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In un discorso alla 31ª edizione del laboratorio intellettuale “Bálványos” nella cittadina di Băile Tușnad/Tusnádfürdő (Transilvania) in Romania, il primo ministro dell’Ungheria Viktor Orbán ha sostenuto che «entro il 2050 in Europa occidentale non esisteranno più nazioni, ma solo una popolazione incrociata». Aggiungendo poi che «qui, nel bacino dei Carpazi, lottiamo contro un simile destino».
Perché conta: Il discorso del leader ungherese tenutosi in una località turistica romena a maggioranza magiara ne rivela le percezioni geopolitiche a cerchi concentrici: dimensione interna, contesto regionale, congiuntura mondiale.
Primo cerchio. Scegliendo di pronunciare un discorso tanto forte in un piccolo centro abitato “magiaro” d’oltreconfine (Romania centrale), Orbán parla al proprio elettorato e più in generale ai propri cittadini, sobillandone un senso di accerchiamento che alimenta un fiero nazionalismo. Ricorda loro quanto sia diffusa l’etnia ungherese nella Mitteleuropa e come le minoranze magiare sopravvivano in territori stranieri quali cellule impermeabili alle politiche linguistico-culturali locali. È il caso dei secleri di Transilvania (Romania) e dei magiari di Transcarpazia (Ucraina), meritevoli delle attenzioni e della protezione di Budapest.
Ma rivolgendosi agli abitanti del “bacino dei Carpazi”, Orbán parla anche alla nazione carpatica per antonomasia: la Romania. Il Festival di Tusványos è nato come elemento per promuovere la cooperazione transfrontaliera; oggi diventa una sponda per invitare Bucarest a non dare troppa corda a Kiev che, nonostante la guerra, resta colpevole di maltrattamenti verso le nutrite comunità magiare e rumenofone di Transcarpazia e Bucovina settentrionale. Facendo fronte comune, Ungheria e Romania potrebbero tutelare al meglio le rispettive minoranze che abitano il paese aggredito.
Secondo cerchio. “Viktator” – così è chiamato dai suoi detrattori – parla di «razze extraeuropee» con il compito di «ripopolare» il Vecchio Continente. La crisi demografica che colpisce anche l’Ungheria sarebbe alla base di una calcolata sostituzione etnica: «Senza un’inversione di tendenza, l’Ungheria e il bacino dei Carpazi prima o poi verranno ripopolati senza di noi. L’Occidente è diviso in due, di cui una metà comprende paesi in cui convivono popoli europei ed extraeuropei. Quei paesi non sono più nazioni. In senso spirituale, l’Occidente si è ora spostato nell’Europa centrale, rifiutando il desiderio mitteleuropeo di permettere a ogni nazione di vivere come preferisce. Continuano a combattere l’Europa centrale per farci diventare come loro». Il leader ungherese non nasconde il ripudio verso il modello multiculturale promosso dalle élite occidentali: «Nella nostra visione, all’interno dell’Europa le persone si mescolano tra loro, si spostano, lavorano e si trasferiscono. Per esempio, nel bacino dei Carpazi non siamo di razza mista: siamo semplicemente un misto di popoli che vivono nella nostra stessa patria europea. Per questo ci siamo sempre battuti: siamo disposti a mescolarci, ma non vogliamo diventare popoli di razza mista». La dimidiata nazione ungherese vede la propria sopravvivenza nell’intensificazione dei rapporti intraeuropei, non nell’ingrossamento dei flussi migratori extracontinentali.
Terzo cerchio. Secondo Orbán «la civiltà occidentale sta perdendo il suo potere, le sue prestazioni, la sua autorità, la sua capacità di agire. Cent’anni fa si parlava di declino spirituale e demografico; oggi assistiamo al declino del potere e delle risorse materiali del mondo occidentale. Anche altre civiltà – cinese, indiana, “mondo ortodosso”, Islam – hanno subito un processo di modernizzazione. Le civiltà “rivali” hanno fatto proprie la tecnologia e il sistema finanziario dell’Occidente, ma non hanno adottato i suoi valori e non hanno assolutamente intenzione di farlo». Attaccando anche la presidenza Obama degli Stati Uniti, Orbán si è detto comprensivo dell’atteggiamento dei paesi non occidentali: «A volte ci sentiamo allo stesso modo. Nel 2014, un funzionario governativo di Washington in visita a Budapest ha spinto casualmente un foglio di carta davanti a sé e ha semplicemente detto al nostro ministro degli Esteri Péter Szijjártó che la costituzione ungherese doveva essere modificata, dopodiché l’amicizia sarebbe stata ripristinata. Quindi comprendiamo la resistenza del resto del mondo alla propagazione dei valori dell’Occidente, alla sua esportazione di democrazia. Le altre nazioni si sono rese conto che devono modernizzarsi materialmente proprio per resistere all’esportazione di valori a loro estranei».
Ma l’aspetto più meramente geoeconomico del discorso di Orbán riguarda il multipolarismo incipiente del sistema internazionale: «La cosa più dolorosa per noi occidentali è la perdita del potere materiale e del controllo sui vettori energetici». Tema questo molto sentito dal governo di Budapest, che per anni ha coltivato una solida cooperazione economico-energetica con Mosca. «Nel 1900 gli Stati Uniti e l’Europa controllavano il 90% di tutte le forniture di idrocarburi; oggi solo il 35%. E vale lo stesso per le materie prime: oggi vediamo che le risorse per l’industria moderna sono detenute da Australia, Brasile e Cina. Il 50% dell’export delle materie prime africane è diretto nella Repubblica Popolare. Il futuro non sembra affatto roseo: nel 1980 gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica controllavano la maggior parte delle terre rare necessarie per la tecnologia moderna; oggi i cinesi ne producono cinque volte di più degli americani e sessanta dei russi. Ciò significa che l’Occidente sta perdendo la guerra economica. Se vogliamo comprendere lo stato del mondo, il punto di partenza deve essere che gran parte delle risorse e dei vettori energetici si trovano al di fuori dello spazio occidentale. Questi sono fatti concreti».
Nonostante i ridotti margini di manovra, l’Ungheria di Orbán cerca ostinatamente di smarcarsi dall’orientamento tanto globalista quanto russofobo di Nato e Unione Europea. Sia la cancel culture (o attivismo woke) sia le posizioni sanzionatorie antirusse dei partner euroatlantici sono viste a Budapest come una forma di insensato autolesionismo, il cui effetto diretto non potrà che essere l’accelerazione del declino economico, strategico e culturale dell’Occidente.