Colloquio tra Rosario Romeo e Giuseppe Sacco. «Mondoperaio», marzo 1986, pp. 12-17.


Esattamente vent’anni fa, nel marzo del 1966, Mario Pannunzio, il direttore della più gloriosa e illustre testata giornalistica dell’Italia repubblicana, annunciava ai propri lettori che «Il Mondo» cessava le pubblicazioni.
Poche ricorrenze come questa consentono di valutare quale distanza culturale e civile ci separi dalla metà degli anni sessanta, da una stagione che per molti quarantenni è appena ieri. Negli anni successivi, una nuova generazione è infatti entrata rumorosamente sulla scena della società italiana, armata quasi sempre di rozzi slogan pseudorivoluzionari e spesso di mortali P-38, e ha reso quasi incomprensibile, per chi non lo abbia direttamente conosciuto, l’impegno morale e intellettuale degli uomini di cultura che Mario Pannunzio chiamò a collaborare al «Mondo», il loro modo di concepire la politica – un modo libero, colto, misurato, critico con se stessi ancora prima che con gli altri -, il loro stile antiretorico e antidemagogico.
Lo stesso Pannunzio è scomparso nel 1968. E oggi, pur a tanti anni di distanza – e dopo che la testata è stata dapprima «rapinata» per qualche patetico tentativo di imitazione e poi riutilizzata per un settimanale economico di stile completamente diverso – il prestigio del settimanale, del suo direttore, dei suoi collaboratori e della Associazione degli amici del «Mondo» rimane così intatto, e la sua connotazione di rigore morale e intellettuale così nitida, che da ogni parte si tenta di rivendicare presunte eredità, continuità giornalistiche o politiche. Fondati o infondati che siano, questi tentativi hanno un solo vero significato: essi costituiscono uno straordinario omaggio postumo a un gruppo di intellettuali le cui radici culturali affondavano profondamente al tempo stesso nella nostra tradizione nazionale e nel meglio della cultura occidentale, e che ha contribuito enormemente a fare dell’Italia quella che è oggi. A farne un paese in cui si dà per naturale e scontato di godere di tutte le libertà civili, e a farne una società ormai laicizzata e dotata di una salutare capacità di rigetto dei luoghi comuni e dei dogmatismi di destra e di sinistra che quotidianamente si tenta di somministrarle.
Per ricordare questa ricorrenza «MondOperaio» ha chiesto a Giuseppe Sacco, che nell’ultimo quinquennio di vita del «Mondo» ha strettamente collaborato con Mario Pannunzio, di parlarne con Rosario Romeo, che del gruppo del «Mondo» fece parte sin dai suoi inizi.

SACCO – Credo che, per onestà verso i lettori, in occasione di un’intervista come questa, sia bene chiarire innanzi tutto la posizione personale, le preferenze e le idiosincrasie tanto dell’intervistatore che dell’intervistato nei confronti delle persone di cui parleremo. Da parte mia non posso certo nascondere di essere legato al «Mondo» – cui cominciai a collaborare quando avevo solo ventiquattr’anni -, e a Mario Pannunzio in particolare, da un atteggiamento non solo di affetto e di gratitudine, ma anche di grande rimpianto. Anche se, chiuso «Il Mondo» e scomparsi Pannunzio, De Caprariis, Compagna, il passare degli anni mi ha reso più maturo e inevitabilmente diverso da come ero allora, la sensazione dell’importanza che quelle persone e quell’esperienza hanno avuto nella mia formazione morale e politica non mi abbandona mai, e il mio senso di identità non può essere che rafforzato dal fatto che quel gruppo sia stato praticamente sterminato da una serie di scomparse precoci. Ciò per quel che riguarda il suo intervistatore. E lei, professore, come si colloca rispetto al gruppo di intellettuali che Mario Pannunzio riunì attorno al «Mondo»?

ROMEO – Io credo di aver, in un certo senso, fatto sempre parte di quel gruppo, sia pure una parte minore perché ero molto giovane quando cominciai a collaborare. Però avevo già scritto un libro, avevo passato i venticinque anni, e condividevo fino in fondo le posizioni del giornale. Ricordo che la prima volta ch’io seppi dell’esistenza del «Mondo» fu a Palermo, dove mi ero recato per fare delle ricerche d’archivio.

