L'AZIONISMO CATTOLICO
di Paolo Gulisano
Loro hanno sempre prediletto per se stessi la definizione di cattolici democratici (sottointendendo implicitamente che il resto della cristianità italiana fosse autoritaria, regressista e parafascista), ma l'opinione pubblica li conosce meglio come "cattocomunisti", anche se forse sarebbe più opportuna la definizione di "clerico-comunisti" o "clerico-progressisti".

Il clericale non pensa che l'istituzione sia necessaria. Il clericale pensa che l'istituzione sia sufficiente. Ciò non tanto perché è comunque sgradevole vedere accostato il termine "cattolico" a quello di "comunista", ma soprattutto perché la storia di questa influente corrente di pensiero - mai radicatasi a livello popolare - è la storia di come nella seconda metà del nostro secolo determinate forme di clericalismo si siano coniugate con le ideologie marxiste e progressiste. Il clericalismo è una sorta di vizio che può prendere i cristiani, sia preti che laici, per cui alla sostanza della fede, cioè l'adesione a Cristo, viene sostituita la forma, e lo stesso cristianesimo non diventa che un mezzo per raggiungere fini differenti da quelli indicati dal Vangelo. Il clericale non si avvale dell'autorevolezza della Fede, ma dell'autoritarismo derivante dalla propria posizione e dal proprio ruolo nella società ecclesiale. Il clericale non è colui che pensa che l'istituzione è necessaria, ha osservato Giacomo Noventa, ma colui che pensa che è sufficiente. Inoltre il clericalismo avverte come insufficiente il solo cristianesimo per i propri progetti e finisce per coniugarsi con le ideologie in auge, motivando questa scelta con una machiavellica giustificazione dei propri fini. Naturalmente queste scelte devono apparire al mondo "costose"; così il clericale è sempre un cattolico "tormentato" che pur essendo un cristiano assolutamente mondano, deve prediligere una "spiritualità tutta interiore".
I "professorini cattolici" a braccetto con i togliattiani in nome dei "valori comuni".
Tali caratteristiche descrivono non solo il pensiero dei clerico-comunisti, ma anche il tipo umano che essi hanno rappresentato, e l'ambiente dove da sempre si sono formati, che è quello ovattato dei corridoi delle curie e dei chiostri dell'Università Cattolica. L'Ateneo fondato da Padre Gemelli (anch'egli d'altronde sempre incline a coniugare il proprio cristianesimo con le ideologie in voga, il nazionalismo prima e il fascismo poi) fu la prima fucina dove queste idee vennero elaborate. Vediamo quali furono i protagonisti di questa prima fase ideologica (che peraltro riprendeva vecchie suggestioni del Modernismo che era andato "in sonno" durante il pontificato di Pio XI): sono i cosiddetti "professorini", il cui leader riconosciuto fu Giuseppe Dossetti. Fin dal 1946 questo giovane docente della Cattolica aveva richiesto alla direzione Dc una più stretta collaborazione con i comunisti, in nome dei "comuni valori". Il partito cercò di metabolizzare le istanze innovatrici del trentenne enfant prodige della politica associandolo alla gestione del potere. Venne così nominato vice-segretario nazionale. Intorno a lui si coagulò immediatamente un gruppo di intellettuali la cui caratteristica principale apparve essere l'utopismo: "anime belle", devote al limite del misticismo, che inseguivano il sogno della realizzazione, qui e subito, del migliore dei mondi possibile. Oltre a Dossetti le figure di spicco erano quelle di Giuseppe Lazzati, ex-internato in Germania, che avrebbe percorso in seguito una brillante carriera all'interno dell'Università Cattolica fino a diventarne Rettore durante i difficili anni '70, nei quali Lazzati si distinse per l'apertura a Sinistra e l'ostilità ai cattolici "integralisti", e altri studiosi quali Ardigò e Galloni. Anche Amintore Fanfani visse da protagonista la stagione dei professorini, per distaccarsene ben presto. Una citazione a parte la merita invece Giuseppe La Pira: anch'egli docente universitario, siciliano trapiantato a Firenze, condivideva altre caratteristiche comuni del gruppo come la intensa spiritualità e lo stato di celibato.
Azionismo in chiave democristiana.
