https://www.harpersbazaar.com/it/cul...ita-femminile/

“Punto 4. Non c’è nessun diritto al sesso”. scrive Amia Srinivasan in coda al saggio The right to sex, per poi aggiungere “ma è ‘banale come sembra’ dire che quel che c’è di peggio nelle nostre realtà sociali - razzismo, classismo, abilismo e eteronormatività - modella chi desideriamo e amiamo e chi no, chi ci desidera e ci ama?”.
The right of sex è il saggio che dà il titolo alla straordinaria, per limpidezza e intelligenza, raccolta su sesso, pornografia e femminismi, che Amia Srinivasan, professoressa di Social and Political Theory all’università di Oxford, ha pubblicato quest’anno per Bloomsbury in UK e che è in arrivo in Italia per Rizzoli a inizio 2022. In quel saggio Srinivasan analizza la vicenda di Elliot Rodger, “il più famoso incel al mondo”, il ventiduenne che nel 2014 aveva ucciso sei persone, incluse alcune ragazze appartenenti alla confraternita universitaria Alpha Phi, prima di suicidarsi. Nelle ore precedenti alla strage, il ragazzo aveva pubblicato un video dal titolo “Elliot Rodger's Retribution” (“La vendetta di Elliott Rodger”) e manifesto-memoir di centosettemila parole in cui paragonava le donne alla peste e lamentava la sua solitudine e l’impossibilità ad accedere al sesso nonostante fosse “per metà bianco” (il padre era britannico, la madre cino-malese). Scriveva: “tutto quello che volevo era essere accettato e vivere una vita felice,” mentre quelle ragazze “rappresentano tutto quello che odio del genere femminile… sexy, bionde e belle… stronze viziate, senza cuore e malvagie”. La strage di Rodger era motivata da una visione misogina e violenta, per cui le donne andavano punite perché colpevoli di rifiutarlo - e di farlo per ragioni inammissibili, come la razza, perché introverso e perché non era un maschio alpha, il solito armamentario dialettico degli incel. Nonostante ne protestasse i criteri di distribuzione, Rodger riteneva però di aver diritto al sesso, che una cosa del genere esistesse - o meglio, proprio protestando non faceva che convalidare quella visione gerarchica che pure lo escludeva, spiega Srinivasan. E poi aggiunge, questo è tutto quello che possiamo dire su questa vicenda, di questa violenza? Se sappiamo cosa significa interiorizzare il razzismo, il classismo, o il machismo, se sappiamo (mai fino in fondo) come queste discriminazioni entrano in gioco nelle sfere più pubbliche della nostra vita, perché non applichiamo queste lenti alla lettura del desiderio? The right to sex è una lettura politica, ma non morale, del desiderio e della sua costruzione ideologica, un libro in cui Srinivasan analizza, in modo sempre complesso e sorprendente, le relazioni e le aspettative tra i generi, la violenza e le discriminazioni di classe e razza connesse a quello che consideriamo la naturale distribuzione della desiderabilità - come sa chiunque non rientri nelle strettissime maglie di quello che è considerato accettabile, sessualmente attraente.
Cosa fare dunque? Dove ci porta Srinivasan? Se il desiderio discrimina - perché le scelte che facciamo sono connotate da fattori sociali - come possiamo liberarlo senza disciplinarlo, senza fare scelte corrette perché morali, ma poco sentite? Nei suoi saggi si chiede anche, giustamente, se possiamo accettare risposte individuali a un problema sistemico; se si possa disinnescare razzismo, abilismo e classismo dalla sfera individuale, senza un’azione che sia semplicemente di volontà. Se per uscire da questo pantano, dovremmo agire a monte e trasformare il sistema, cioè agire collettivamente grazie a una visione intersezionale, Srinivasan ci chiede intanto di imparare a osservare come questi elementi entrino in gioco nella nostra individuale esperienza del mondo.
In questi sei saggi compie cioè infiniti scarti laterali per portare avanti un’analisi mai rassicurante o consolatoria del nostro naturale desiderio, un’analisi in cui attacca in egual modo chi dice che esiste una cospirazione contro gli uomini (come potevano mai sapere che quei comportamenti erano molesti? si chiedono costernati dalla verità delle accuse che gli vengono mosse), sia il femminismo mainstream, attento più alla punizione che alla comprensione e alla demolizione delle strutture di oppressione (chi viene punito e a vantaggio di chi? chi viene creduto, a chi diamo naturalmente credito?), obietta agli argomenti anti-porno e alle posizioni troppo semplificatorie intorno al sex-work. Srinivasan fa tutte queste cose, aiutata da un apparato teorico imponente - quasi la metà del libro è occupata dalle note e dai riferimenti bibliografici - eppure non c’è niente di teorico o astratto in quello che scrive. Il suo infatti non è un libro di contestazione o apodittico, ma mosso dal sincero desiderio di dare tridimensionalità a questioni che riguardano sfere così profonde, come quelle dell’identità, del sesso, della relazione, rispetto alle quali tendiamo a semplificare invece che aggiungere complessità, per paura di quello che queste posizioni svelano di noi. Sarebbe più semplice darci regole e norme da seguire e sperare che queste facciano il lavoro al posto nostro o riempire un saggio di slogan da citare, ma Srinivasan ci nega tutto questo, ogni scorciatoia, ogni banco di imputati in cui dividiamo i buoni dai cattivi. Per qualche motivo, l’ho trovata una lettura liberatoria, perché mi ha aiutato a mettere a fuoco cosa non tollero del modo binario in cui si parla di genere e di violenza, cioè il divorzio tra identità e strutture sociali che producono, consolidano e rendono illusoriamente naturali quelle identità - e allo stesso tempo difficile, perché ha reso evidente la mia complicità in quelle stesse strutture, il modo banale e profondo in cui il mio desiderio prende forma. È impossibile - e questo è solo un complimento per una pensatrice raffinata come lei - riassumere i temi e le prospettive da cui li osserva, proprio perché Srinivasan tenta la via dell’irriducibilità, dell’assenza di polarizzazioni, della complessità; ci spinge cioè su un terreno incerto, che è quello da cui far partire le conversazioni intorno a questi argomenti.