SACCO – In che anno siamo?

ROMEO – Nel 1949. In un’edicola, vidi questo giornale, «Il Mondo», con nomi di caratterizzazione indubbiamente liberale. Siccome si veniva dalla batosta del 18 aprile, di pochi mesi prima, in cui pareva che tutto fosse stato distrutto e disperso, nel vedere questa nuova iniziativa mi sembrò di vedere uno scoglio su cui mettere piede. E poi, quando venni a Roma nel 1950, cominciai ad avere dei rapporti con «Il Mondo» attraverso un gruppo di comuni amici liberali. Devo anche dire che probabilmente oggi, pur a vent’anni di distanza, le mie ragioni di distinzioni o di diversità dal gruppo del «Mondo» forse sarebbero molto tenui, o forse non ci sarebbero affatto. Se «Il Mondo» esistesse ancora, io continuerei probabilmente ad identificarmi con esso, perché non mi pare di essermi troppo distanziato dalle posizioni di allora; cioè, non mi sembra di essere molto diverso da quello che suppongo sarebbe oggi il gruppo del «Mondo».

SACCO – Però, professore, con Risorgimento in Sicilia, come approccio storiografico, non si era lei, in una certa misura, già mostrato diverso dall’approccio puramente crociano alla realtà del gruppo del «Mondo»?

ROMEO – In una certa misura, sì. Anzi, da questo punto di vista si può dire che il mio primo incontro con «Il Mondo» fu uno scontro. Il mio libro venne stroncato sulle pagine del «Mondo» con una violenta recensione polemica di Panfilo Gentile, il quale mi accusava di avere fatto storia economica – il che era, a suo avviso, cosa da non farsi – e di avere detto che per l’Italia meridionale la tesi di Gramsci sulla rivoluzione agraria come sovvertimento del sistema feudale poteva essere una tesi importante. E quindi venivo accusato apertamente di marxismo, che sulle colonne del «Mondo» era una accusa pesante. La cosa, a parte la delusione che mi recò perché ero giovane, e si trattava del mio primo libro, mi dispiacque anche perché mi aspettavo, sì, di essere attaccato, ma non da quella parte cui sentivo di appartenere, e per ragioni che – per di più – mi parevano del tutto illegittime. E che tali furono considerate dallo stesso Croce – tengo a sottolinearlo. Io risposi alla recensione di Panfilo Gentile con una lettera che fu pubblicata sul «Mondo» per l’intervento personale e l’autorità di Croce. Se no, figurarsi! Nessuno sapeva chi io fossi. Mi si poteva credere un comunistello di quelli che allora cominciavano a fiorire. Naturalmente, l’attacco del «Mondo» suscitò verso di me un’ondata di simpatie da parte della sinistra. Ricevetti lettere ed altre espressioni di solidarietà da parte di alcuni giovani o meno giovani storici comunisti. Questa manovra di seduzione, ad una persona che fosse stata meno decisa nelle sue convinzioni – vistasi maltrattata da una certa parte e invece lodata, corteggiata, osannata dall’altra – avrebbe potuto far prendere un atteggiamento che io non presi.

SACCO – Com’era giustificato l’attacco di Panfilo Gentile?

ROMEO – Una ragione apparente c’era. In quel libro si faceva anche della storia economico-sociale, cosa che era uscita dall’uso nella storiografia italiana da venti o trent’anni, cioè per tutto il periodo del dominio idealista. Io invece ero persuaso, e lo sono tuttora, di essere rimasto coerente con le premesse metodologiche della storiografia storicistica. Nessuno ha detto che la storia dell’economia e della società sia appannaggio di una certa metodologia e che si possa fare solo dal punto di vista marxista. Anzi, nel crederlo sta proprio una delle grandi debolezze della cultura liberale in quegli anni, e l’essersi sottratto a queto errore era uno dei punti di forza del mio libro. Non c’era, nel mio libro, un mutamento di principî o di criteri di analisi. C’era solo uno spostamento dell’oggetto di interesse, in cui una certa parte della realtà veniva presa in maggiore considerazione di quanto solitamente non accadesse nella storiografia italiana. Ma quanto io feci parve cosa nuova e scandalosa a persone come Panfilo Gentile che veramente credevano che ciò fosse illegittimo da un punto di vista storicistico.

