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    Predefinito La scienza politica in Italia: da Mosca a Sartori (1985)

    di Norberto Bobbio – «Mondoperaio», aprile 1985, pp. 90-97.



    Della scienza politica in Italia si può stabilire con una certa esattezza la data sia di nascita, alla fine del secolo, sia della rinascita, dopo la seconda guerra mondiale. Tanto la nascita quanto la rinascita sono connesse allo sviluppo dello stato liberale e democratico, dello stato liberal-democratico.
    Sulla data di nascita non vi sono dubbi. Questa coincide con la pubblicazione degli Elementi di scienza politica di Gaetano Mosca nel 1896 presso l’editore Bocca di Torino. Nel 1896 Mosca aveva vinto il concorso a professore straordinario di diritto costituzionale (si badi, di diritto costituzionale e non di scienza politica) presso l’Università di Torino e viene chiamato alla facoltà di giurisprudenza della medesima Università a insegnare il diritto costituzionale ma gli viene affidato anche l’incarico di storia della scienza politica che terrà sino al 1909. Come docente di diritto costituzionale resterà a Torino sino al 1924, sino a quando sarà chiamato a Roma a insegnare la storia delle dottrine politiche. Insieme con l’Utet che aveva pubblicato le principali opere di Darwin in italiano, la casa editrice torinese della famiglia Bocca, che risaliva alla fine del Settecento, si distingueva nel panorama degli editori italiani come fautrice e propagatrice della cultura positivistica in Italia, cui la città di Torino era stata particolarmente sensibile, tanto che mi è venuto fatto di chiamarla la città più positivistica d’Italia. Che gli Elementi di Mosca siano stati un’espressione significativa del clima di cultura creato dalla diffusione del positivismo a cominciare dal 1870 sino alla fine del secolo, è fuori di dubbio.
    Prima della pubblicazione dell’opera di Mosca, la scienza politica non aveva avuto in Italia (e forse neppure in Europa) né un nome ben definito, né uno statuto riconosciuto, né un contenuto dai contorni precisi.
    Comincio dal nome, sul quale faccio alcune osservazioni sparse senza pretesa di completezza. Per quanto l’espressione «scienza politica» risalga all’antichità, politiké epistéme è il termine greco, nella tradizione degli studi politici dell’età moderna sino alla fine dell’Ottocento e sino a oggi il nome più diffuso per designare la trattazione della materia che oggi chiamiamo abitualmente «scienza politica» è stato, a imitazione della grande opera di Aristotele, «politica», puramente e semplicemente. Le lezioni berlinesi di Treitschke, che furono pubblicate postume su per giù negli stessi anni degli Elementi, furono intitolate Vorlesungen über die Politik. La traduzione italiana cinquecentina della Politica di Aristotele ebbe dal suo traduttore, Bernardo Segni, il bel titolo di Trattato dei governi.
    Quando apparve l’opera di Mosca, l’espressione «scienza politica» era contrastata dall’espressione, molto più diffusa, «scienze politiche»: con questa espressione più generale e comprensiva si voleva fare intendere che la materia della politica era così ampia da richiedere una trattazione che la considerasse da diversi punti di vista, storico, sociologico, giuridico, psicologico ecc. Quando Brunialti (su cui vedi più avanti) diede avvio alla sua benemerita impresa che avrebbe raccolto in un corpus di più volumi le principali opere di politica pubblicate in Europa nell’Ottocento, la chiamò Biblioteca di scienze politiche. Le facoltà che sorsero a poco a poco dal grembo delle antiche facoltà di giurisprudenza destinate allo studio della materia politica furono chiamate facoltà di scienze politiche. Dopo la guerra, quando gli studi politici ebbero una rapida ripresa, sorse un’associazione di scienze politiche molto tempo prima dell’associazione di scienza politica.

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: La scienza politica in Italia: da Mosca a Sartori (1985)

    Mentre l’espressione «scienze politiche» era di derivazione francese, l’espressione «scienza politica» era nata in Germania (politische Wissenschaft), anche se poteva essere commutata in altre espressioni analoghe come Polizeiwissenschaft e Staatswissenschaft. Basti ricordare che le celebri lezioni di Hegel sulla filosofia del diritto furono pubblicate con questo sottotitolo: Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse. Peraltro, mentre non era affatto sconosciuta l’espressione al plurale, e basti pensare alle famose lezioni di von Mohl intitolate Die Geschichte und Literatur der Staatswissenschaften, uscite in tre volumi fra il 1855 e il 1858, la Polizeiwissenschaft, al singolare, definita da Hans Maier «la dottrina scientifica della politica interna del vecchio stato territoriale tedesco»[1], conteneva elementi di politica economica e fiscale, di scienza della legislazione e dell’amministrazione, in quanto disciplina universitaria destinata alla formazione dei funzionari statali. L’uso dello stesso termine al singolare anziché al plurale non implicava una più precisa delimitazione dei contorni della disciplina.