C’è un saggio, però, di cui vorrei parlare, perché condensa molte delle stanchezze e inconciliabilità che sento nella vita quotidiana e perché la lettura di Srinivasan mi ha aiutato a trovare una lente diversa, più utile, meno scontata, per interpretare eventi che mi sono accaduti e che mi accadono su scale diverse; si tratta del saggio sul perché non fare sesso con i propri studenti. La storia è questa: quando frequentavo ancora l’università, sono uscita con un mio professore. La dinamica era stata del tutto consensuale - avevo dato con lui un esame l’anno precedente - e anzi, pensandoci adesso il mio interesse stava più raccontare l’appuntamento che viverlo, ma avevo poco più che vent’anni e non era dovuto che fossi più matura di così. L’appuntamento in sé era stato mediamente disastroso - e oggi un aneddoto molto divertente - ma quello che ricordo meglio è stata l’insistenza fastidiosa e irritante con cui ripeteva che un tempo era stato il mio professore e io la sua studentessa. Non voleva tanto conquistarmi, quanto riattestare a tutti i costi una gerarchia, perché nel mondo fuori dalle aule non stava funzionando, non gli dava i frutti aspettati. L’anno successivo ero in un altro studio a sostenere un altro esame e, convalidato il voto, avevo fatto al professore una domanda su qualcosa che aveva detto in classe. Lui mi aveva risposto in un modo sibillino e chiaramente ambiguo: potevamo cercare insieme quella citazione, mi aveva detto, magari più tardi; a differenza del caso precedente quella mossa mi era sembrata oscena e violenta, perché mi diceva che non potevo essere interessata alla materia senza dover passare dal suo sguardo - l’unica fortuna che avevo era che non mi volevo laureare con lui, che potevo ignorare il commento senza dover decidere qualcosa rispetto alla mia carriera accademica. Non racconto questi due esempi perché siano eccezionali (anzi, proprio per quanto sono comuni) o perché mi abbiano segnata; non ogni rapporto spiacevole è anche traumatico, se a essere disfunzionale è il campo di gioco, per cui ogni dinamica partecipa dello stesso squilibrio. C’è una cosa, però, che scrive Srinivasan nel saggio che ho trovato interessante: “il fallimento (come insegnanti, ndr) è nel non resistere alla tentazione di approfittare del fatto che le donne sono socializzate in una certa maniera sotto il patriarcato - che significa, sono socializzate in una maniera che porta al patriarcato”, ossia si chiede se “non è forse la funzione delle molestie quella di danneggiare le donne in modo da controllare e rafforzare i loro ruoli di donna e di lavoratrice. È fare un passo troppo lungo pensare che la diffusione della pratica da parte dei professori di fare avance sessuali alle studentesse sia per dire loro di stare al loro posto?”
In entrambi i casi i due uomini mi avevano voluto inchiodare alla biologia, alla gerarchia che l’università e la società avevano scelto per me. Ripensandoci oggi i loro erano due modi - più o meno inconsapevoli - per punirmi, non per qualcosa che avessi fatto, ma per ricordarmi che i ruoli sociali sono connotati: mi impedivano di scordarmi chi fossi. Quello che questi uomini non potevano tollerare è che io fossi disinteressata a loro o interessata a tutt’altro (perché per qualche ragione le due cose sono sinonimi); a spaventarli era la loro invisibilità, la moneta con cui mi avevano ripagata era stata rendermi visibile, impedirmi di dimenticare il mio corpo, la mia identità. La punizione era un modo per entrambi di confermare la propria mascolinità, che si basava sulla capacità di sedurre, di segnare un punto, a prescindere da chi avevano davanti. Non a caso il primo si era messo con un’altra studentessa e l’altro mi aveva dimenticato una volta uscita dalla porta, come era ovvio che fosse: non avevano a che fare con me né con come mi sentissi io rispetto a loro, se non col fatto che avessi provato a rapportarmi con loro fuori dal ruolo previsto.
Riconosciamo tutte e tutti dinamiche simili: nel desiderio, nel sesso, nascondiamo le dinamiche di potere che apertamente non vorremmo mostrare, nascondiamo le aspettative che abbiamo su di noi, come vogliamo essere percepiti, a chi vogliamo essere associati, lo stato che vogliamo ottenere. È però anche il posto in cui queste dinamiche possono diluirsi, sparire, diventare obsolete: è il posto in cui possiamo emanciparci da noi stessi, dimenticarci un po’, perché aperti all’altro, interessati all’altro. Vulnerabili: è forse questo il diritto che possiamo pretendere.