SACCO – Ma rimane questa una connotazione per tutti i diciotto anni di vita del «Mondo»?

ROMEO – Sì, prevaleva in quel gruppo un metodo di pensiero, di analisi politica, che era molto centrato sulla politica pura, sulla cultura e vita morale, e poco attento alla dimensione sociale, del collocamento sociale o della portata di certe situazioni di classe in relazione alla vita dell’economia della collettività. Questo era invece un aspetto del mio modo di vedere le cose, un modo che si è lentamente fatto strada, certo non solo per opera mia, nella cultura di tipo liberale in Italia.

SACCO – L’esperienza del «Mondo» viene fatta coincidere dalla storiografia su quel periodo con un tentativo di mantenere in vita l’ideologia liberale in una congiuntura politica in cui questa sembrava deperire molto rapidamente. Peraltro, nel periodo dei diciotto anni del «Mondo», molti osservatori sembrano notare uno spostamento da una posizione einaudiana, il cui principale esponente fu, fino alla morte, Panfilo Gentile, verso una posizione che poi si identifica con Ernesto Rossi e con Ugo La Malfa, che non è più liberale in senso classico ma liberal all’americana.

ROMEO – Una qualche evoluzione, o, piuttosto, un qualche intreccio si può dire che si sia cominciato a manifestare a partire sin dalla seconda metà degli anni ’50. Ed era un intreccio tra cose che appartengono tutt’e due all’orizzonte del pensiero liberale, e che credo non siano da contrapporre nella considerazione politica (e persino nella considerazione storica) così nettamente e rigorosamente come si farebbe in sede teorica. Del resto, ciò è facilmente confermato se si guarda alle radici culturali del «Mondo». Messa da parte la componente culturale crociana, la posizione in materia economica di gran lunga più rappresentativa era quella di Ernesto Rossi. Ora, chi era Ernesto Rossi? Ernesto Rossi era, e dichiarava di essere, un liberale einaudiano, ortodosso, il quale scrisse lunghi articoli su Keynes, dichiarando che lui non solo non condivideva Keynes, ma non riusciva a capire che cosa mai volesse dire. Questa posizione quindi non era neppure quella del liberalismo o della democrazia interventista: per non dire che non era certo socialisteggiante. Ma all’origine c’era l’idea di Einaudi degli «interventi conformi». Interventi conformi che servono a ristabilire quelle condizioni del mercato che la concorrenza da sola sovvertirebbe. Fu seguendo questa idea degli «interventi conformi» che Ernesto Rossi si lasciò portare a prendere le posizioni che conosciamo, e che poi giunsero fino alla teorizzazione dell’intervento programmato. I convegni del «Mondo» cominciarono col discutere i monopoli. La parola d’ordine era quella della lotta contro i monopoli: posizione liberista pura, einaudiana. E poco a poco si cominciò, oltre che a individuare questi monopoli soprattutto, ma non solo, nel gruppo elettrico, anche a pensare che la lotta contro i monopoli dovesse servire a utilizzare i poteri dello Stato per indirizzare il mercato e non solo per assicurarne l’automatico funzionamento o il migliore funzionamento, come lo stesso Einaudi avrebbe detto. Questo fu un processo non molto visibile. E ad esso contribuì non poco lo spirito giacobineggiante di Ernesto Rossi, il quale vedeva monopoli e distorsioni del mercato dappertutto, in qualunque formazione della grande industria. Riaffioravano così, credo, certe debolezze della tradizione liberista italiana pura, il cui liberismo ebbe forme addirittura di anti-industrialismo. In seguito alla fondazione del Partito radicale, poi, la crescente connotazione in senso progressista del gruppo portò anche a pensare a una politica economica che certamente divergeva dalle premesse einaudiane pure. In questo il giacobinismo di Rossi ebbe una parte notevole. Ciò determinò una tensione seria all’interno del «Mondo» e – più tardi – finì per essere una delle motivazioni della rottura tra Pannunzio e Rossi, cioè in quella che era il gruppo originario del settimanale.