Da Gemelli a Lazzati, da Dossetti a Scoppola. Un'astiosa rivendicazione di purezza morale. Il dossettismo era una sorta di "azionismo" in versione cattolica: una pretesa di assoluta dirittura morale dei suoi componenti, una febbrile propensione all'impegno umanitario per salvare il mondo, un radicale antifascismo che si traduce in una ostilità astiosa verso tutto ciò che appare anche solo come non-progressista. La Pira venne eletto sindaco di Firenze nel 1951 e rimase alla guida della città fino al 1957, e in seguito dal 1961 al '66. La sua attenzione e il suo impegno furono rivolti, più che ai problemi amministrativi del capoluogo toscano, ai grandi temi del pacifismo, del disarmo, della distensione. Interpretò il ruolo del profeta che dialogava coi potenti, Kennedy e Kruscev, per trasformare le spade in aratri. La sua ingenua buona fede lo rese completamente sordo alle grida disperate che venivano dalla Russia del dissenso che moriva nei Gulag. Il dossettismo andò in crisi proprio nel 1951, l'anno dell'elezione a sindaco di La Pira: Dossetti si ritirò dalla vita politica, imitato in breve tempo da Lazzati, per scegliere in seguito la vita monastica. La Dc di De Gasperi e Scelba assorbì quel che restava dei giovani rampanti: in un grande partito di governo c'era posto per tutti. I clerico-progressisti si insediarono stabilmente nelle strutture chiave di partito come i mezzi di comunicazione e le scuole-quadri, intellettuali vezzeggiati e privilegiati.
Gli estensori dei catechismi e dei giornali episcopali eletti nelle file del Pci.
Omaggiati nonostante avessero confuso il "Che fare" di Lenin con il Concilio Vaticano II. Nel frattempo però il luogo privilegiato attraverso il quale diffondere le loro idee divenne l'istituzione ecclesiastica: ritiratasi dalla prima linea della politica si attestarono nelle strutture ecclesiali ed episcopali, per uscirne poi fuori a sorpresa. Fu il caso del professor Gozzini, estensore dei Catechismi della Cei negli anni del Post-Concilio, di Pratesi e di Raniero La Valle, per anni direttore del quotidiano dei vescovi Avvenire, che negli anni '70 vennero eletti al Parlamento come "indipendenti" nelle fila del Partito Comunista. Gli anni che seguirono il Concilio Vaticano II avevano visto la scena culturale del cattolicesimo italiano dominata dai maritainiani. Tra questi, oltre ai sopracitati intellettuali prestati al Pci, spiccò Pietro Scoppola. Per anni lo storico e il gruppo di intellettuali (Gaiotti, Pedrazzi, Ardigò) che con lui avrebbe costituito la Lega Democratica influenzò pesantemente le scelte pastorali e culturali della Conferenza Episcopale Italiana, omaggiati e privilegiati nonostante l'evidente "tradimento" perpetrato in occasione del Referendum sul divorzio. Dopo il dossettismo e il maritainismo, intrisi di idealismo elevato e utopismo messianico, il clerico-progressista è divenuto ora un seguace del giacobinismo: è il caso emblematico di Rosy Bindi, allevata negli ambienti della Fuci e del Meic di Scoppola e soci. Il suo Ppi supera definitivamente il levantino pragmatismo della vecchia Sinistra Dc, quello che permise a Moro e De Mita di cavalcare per anni la tigre, e sceglie di appiattirsi sulla nuova sinistra: senza più la retorica sui valori comuni e gli abbracci ecumenici e pacifisti, in nome dell'odio per il nemico (il non-progressista) e per l'attaccamento inveterato al potere. Non suonano dunque strani i recenti pesanti giudizi dell'Osservatore Romano, ai quali si sono aggiunti questa settimana quelli dei gesuiti, che vergando una sorta di de prufundis per il partito di Bindi e Scalfaro, dalle colonne di Civiltà Cattolica si sono chiesti con ironia "perché un cattolico dovrebbe votare Ppi?" e rimproverato agli ultimi epigoni della sinistra Dc l'assenza di iniziativa politica, l'appiattimento su posizioni altrui e di aver concentrato la propria attenzione all'occupazione di spazi istituzionali e di sottogoverno.
tratto da Tempi, anno V, 27.10.1999, n. 40.