    Anche la distinzione fra scienza politica e filosofia politica, sulla quale oggi abbiamo aperto e non mai chiuso una interminabile controversia, era tutt’altro che chiara. Sino a che si scrisse in latino, l’espressione più usata per indicare su per giù la materia che ora si chiama indifferentemente politica o scienza politica o scienze politiche fu philosophia civilis, oltre che politica (si ricordi la Politica methodice digesta di Althusius). Nel passo tanto discusso del cap. XIII del De cive, in cui Hobbes afferma che bisogna insegnare nelle università il sano sapere politico per evitare il turbamento degli animi che induce alla sedizione, si legge l’espressione doctrina civilis (fundamenta doctrinae civilis vera et vere demonstrata, paragrafo 9), che nell’edizione inglese diventa civil doctrine, e nella traduzione francese coeva è politique. Uno dei trattati più diffusi in Italia, nell’Ottocento, fu quello di Henry Brougham, intitolato Political Philosophy (Londra 1843), tradotto in italiano nel 1850 con un’ampia introduzione dell’economista palermitano Raffaele Busacca che definisce la materia del libro, la filosofia politica, «cognizione di tutte le leggi della natura morale che governano l’andamento e lo sviluppo progressivo della società verso il suo scopo», con un insieme e un impasto di parole tanto vago da abbracciare l’universo intero di ciò che oggi farebbe oggetto delle scienze sociali, con un di più di fiducia ottocentesca nella scoperta di leggi morali oggettive che ha sempre costituito il tema centrale del sapere filosofico come sapere sommo. Ma poi, lamentando lo stato negletto degli studi politici in Italia, dice: «L’Italia non ha che pochissimi scrittori cui si possa meritatamente dare il titolo di scienziati politici» (il corsivo è mio e vuol dimostrare l’uso indifferenziato dei termini «filosofia» e «scienza»). E, poiché sto parlando di un’opera inglese, non sarà fuori luogo ricordare che pochi anni prima della pubblicazione degli Elementi del Mosca era apparsa la traduzione francese di un noto libro di sir Frederick Pollock (era una raccolta di scritti vari e di conferenze), intitolata Introduction à l’etude de la science politique (Parigi 1893), il cui titolo inglese era An Introduction to the History of the Science of Politics (Londra 1890).
    Per quel che riguarda gli Stati Uniti, apprendo dal libro di Albert Somit e Joseph Tanenhaus, The Development of Political Science (1967), che la disciplina insegnata nelle università americane fu chiamata sin dall’inizio political science, e il primo insegnamento ebbe luogo nella Columbia University a partire dal 1880, sotto l’influsso della Staatswissenschaft tedesca, in modo particolare del grande giuspubblicista di origine svizzera, Johann Kaspar Bluntschli, secondo cui la scienza politica era la scienza dello stato.
    Circa lo statuto della scienza politica, le incertezze, le ambiguità, le confusioni, la sovrapposizione di vari campi erano ancora maggiori. La varietà delle denominazioni rispecchiava la molteplicità dei contenuti, dei punti di vista e delle prospettive o, inversamente, gl’incerti confini della materia giustificavano le denominazioni più diverse. Oggi non abbiamo dubbi nel considerare la scienza politica una scienza descrittiva e/o esplicativa, anche se riteniamo di poterle attribuire una funzione pratica nell’indirizzare l’attività politica in un senso piuttosto che in un altro. La netta distinzione fra il compito dello scienziato e quello del politico, fra teoria e ideologia, fra giudizi di fatto e giudizi di valore, è una eredità del positivismo che ha agito profondamente su alcuni padri fondatori della sociologia contemporanea, come Pareto e Max Weber, ed è diventata un patrimonio comune di tutti coloro che, pur con diverse metodologie e tecniche di investigazione, conducono ricerche «scientifiche» nel campo della condotta umana.
