parte di costoro, di porsi di fronte alla realtà della vita e della società italiana, di individuarne i problemi fondamentali, di prenderne coscienza sul piano politico. Non più dunque, o solo in tono minore, il generico discorso intorno alle tesi antimonopolistiche röpkiane: ma l’indicazione specifica di questi e questi monopoli esistenti in Italia, e del meccanismo del loro potere. Non più le famigerate dichiarazioni intorno alle capacità dei liberali di non indietreggiare neanche di fronte alle più ardite (!) riforme sociali: ma l’individuazione e lo studio delle vaste zone di miseria e dei mali di larghi settori della società italiana. Non più i dibattiti, a volta a volta di fumosi princìpi o di meri particolari tecnici, intorno al decentramento o accentramento che si tennero specie tra il 1945 e l’approvazione della Costituzione: ma il concreto problema della burocrazia italiana, del suo potere e della possibilità (o impossibilità) di riformarla. Lavoro, tutto questo, nella forma apparentemente disordinato e rapsodico, ma che nel fondo si è svolto organicamente intorno a certi filoni direttivi comuni, e il cui risultato principale può riassumersi nella individuazione e descrizione sempre più precisa di quel complesso di resistenze conservatrici, di ingorghi e di strozzature che ostacolano lo sviluppo in senso sempre più ampio e liberale della vita italiana.
Il limite di questa posizione, che è la più avanzata raggiunta dal pensiero liberale italiano, e il cui superamento costituisce dunque il problema ideologico centrale del liberalismo nel momento presente, può essere indicato rifacendosi ai motivi più diffusi tra i commenti che hanno accolto l’apparizione in volume dei saggi di polemica economica sparsamente pubblicati in questi anni da Ernesto Rossi. Si è detto: giusta certamente, nell’insieme, l’analisi che il Rossi fa delle resistenze conservatrici oggi esistenti nella vita economica italiana: ma quali le forze che potranno abbattere la gigantesca concentrazione di privilegi particolari e di posizioni parassitarie che vien messa in tal modo sotto accusa? E in verità, non si può attribuire a scetticismo eccessivo la sfiducia di molti nei mezzi indicati dal Rossi: il quale sembra sperare a volte nella resipiscenza dei responsabili, a volte nell’azione riformatrice di un potere politico astrattamente separato dal potere economico attraverso riforme politico-elettorali notevoli assai più per l’ingegnosità e, diciamo pure, la singolarità delle soluzioni proposte, che non per la loro validità politica.
In tal modo, il problema centrale che si pone oggi al pensiero liberale è quello della forza politica che sia in grado di imprimere una spinta in senso progressista e liberale alla società italiana: il problema, cioè, del partito. E a questo proposito un concetto fondamentale va chiarito con estrema risolutezza: che cioè l’attuale partito liberale non può in alcun modo considerarsi il medesimo che con Cavour guidò l’Italia del Risorgimento, e che governò quindi per un sessantennio lo Stato unitario. In realtà, negli anni in cui il grosso della borghesia italiana si volse al fascismo, e consumò il suo divorzio dal liberalismo, essa compì un atto definitivo e irrevocabile. Prova ne sia il fatto che, caduto il fascismo, la borghesia non è più tornata alla vecchia fede liberale ma ha trovato una nuova bandiera e un nuovo scudo a tutela delle sue posizioni conservatrici nella Democrazia cristiana. Vane dunque le speranze di coloro che vagheggiano un impossibile ritorno di queste forze borghesi nelle file liberali: e sia detto chiaro, d’altronde, che se anche esso fosse possibile non per questo sarebbe desiderabile, posto che quelle forze conservino l’attuale struttura interna (sulla quale dovremo tornare tra poco).