SACCO – Certamente. La rottura però non fu soltanto un fatto ideologico, ma anche di schieramenti e di alleanze. Derivava anche e soprattutto dal fatto che, con una impostazione come quella di Rossi, si finiva per dare un peso crescente al PSI e alle forze socialiste, alle quali il gruppo dei fondatori del «Mondo» non era assolutamente disposto a cedere il terreno, trattandosi di liberali che non avevano nessunissima intenzione di diventare socialisti. La rottura era insomma giustificata nelle cose. Non fu un fatto di incompatibilità personale, non fu un fatto estrinseco. Fu un fatto che rappresentava un dissenso ideologico e politico di fondo.

ROMEO – In seguito, la spinta del gruppo dei «programmatori» diventò una spinta socialisteggiante. E quindi questo gruppo finì per assumere, rispetto alla vita politica del paese, un atteggiamento diverso da quello dei liberali e dei radicali veri e propri. Sostanzialmente, quell’ala che in seguito si identificò sempre più con «L’Espresso», in contrapposizione al «Mondo», diventò l’organo di una opinione che non era più una opinione liberale, ma era una opinione socialisteggiante. E i lettori dell’«Espresso» diventarono sempre più un pubblico socialista e poi comunista, cioè un pubblico che con quello originale del «Mondo» non aveva più nulla a che vedere.

SACCO – Come giudica lei oggi quella evoluzione, tenuto conto del revival liberista, che sembra quasi dare ragione a Panfilo Gentile? Lo stesso Roepke non sembra più così desueto come sembrava allora.

ROMEO – Io credo che, nel mondo moderno, una componente programmatoria-interventista, cioè di correzione del mercato, sia ineliminabile da una società che non voglia perdere alcuna delle conquiste fondamentali della democrazia economica. Mi pare che il gioco del mercato di per sé, lasciato a se stesso, possa condurre ad effetti che non sono socialmente, e forse alla lunga neanche economicamente, accettabili. Riterrei che l’idea dell’intervento della mano pubblica, come allora si diceva, sia un’idea da conservare. Che poi tutto questo possa aver portato anche a sperperi è una cosa di cui possiamo parlare, ma è un’altra cosa. In linea di principio, io riterrei che, nonostante Reagan e la Thatcher, non si possa dire che le esperienze americane o inglesi si potrebbero trasportare nell’Europa continentale senza guasti sociali gravi, né, secondo me, senza un sostanziale decadimento del livello civile della società europea.

SACCO – Secondo i liberali puri, non poteva esistere una società libera senza libero mercato. Secondo i liberals all’americana, ciò non era vero. Spesso, nello stesso gruppo del «Mondo» alcuni si proclamavano liberali non liberisti. Essi pensavano che grandissime concentrazioni di proprietà aziendale nella mano pubblica potessero convivere con la società aperta. Oggi, questo non sembra più possibile, e questa è una delle scoperte fatte proprio dal pensiero socialista o di origine socialista.

ROMEO – Questo riporta alla classica polemica Croce-Einaudi, tra liberalismo e liberismo. Io credo che in linea di principio si possa immaginare anche una società in cui non c’è un libero mercato, che tuttavia sia una società politicamente libera.

SACCO – Questa è la posizione di Croce.

ROMEO – In linea di principio credo che Croce avesse ragione. Se se ne vuol poi vedere l’esperienza concreta nella società europea di oggi, si può constatare che non è stata la concentrazione dei mezzi nelle mani dello Stato, non sono state le nazionalizzazioni che hanno portato alla soppressione della libertà. La causa della soppressione di ogni libertà in gran parte dell’Europa è stata la conquista del potere da parte di forze di tipo giacobino, di tipo bolscevico. Non è quindi stata la pubblicizzazione dell’industria a determinare la scomparsa della libertà civile. La soppressione delle due cose è contemporanea, e dovuta alle stesse cause. Ma, nei paesi dell’Occidente, non credo che si possa constatare nulla del genere. Non mi pare si possa dire che le nazionalizzazioni in Inghilterra abbiano ridotto il livello della libertà politica in quel paese; o che le nazionalizzazioni fatte dal governo francese socialista di Mitterrand abbiano ridotto la libertà politica in Francia. Questi fenomeni hanno gravemente danneggiato l’economia britannica e recato colpi di una certa forza a quella francese, ma non è che per questo il cittadino inglese o francese sia oggi meno libero. È solo meno prospero; ma questa è un’altra cosa. Indubbiamente, è facile constatare che i sistemi di mercato sono economicamente più efficienti e produttivi. Ma sappiamo anche che talune conquiste del socialismo in Europa, o conquiste socialdemocratiche, anche se diffamate come statalismo o assistenzialismo, sono tuttavia quelle che garantiscono la società europea da certi fenomeni degenerativi che invece sono presenti, per esempio, nella società americana.