    Nel secolo scorso, invece, era frequentissima la considerazione della scienza politica come scienza normativa, come forma di sapere o di conoscenza il cui scopo è principalmente quello di dare precetti per l’azione dei governanti o di avanzare proposte per correggere le cattive istituzioni e così contribuire alla formazione di istituzioni migliori. In tal modo, il suo oggetto specifico non era tanto il governo ma il buon governo, in conformità del resto del grande modello aristotelico, secondo cui il fine della città o della società politica è quello non già di consentire agli uomini associati di vivere ma di vivere bene. Nell’Introduzione alla Biblioteca di scienze politiche, già ricordata, intitolata Le scienze politiche nello stato moderno (1884), Brunialti scrive fra l’altro: «La scienza politica [si osservi l’indifferenza nell’uso del plurale e del singolare] deve combattere anzitutto gli avversari della libertà moderna ed educare il popolo ad opporre loro anche la più valida difesa ecc.» (p. 43), ove si vede subito in quell’«anzitutto» che la funzione pratica della scienza politica è preminente. Il de Parieu, i cui Principes de la science politique (Parigi 1870) Brunialti accoglie nella sua biblioteca (nel volume secondo), scrive che il compito della scienza politica è di «giudicare i governi esistenti e definire ciò che essi debbono essere in un dato paese» (p. 68), e cita lo Ahrens, ben noto in Francia perché il suo Cours de droit naturel era stato pubblicato primamente in francese (1838), il quale aveva scritto: «La scienza politica non ha soltanto per risultato di elevare gli spiriti in una sfera più alta e più serena che non sia quella dell’arte: essa ha anche per effetto di moralizzare la politica» (p. 69).
    Un commento a simili espressioni è superfluo: suonano tanto ostiche al nostro orecchio che ci sembra quasi impossibile che siano servite per definire una disciplina che si è sempre più trasformata in un complesso di analisi metodologicamente condotte di ciò che avviene di fatto, e non si preoccupa se non indirettamente, di riflesso, di ciò che deve essere.
    Per quel che riguarda la materia della scienza politica, la ragione per cui è stata per secoli d’incerti confini è da ricercare nella sua continua collisione col diritto pubblico. La collisione, che genera confusione, nasce dal fatto che scienza politica e diritto pubblico hanno lo stesso oggetto: lo stato. Se c’è una differenza che giustifichi le due diverse denominazioni, occorre segnare tra l’una e l’altra una linea di demarcazione. Ma dove passa questa linea? La disputa è antica e si è rinnovata a ogni età. Se pure con una certa approssimazione, si può dire che la scienza politica era nata in Grecia, il diritto pubblico in Roma. Dal che segue che la distinzione tra l’una e l’altro è, prima ancora che concettuale, storico-culturale. Ed è una distinzione di cui, proprio per essere radicata in una dimensione storica e culturale più difficile da afferrare, non sempre ci si è resi conto. Si può dire, ripeto, che la definizione di stato che si trova in Aristotele è una definizione storico-sociologica, la polis nasce dall’unione di villaggi, che nascono alla loro volta dall’unione delle famiglie, una definizione che oggi non abbiamo alcuna difficoltà a far rientrare nell’ambito della scienza politica, mentre la definizione di Cicerone, «coetus multitudinis iuris consensu et utilitatis communione sociatus» (Rep., I, 25, 39), è piuttosto una definizione giuridica, o per lo meno è una definizione che contiene un riferimento al vincolo giuridico di cui non c’è traccia in quella aristotelica[2].
    Per influenza della grande tradizione giuridica romana, coloro che si occupano dello stato sono, per secoli, legisti. I principali temi riguardanti lo stato sono svolti attraverso un apparato concettuale giuridico: parole chiave di questo apparato sono dominium, pactum, imperium, translatio e concessio imperii, mandatus, ecc.; il grande tema dei limiti del potere è un tema essenzialmente giuridico, dove si incontrano le note espressioni lex facit regem, rex sub lege, rule of law, Rechtsstaat, e così via. Il compito fondamentale dello stato, il cui carattere essenziale è la sovranità, è quello di condere leges, di creare il diritto, e renderne possibile, attraverso l’esercizio del potere coattivo, l’osservanza. Nonostante che l’opera da cui si fa cominciare la scienza politica moderna, il Principe di Machiavelli, non sia un’opera giuridica (ma il Principe è considerato dai contemporanei e dai successivi fautori e detrattori un’opera di arte politica più che di scienza), le grandi trattazioni sullo stato che accompagnano la formazione dello stato moderno sono di giuristi, da Bodin a Pufendorf. Sono in gran parte legisti i teorici della ragion di stato ed è tratta da una tipica argomentazione giuridica, la deroga dalla legge generale in casi eccezionali espressamente previsti, la interpretazione che ne danno. Filosofi come Hobbes e Locke e Kant, quando trattano il tema dello stato o del governo, adoperano categorie giuridiche, a cominciare da quella del contratto e dei vari tipi del contratto che sta a fondamento dell’origine e della stessa legittimità del potere politico. La trattazione kantiana dei problemi relativi allo stato avviene nella parte della Metafisica dei costumi che s’intitola Dottrina del diritto (Rechtslehre); quella hegeliana nell’opera intitolata Lineamenti di filosofia del diritto (Grundlinien der Philosophie des Rechts). Il Frammento sul governo di Bentham è un trattatello giuridico, con cui l’autore commenta e critica i Commentari al diritto inglese di Blackstone. Lo stesso Bentham persegue tutta la vita l’ideale della riforma della legislazione o della riforma politica attraverso la riforma delle leggi, ideale tipicamente illuministico.