In realtà, la vecchia borghesia liberale, rafforzatasi attraverso i protezionismi e i privilegi statali (e che pure ha fatto l’Italia quale oggi noi la vediamo), ha ormai esaurito la sua capacità di espansione, che vuol dire la sua capacità di agire come forza liberale. Le armature strutturali che servirono al suo sviluppo e alla sua ascesa si sono ormai trasformate, per un processo eterno nella dialettica della storia, in legami che ne irrigidiscono i movimenti e la vincolano a situazioni contrarie agli interessi generali del paese, sì che oggi un partito rappresentativo di «questa» borghesia non può essere in alcun modo un Partito liberale, ma potrebbe solo assolvere una funzione conservatrice, in un paese che anche di questo ha oggi bisogno, ma non certamente in primo luogo di questo. E però l’attuale Partito liberale, per i fini che si propone, gli interessi che rappresenta, la volontà di progresso e la fede liberale che lo anima è, e deve tendere a diventare sempre più, un partito «nuovo», legato certamente alla grande tradizione liberale da una continuità ideale di ispirazione, ma nettamente diviso e diverso, nel contenuto (e vorremmo dire materialmente), da quelle forze che nel 1920-25 furono definitivamente perdute per la causa della libertà.
D’altra parte, una funzione liberale nella società italiana non può assolvere e non assolve oggi il movimento operaio. Sarebbe vano auspicare nell’Italia odierna una politica liberale sul tipo di quella realizzata in Inghilterra nella seconda metà del secolo XIX, quando le Trade Unions concedevano in pieno il loro appoggio al Partito liberale. Tutte le proposte e i tentativi di alleanza tra elementi liberali e masse operaie avanzate con insistenza in questo dopoguerra, e nelle quali, accanto a basse operazioni di camuffamento, non saranno da disconoscere certi generosi impulsi o illusioni, urtano contro il fatto ineliminabile che, nell’attuale rapporto di forze tra movimenti liberali e masse operaie controllate dal partito comunista, la direzione politica dell’alleanza sarebbe necessariamente nelle mani del partito comunista: e nessun liberale che abbia fatto esperienza di quegli assurdi manichini che vanno in circolazione sotto l’etichetta di «comunisti coscienti», può dare il proprio appoggio a una politica mirante a fare di questo il tipo umano dominante nella nostra società, senza rinunciare per ciò stesso a quella aspirazione verso una umanità sempre più ricca e più alta che costituisce il sommo tra i criteri di valore liberali.
E tuttavia, l’esigenza di svincolarsi dalla struttura conservatrice dominante, e di aprirsi un varco verso possibilità di espansione in senso genericamente liberale è obiettivamente presente e premente in vasti settori della società italiana. Si è accennato di sopra alla funzione conservatrice svolta oggi dallo schieramento borghese: ma in questo giudizio si è assunto questo amplissimo settore della società italiana come un tutto indifferenziato, che nella sua gran maggioranza (quella, per intenderci, che nello schieramento politico fa capo, grosso modo, a gran parte del coacervo democristiano, alle destre e a certi settori liberali) svolge una funzione unitaria nel senso della conservazione, a prescindere dalle differenze nel modo di questa conservazione, che diventano politicamente assai rilevanti quando si passa dal centro alla destra reazionaria. E come tale essa agisce effettivamente nella concretezza della vita politico-sociale italiana. Ma è di somma importanza rilevare che codesta unità non deriva da una base comune obiettivamente esistente all’interno di tutte le componenti della borghesia italiana, ma si attua attraverso la funzione direttiva dei gruppi dell’alta borghesia conservatrice, che riescono a imporre agli altri settori l’atteggiamento più conforme ai propri interessi, anche quando esso sia in realtà contrastante con gli interessi di quegli altri settori. Per fare solamente un esempio, è