SACCO – Lei, in un articolo importante nella storia del «Mondo», nel 1953, pose il problema centrale di quella posizione politica, il problema derivante da un’acutissima capacità di individuare gli obiettivi da attaccare, cui non si accompagnava l’indicazione di quali fossero le forze con le quali questo attacco potesse essere condotto. Con un’analisi analoga, da sinistra si è fatto osservare che il gruppo del «Mondo», escludendo ogni accordo con il PCI, non solo vanificava la propria azione, ma si condannava a un’alleanza sempre subalterna con la Democrazia cristiana.

ROMEO – Di quell’articolo ricordo la tesi, ma solo per sommi capi, perché non l’ho mai più riletto. In sostanza, non era che un tentativo di presentare il liberalismo democratico in Italia come una forza naturalmente radicata nei ceti medi. Una tesi tutt’altro che originale. Io scrissi quell’articolo perché sul «Mondo» non si parlava mai di chi concretamente dovesse condurre la battaglia così lucidamente indicata, di quale ne fosse l’eco nella società. Cercavo insomma di capire da che parte potesse venire una qualche rispondenza alle cose che noi dicevamo. Il problema era serio, e tale si dimostrò più tardi, quando si manifestò il dissidio interno al gruppo di cui abbiamo parlato, e più tardi ancora con il percorso politico seguito da quel particolare tipo di frangia che si raccolse attorno all’«Espresso». Da parte di questa frazione del gruppo del «Mondo» si è avallata la tesi secondo la quale i protagonisti della modernizzazione del paese, e dunque della trasformazione del sistema capitalistico, non potevano essere se non nel Partito socialista, e poi di fatto anche nel Partito comunista. Intorno all’«Espresso» e alla «Repubblica» si crearono movimenti di opinione in cui di fatto la maggioranza numerica dei lettori, dei sostenitori di quelle posizioni e tesi politiche erano dapprima socialisti e poi – soprattutto e sempre di più – comunisti. Ora, questa è una adulterazione della realtà. Presentare il Partito comunista come la forza riformatrice della società italiana, e i giornali e le forze politiche che ne sostenevano la politica come forze liberali, significa offrire uno scenario di cartapesta, perché il Partito comunista rimane il Partito comunista e non era affatto detto allora, come non è detto adesso, che il Partito comunista sia stato fondato e teorizzato per riformare e far funzionare meglio il capitalismo.

SACCO – Che cosa si aspettavano dunque dal PCI queste «frange» del gruppo del «Mondo»? Pensavano veramente a una possibile utilizzazione del PCI in chiave riformista?

ROMEO – I giornali o le posizioni di questa sinistra intellettual-progressista, che invece questo affermavano, di fatto erano nella classica posizione dei «compagni di strada». Come tutti i compagni di strada essi erano soprattutto impegnati ad affiancare la battaglia politica comunista con motivazioni più accette a gruppi sociali diversi da quelli tradizionalmente sensibili alla propaganda comunista; ma se poi si guarda chi erano i sostenitori di quelle posizioni, si scopre che i lettori dell’«Espresso» o di quell’area di opinione erano soprattutto ed essenzialmente comunisti, o comunque elettori del Partito comunista, la cui obbedienza politica era certamente stata data prima a Togliatti, poi a Longo e poi ai successori, e non certo ai giornali che si presumono liberali. Si tratta insomma di una specie di gioco delle tre carte, in cui le tesi e la politica dei Partito comunista sono contrabbandate come tesi liberali. In realtà, le tesi liberali servivano solo a mascherare una sostanza politica che era quella comunista. E dico comunista perché sempre di più si moltiplicarono gli attacchi ai socialisti, accusati di essere fascisti, di essersi fatti fagocitare nel centro-sinistra, e di essersi dunque lasciati ingabbiare nel sistema di potere della Democrazia cristiana. Va, invece, sottolineato che questa situazione, di cui si lamentavano i limiti, era dovuta alla spaccatura della società italiana e alla presenza di un Partito comunista che, come tale, non era e non è utilizzabile come forza di alternativa di governo. Di conseguenza, le forze intermedie si sono trovate in Italia, come in Germania, come in Belgio, come in molti paesi d’Europa, come nella stessa Inghilterra, in serie difficoltà. Questa situazione però non giustificava il giudizio pesantemente negativo dato dai suoi avversari sulla politica dei veri liberali progressisti, perché l’alleanza con la DC non equivaleva ad un’alleanza con Pio IX e col cardinal Antonelli. La DC in Italia come in altri paesi (ad esempio in Germania) è un partito che ha contenuti largamente democratici, e in qualche misura liberali, e che ha contribuito in maniera decisiva al mantenimento di una società libera nel nostro paese. Quindi non è che i laici, alleandosi con i democristiani, si fossero venduti al nemico. Naturalmente, la DC è cosa diversa dai partiti laici, ma è meno diversa di quanto non sia il Partito comunista.

SACCO – Questo ci porta a una domanda di attualità. Oggi vi è un notevole numero di personalità politico-culturali, certamente provenienti dall’ambiente culturale della sinistra che si raccoglieva attorno a Pannunzio, ma che tendono a presentarsene come i continuatori. Ma non si tratta – o non si tratta solo – di persone che, come ha fatto lei stesso, sostengono che, se quel gruppo non fosse stato sterminato dagli eventi, probabilmente ne farebbero ancora parte. Al contrario, questo atteggiarsi ad eredi di Mario Pannunzio e di Ernesto Rossi coinvolge persone che hanno preso, negli ulteriori anni, posizioni molto dissonanti da quelle che «Il Mondo» ci aveva reso familiari e che è verosimile sarebbero ancora oggi quelle del suo gruppo redazionale. Da un lato queste rivendicazioni costituiscono in un certo senso la riprova dell’importanza storica di quell’esperienza, nonché dell’ancora luccicante blasone qualitativo che quel gruppo può conferire. Ma dall’altro lato è evidente che ci deve essere qualche forzatura; o ci deve essere una molteplicità di interpretazioni, se non altro, dell’eredità lasciata dal «Mondo».

ROMEO – Secondo me, in questo caso si tratta proprio di una visibile alterazione della verità dei fatti. Cioè, si tende a vedere una continuità dove continuità non c’è. E persino si può discutere se l’origine sia veramente la medesima. In definitiva, la posizione, che poi si sviluppò soprattutto con la fondazione dell’«Espresso» da parte di Arrigo Benedetti, era fin dall’origine una posizione diversa da quella del «Mondo», e tale diversità si è andata accentuando in modo sempre più netto. Comunque, ci sono molti, infiniti aspetti in cui è evidente la diversità. In confronto, è molto difficile vedere la somiglianza. Lo stesso stile giornalistico dell’«Espresso» era diversissimo da quello del «Mondo». L’invenzione di Benedetti di presentare gli avvenimenti sotto forma di immediata rilevanza e di far quasi assistere il lettore direttamente allo svolgimento dei fatti decisivi della politica, dell’economia, della cultura o del costume conteneva e contiene una carica di terrorismo intellettuale fondato sulla supposizione di fatti non provati e spesso non veri. Perché è chiaro che, volendo presentare le cose in questo modo, si finiva per spacciare per veri ed accreditare particolari, connessioni, sfumature, rapporti personali, situazioni psicologiche, eccetera che invece erano in grandissima parte immaginari, e tuttavia decisivi per la valutazione che il lettore era indotto a dare di cose e persone. Tutto questo si traduceva in uno stile giornalistico a carattere intimidatorio che ha contribuito grandemente a peggiorare l’atmosfera della vita pubblica in Italia.

SACCO – Anche «Il Mondo» esercitava una severa critica morale. Dello stesso Pannunzio, come ella certamente ricorda, si disse che poteva essere severissimo con gli altri perché era implacabile con se stesso.