noto che molte industrie italiane, le più vitali e produttive della nostra economia, avrebbero tutto da guadagnare da una politica di liberalizzazione degli scambi, che desse loro modo di affermarsi su un piano internazionale, e in genere dall’eliminazione di posizioni privilegiate che, contribuendo al mantenimento di alti costi e di un basso livello di consumo, riducono e immiseriscono le capacità di espansione della economia italiana. E tuttavia, attraverso le organizzazioni padronali, e una serie di strumenti di intimidazione e di nascoste complicità economiche e burocratiche, le grandi imprese monopolistiche sono quasi sempre riuscite finora a orientare l’atteggiamento della classe industriale italiana in un senso unico, che se corrisponde agli interessi di quelle imprese non coincide affatto con quello generale dell’industria italiana. Così per esempio, in occasione del piano Schuman, l’opposizione dei grandi monopoli al pool si è vista condivisa anche da rami industriali che dalla sua approvazione avrebbero tratto vantaggio: e questo anche nei casi in cui questa solidarietà non poteva spiegarsi con il diretto controllo di queste altre industrie da parte dei gruppi monopolistici. Son proprio queste le situazioni obiettive, diffusissime nella società italiana (si pensi anche all’agricoltura esportatrice del Mezzogiorno ecc.), da cui nasce l’esigenza profonda «storica», di un’azione liberale che restituisca alle forze vive della società italiana la loro capacità di progresso e di sviluppo: ed è nella soddisfazione di questa esigenza che un moderno partito liberale deve scorgere oggi il suo compito essenziale in Italia. Si tratta insomma di rompere la forzata solidarietà degli elementi inclusi nel blocco conservatore, e di «estrarne» le forze che intrinsecamente son chiamate a una funzione non conservatrice ma liberale: che vuol dire renderle consapevoli dei loro specifici interessi, scuotere la loro inerzia e politicizzarle, infonder loro la fiducia di potersi svincolare dalla gravosa tutela dei grandi monopoli grazie all’appoggio di una forza politica efficiente, e in grado di far funzionare a loro vantaggio il peso enorme del potere statale: rendere insomma esplicite le esigenze implicite nella società contemporanea, che è poi sempre stata la funzione propria dei partiti politici. Né l’efficacia positiva di una tale politica si limiterebbe ai soli settori oggi economicamente sani, ma si estenderebbe alle stesse imprese monopolistiche, spronandole, come si è visto in certi casi dopo l’approvazione del piano Schuman, a darsi una struttura più moderna e produttiva, in grado di reggere nel nuovo ambiente economico. E si aggiunga che nell’attuale equilibrio politico italiano una direttiva siffatta trarrebbe elementi di forza e possibilità di successo dalla posizione in cui si trova la stessa Democrazia cristiana, costretta dalle esigenze interne e internazionali del paese a dare il suo appoggio o a farsi promotrice di parziali e saltuari tentativi di riforma: senza poter mai spingerli fino in fondo e con coerenza, data la contraddittoria situazione in cui la pone la sua contemporanea posizione di rappresentante dei maggiori interessi conservatori. Si potrebbe certamente osservare che ostacoli a tale politica sussistono all’interno dello stesso Partito liberale: ma è certo che quanto più all’interno di questo si sapranno chiarire i propri obiettivi in termini politici, quanto più netti essi risalteranno agli occhi della massa degli iscritti, tanto più saranno costretti a dissolversi gli inconsistenti motivi sentimentali a cui si aggrappano i residui del vecchio liberalismo: e sarà quindi anche questa una via per fare del partito liberale un sempre più moderno ed efficiente strumento politico. Dobbiamo crederlo, se non abbiamo perduto la fede nella forza chiarificatrice della ragione, che è sempre stata una delle grandi fedi del liberalismo, e non solo di quello illuministico.