ROMEO – Nel caso dell’«Espresso», c’era un misto di cinismo e di moralismo; spregiudicatezza mondana da un lato, e catoneggiare severissimo quando invece si preferiva assumere altri panni. Questo era estraneo al gruppo del «Mondo»: si dice che era un gruppo snob, ma in che senso lo era? Era un gruppo di intellettuali che all’origine, come molti dei liberali italiani, provenivano da ceti sociali benestanti e conservavano quindi un certo disdegno rispetto alla società di massa. Ma era un gruppo di persone che avevano sempre la coerenza di certi principî e ne assumevano in prima persona la responsabilità. Non c’era un passaggio da un piano all’altro, dal cinismo al moralismo, a seconda delle circostanze e della convenienza, come invece accadeva con lo stile dell’«Espresso» di Benedetti. Qui peraltro risiedeva anche il segreto del successo di questo tipo di giornalismo; perché è chiaro che, dando al lettore l’impressione di entrare nell’intimo dei fatti e a tal fine romanzando la realtà, si riesce a fare colpo. Ma a quale prezzo?

SACCO – Ma tra «Il Mondo» e «L’Espresso» vi era più di una mera differenza di stile.

ROMEO – Certamente, la principale differenza sta nel fatto che «Il Mondo» si trovò spesso, anzi quasi sempre, su posizioni di minoranza, e si schierò senza esitare dalla parte più debole e la sostenne ostinatamente per molti anni; mentre una tipica tendenza del gruppo che deriva dall’«Espresso», sotto la patina del suo radicalismo liberaleggiante, è sempre stata quella di schierarsi dalle parti più forti. Più forti, naturalmente, non al livello di governo, ma sul piano della pubblicistica, dell’opinione, cioè nell’ambiente in cui il gruppo dell’«Espresso» operava. Si vedano le posizioni sul Vietnam e quelle sulle agitazioni sindacali nel periodo post 1969. È caratteristico il fatto che nel periodo in cui i sindacati erano più forti questo gruppo era tutto dalla parte dei sindacati; adesso che i sindacati sono più deboli, quello stesso gruppo è tutto dalla parte dei capitalisti e denuncia gli errori dei sindacati con estrema violenza. Gli esempi di questa natura si potrebbero moltiplicare: io stesso con un po’ di pazienza potrei ricordarne tantissimi.

SACCO – Questa coincidenza tra le posizioni del gruppo «scissionista» nato con «L’Espresso» e le convinzioni prevalenti nella opinione pubblica italiana potrebbe però anche essere spiegata con il ruolo di opinion leader che «L’Espresso» – a differenza del «Mondo», volutamente elitario – poteva avere. Secondo lei, come si spiega il fatto che il gruppo che ha dato vita all’«Espresso», prima, alla «Repubblica» poi, sia stato sempre sulla cresta dell’onda?

ROMEO – Si spiega con la capacità di intuire qual è l’onda che in un certo momento ha successo. Non si può dire che «La Repubblica» e «L’Espresso» abbiano mai creato un fenomeno di opinione pubblica; ma quando c’è una spinta e ne avvertono la prevalenza, sono i primi a cavalcarla. Si può obiettare che la spinta in questione non è a livello di governo perché al potere questi gruppi non sono stati mai; ma al livello in cui vengono condotte queste battaglie non importa nulla il fatto di essere al governo o meno. Importa molto di più essere più forti sul piano della pubblicistica, sul piano della battaglia delle idee, o per meglio dire dei mezzi d’informazione. C’è infine un terzo elemento che distingue «Il Mondo» dall’«Espresso» e dalla «Repubblica»: ed è che il gruppo del «Mondo» non pensò mai, né ritenne, che le forze progressiste della società italiana fossero quelle comuniste. Ora è naturalmente più che legittimo sostenere che si sia verificata una trasformazione del PCI ed infatti, da parte del gruppo dell’«Espresso», lo si è sostenuto a partire da una data che risale addirittura alla metà degli anni ’60. E «democratizzare» la storia degli ultimi vent’anni del Partito comunista mi sembra una anticipazione sulle cose un poco azzardata.

SACCO – «L’Espresso» e «La Repubblica» non erano però soli nel diffondere questa interpretazione della storia recente d’Italia.

ROMEO – No, certamente. Di per sé questa non è una operazione che abbia molta originalità. In Italia è stata tentata con grande successo e realizzata per decenni da molti intellettuali che ne hanno fatto motivo di fortuna personale; ma a un livello più propriamente politico, e su vastissima scala, la stessa operazione è stata fatta da Piero Ottone quando dirigeva il «Corriere della Sera». Cosa ha fatto Piero Ottone? Ha fatto di un giornale, che era rappresentante delle posizioni liberaldemocratiche dei ceti medi lombardi, un organo che prendeva posizione non solo per i comunisti, ma addirittura per le frange dell’ultra sinistra. Sul giornale diretto da Piero Ottone sono apparse, come anche sull’«Espresso», posizioni che in un paese davvero libero avrebbero condotto a condanne giudiziarie nei confronti di coloro i quali si sono fatti pubblici sostenitori di autentici reati e sopraffazioni ai danni di larghi settori sociali e professionali. Non è – ripeto – una operazione originale, basta volerla fare e disporre dei mezzi per farla. Il vecchio Stalin aveva già capito tutto quando diceva che il «suo» proletariato aveva preso in mano la bandiera delle libertà borghesi, e al tempo stesso che i capitalisti avrebbero venduto ai bolscevichi anche la corda che sarebbe poi servita per impiccarli. Ma se tutto questo è liberalismo, devo dire che, per quanto io riesco a capire, il gruppo del «Mondo» era assolutamente un’altra cosa.

SACCO – Non c’era nulla da inventare e nulla è stato inventato. Eppure l’operazione ha avuto un evidente successo.

ROMEO – Ci si può chiedere perché questa operazione abbia successo. La risposta è chiara: perché l’Italia è un paese che ha un terzo della popolazione che vota comunista. Quindi l’operazione può contare fin dall’inizio su un potenziale larghissimo. I simpatizzanti comunisti, dal giornale del loro partito, dalla propaganda comunista, ricevono una informazione che sanno essere di parte. Se poi invece ritrovano le stesse tesi in una sede che gli dà l’impressione di essere indipendente e di riportare l’opinione anche di non comunisti, hanno la sensazione di vedere legittimata la propria posizione non più come posizione di partito, ma addirittura come posizione condivisa da tutta l’opinione socialmente ed intellettualmente qualificata.

SACCO – Non è quindi solo lo stile giornalistico ed il coraggio di stare in minoranza che distingue il gruppo del «Mondo» da coloro che ne vantano oggi l’eredità. C’è anche il rifiuto di un ruolo di copertura e legittimazione del PCI.

ROMEO – C’è anche dell’altro. Il gruppo del «Mondo» ha sempre preso in prima persona la responsabilità delle idee e posizioni che ha sostenuto. Non ha mai delegato ad altri, come fa un certo snobismo capitalistico, la difesa delle posizioni più difficili da tenere, riservando a se stesso la parte delle anime belle, aperte e progressiste. In fondo, questa – di affidare ad altri la parte prosaica del mantenimento degli equilibri della politica, dello Stato e della società italiana – è un vizio congenito di quel tale capitalismo e di quella buona società che nei salotti simpatizzava con i vari Capanna, mentre poi mandava gli agenti di polizia in piazza, i capireparto in fabbrica, e i professori nelle scuole e farsi spaccare la testa o a farsi prendere a colpi di pistola. Ciò dà ragione a Montanelli quando dice che il capitalismo si può difendere solo a condizione di tenersi lontani dai capitalisti. Perché, a vederli da vicino, ci vuole molto stomaco per digerire i capitalisti. Abbiamo invece assistito ad un tentativo di identificare rivoluzione e capitalismo, in una immaginaria «alleanza dei produttori», che garantirebbe il tranquillo godimento delle rendite di posizione e dei profitti ai danni della massa dei consumatori. E qui vanno aggiunte altre due osservazioni. In primo luogo, questa idea della congiunzione del conservatorismo capitalistico con il corporativismo sindacale è una forma di trasformismo che ha corrotto le logiche della cultura e della vita politica in Italia. In secondo luogo e per ultimo, aggiungerò che non è vero che la fascia di opinione che fa da platea alla stampa che pretende di rifarsi al «Mondo» di Mario Pannunzio costituisca una sorta di partito informale, di movimento liberal-democratico. Ciò non è vero perché il «movimento» è costituito in gran parte da comunisti o da gente che vota per il Partito comunista. E l’idea che questi siano degli iscritti solo apparenti al Partito comunista, o che si possa togliere al Partito comunista il suo carattere di soggetto politico reale per attribuirlo a se stessi, è una operazione del tutto immaginaria.

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