Individuare i settori della borghesia italiana interessati a realizzare una vita sociale ed economica libera da incrostazioni parassitarie, mobilitarli e condurli alla lotta, comporta certamente una somma vastissima di lavoro, che è ben lungi dal potersi considerare esaurita. Lavoro di studio, di accertamento e precisazione di dati tecnici e di fatto (ed ecco la funzione di quegli specifici lavori di preparazione alle riforme di cui si è parlato, e che son cosa davvero seria solo quando si inseriscono su una volontà politica che quelle riforme tenda veramente e realizzare: senza di che son destinati a condividere la sorte di migliaia di analoghe ricerche che giacciono nella polvere degli archivi e delle biblioteche); lavoro, soprattutto, politico, che non può essere assolto da qualche rivista o giornale, ma che richiede l’impegno massiccio e capillare al tempo stesso di tutta quanta un’organizzazione di partito, la quale riesca a far presa sulle singole situazioni locali, a raggiungere i settori più lontani e diversi del paese, e a esercitare su di essi una costante pressione. Si tratta insomma di individuare localmente e partitamente gli ostacoli che la struttura conservatrice oppone al libero sviluppo del paese, nell’economia (crisi di singoli rami commerciali o industriali, ostacoli a certi sviluppi tecnici; arretratezza di organizzazione commerciale ecc.), nell’educazione (problemi della scuola), nella cultura (deficienze e sperpero di mezzi ecc.), e di mobilitare i vari gruppi più direttamente interessati al loro superamento. Inutile nascondersi che un’opera così vasta e complessa richiederebbe un organismo politico assai più efficiente in tutte le sue parti di quanto non sia quello attuale del partito liberale.
Si tocca con questo il problema dell’organizzazione, del quale molto si è parlato negli ambienti liberali dopo l’unificazione di Torino. Al quale proposito va sottolineato (a costo di ripetere cose ovvie) che l’organizzazione di un partito è un fatto anzitutto «politico», di chiarezza d’idee cioè e di coerente volontà, prima che di ordinamento burocratico-amministrativo: poiché ogni idea chiaramente pensata e ogni meta fortemente voluta riesce sempre a crearsi gli strumenti necessari al suo realizzarsi, e ad attuare quella unità d’azione e quel fervore e continuità di consensi che nessun apparato esteriore riuscirà mai a dare (l’esempio, al quale subito corre la mente, del partito comunista, conferma questa tesi, quando sia rettamente inteso). E in realtà credo si possa dire che le deficienze più gravi dell’azione liberale negli ultimi anni sono dipese non tanto da errori (che pur ci sono stati) della vera e propria direzione politica del partito; quanto dall’insufficienza della sua direzione ideologica, che in complesso è stata troppo inferiore al compito di chiarire e approfondire nel partito la coscienza della sua funzione in rapporto alle varie situazioni di fatto che esso era chiamato via via ad affrontare.
Vorrebbe dire, tutto questo, la rinuncia, da parte del liberalismo al suo fondamentale atteggiamento superclassista, e la sua riduzione a «comitato esecutivo» di certi settori della borghesia italiana? No certamente: perché la spinta in avanti della situazione economica e sociale italiana, e la creazione di condizioni favorevoli all’affermarsi dei suoi elementi più vitali, non è interesse solo di alcuni ceti padronali, ma, convertendosi in impulso all’aumento della produttività del lavoro di tutti gli italiani, diventa interesse diretto dell’intero paese. E soprattutto, le forze destinate a realizzare questa politica vanno ben oltre quei gruppi padronali. Bloccata, nella situazione attuale, ogni possibilità di consistente penetrazione liberale tra le masse operaie, sono i larghi strati della media e piccola borghesia che il partito liberale deve tendere a guidare in questa direzione. Non si tratta di andare elettoralisticamente (come purtroppo si è fatto in questi ultimi anni anche da parte liberale) alla ricerca di voti quali che siano, e di assumere perciò quegli atteggiamenti che si spera possano attirare tali voti: ma di individuare una politica conforme agli interessi generali del paese e di chiamare a concorrervi tutte le forze interessate a realizzarla. Specie nelle zone economicamente e socialmente più progredite del paese, dove i risultati di una politica economica più attiva e redditizia verrebbero quasi immediatamente avvertiti anche dai singoli, una direttiva del genere troverebbe nella massa dei tecnici, degli impiegati privati, dei commercianti, dei borghesi produttivi, insomma, e nel tessuto sociale che a essi si riallaccia, una forza sensibilissima e di larga efficacia. Certo, da troppe parti si è parlato in questi anni di andare alla ricerca dei ceti medi, di politicizzare i ceti medi: ma a essi si è sempre guardato come a una statica categoria sociologica, che per di più anche come tale si rivela quanto mai incoerente e contraddittoria, con i molti contrasti di interessi, di mentalità, di posizione economica, esistenti nel suo interno. Si tratta invece di render coscienti di sé i settori di questa massa più legati alle forze espansive e progressive della vita italiana, anche a costo di suscitare in un primo tempo l’avversione di altri settori: perché è facile presumere che una politica auspicante, per esempio, una seria riforma della burocrazia urterà inizialmente contro l’avversione dei funzionari ministeriali, e che la liquidazione di talune industrie parassitarie susciterà la resistenza non solo di gruppi padronali e operai, ma anche di impiegati e dirigenti. Ma spetta appunto all’azione politica del partito superare queste divergenze sezionali e di struttura nell’unità di una direttiva politica che alla lunga rappresenterà il massimo vantaggio comune.
Certo, bisogna anche aver l’animo di parlare a questi gruppi del ceto medio un linguaggio politico nuovo, diverso dalle sollecitazioni istintive alle quali ormai si è ridotta in buona parte la politica dei partiti nello sforzo di compiacere all’«elettorato» e ai «lettori»: e che questo sia possibile lo mostra, ancora una volta, l’azione svolta dai comunisti tra le masse attraverso insegnamenti politici certo dogmatizzati e meccanicizzati, ma che pur sono in quell’ambiente qualcosa di meglio del nullismo mentale della propaganda rivolta ai ceti medi dai partiti che pretendono di rappresentarli. Bisogna insomma dimostrare di avere concretamente fiducia nell’intelligenza e nella vitalità di questa borghesia, e non esprimerla solo nei discorsi elettorali. Anche il motivo laicista supererebbe, in questo quadro, il consueto carattere di statica e aprioristica contrapposizione di princìpi, rifacendosi all’originario significato di affermazione di una concezione costruttiva ed espansiva della vita, di contro all’influenza ritardatrice e depressiva della tradizione cattolica.
Compito, si dirà, troppo vasto per le esigue forze dell’attuale Partito liberale: ma occorre appunto che questo si liberi anzitutto del complesso del partito «minore», quasi che a priori fosse destinato a esser tale: quando il compito primario di ogni partito degno del nome è di porsi potenzialmente come partito di governo, in grado di influenzare in maniera decisiva la direzione dello Stato. E d’altronde, una politica del genere non elimina ma anzi presuppone la collaborazione dei liberali con gli altri partiti democratici laici: giacché, pur continuando i liberali a restare liberali, e i socialisti socialisti, sta di fatto che una politica di opposizione alla struttura conservatrice dominante offrirebbe una base sufficiente alla loro collaborazione, restando aperta a ognuno di essi la possibilità di condurre la battaglia con maggior successo nei settori tradizionalmente più sensibili alla loro penetrazione, e pur nella convinzione che a un certo punto dello sviluppo le loro strade dovranno necessariamente divergere. È chiaro, poi, che la possibilità di proporsi una simile politica dipende in maniera essenziale dal mantenimento in Italia di una situazione di democrazia, contro ogni minaccia di involuzione clerico-fascista o di sovversione comunista. Ma su questo, appunto, si è impegnata negli ultimi mesi la politica del partito; e la discussione dei termini specifici in cui oggi si pone tale problema ci porterebbe su un terreno di dibattito politico immediato e, addirittura, elettorale, che è troppo lontano dal più generale discorso che qui si è voluto tenere.

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