    Un modo diverso di guardare alle cose della politica nasce coi primi economisti, alla fine del Settecento e coi primi sociologi all’inizio dell’Ottocento, con la scoperta da parte di entrambi della società economica o civile (nel senso di borghese) sottostante allo stato, di cui lo stato nel senso tradizionale della parola, come apparato e ordinamento giuridico, è solo il momento istituzionale. Sorge il problema: come nascono e come si trasformano le istituzioni a partire dalla società, dai rapporti economici, dai movimenti sociali? I giuristi non considerano lo stato dall’esterno, nel suo processo di formazione e di trasformazione attraverso i mutamenti che avvengono nella società. Lo guardano dall’interno dell’ordinamento giuridico, di cui studiano i meccanismi, i rapporti fra le varie parti della macchina, il suo funzionamento e il suo rendimento. L’analisi giuridica, esclusivamente giuridica, analisi delle strutture di per se stesse considerate, e sempre più distaccantisi dalla base reale, finisce nel trionfo del formalismo. Occorre allora affiancare, allo studio formale o formalistico (nella sua degenerazione) dello stato, un’analisi più attenta ai movimenti esterni, in una parola più realistica, che tenga conto dei dati che emergono dalle analisi delle scienze nuove, come l’economia e la sociologia. Così prende a poco a poco corpo e consistenza la scienza politica distinta dal diritto pubblico. Non a caso uno dei maggiori trattati di teoria generale dello stato del primo Novecento, un vero e proprio classico della scienza dello stato, l’Allgemeine Staatslehre di Georg Jellinek (1910), ampiamente adottato nelle nostre università in seguito alla traduzione italiana, divide la materia in due parti, rispettivamente chiamate dottrina sociologica e dottrina giuridica dello stato, anche se poi con Kelsen, suo allievo, il punto di vista formale viene condotto alle estreme conseguenze con la identificazione totale dello stato con l’ordinamento giuridico, o, con altre parole, con la giuridificazione totale dello stato.
    Nel corso dell’Ottocento non c’è trattato di scienza politica o di diritto pubblico che non si preoccupi di mettere in evidenza sia la distinzione fra le due discipline sia il loro nesso. Anche se di fatto le sovrapposizioni sono inevitabili giacché i confini sono incerti e probabilmente è molto più facile tratteggiarli su una mappa ideale che non rispettarli quando si scende in campo, vengono proposti vari criteri di distinzione. Uno dei più frequenti è quello che ricorre alla distinzione d’origine comtiana tra il momento dinamico e quello statico dello studio dei fatti sociali, tra la dinamica e la statica sociale: la scienza politica rappresenta il primo momento, il diritto pubblico il secondo. Questo criterio è accolto da Holtzendorff, il cui trattato Die Principien der Politik (1879), viene tradotto in francese col titolo Principes de la politique (1887) e con un sottotitolo, Introduction à l’étude du droit public contemporaine, di per se stesso una prova della perdurante commistione tra politica e diritto. Il criterio era stato suggerito dal Bluntschli, che nella Geschichte der neueren Staatswissenschaft, allgemeines Staatsrecht und Politik (la cui prima edizione risale al 1864), un trattato che sin dal titolo mostra la differenziazione e insieme la inevitabile congiunzione delle varie parti in cui si articola lo studio dello stato, distingue lo studio dell’ordinamento dello stato nella sua forma e nel suo sviluppo, lo Staatsrecht o diritto pubblico propriamente detto, dallo studio della mutevole vita dello stato o della prassi dello stato, la Staatswissenschaft, o scienza dello stato, che studia gli aspetti non giuridici o extra-giuridici dello stato.
    Non è qui il caso di domandarsi se questo o altri criteri siano accettabili e quale sia il più accettabile. Oggi la tesi che altro sia lo studio dello stato dal punto di vista giuridico, altro sia lo studio dello stato dal punto di vista sociologico, è un universalmente acquisito. Così com’è accolta, a dire il vero più in teoria che nella pratica, l’esigenza che, una volta riconosciuta la distinzione, i giuristi e gli scienziati politici trovino modo d’incontrarsi e non vadano ciascuno per la propria strada, com’è accaduto spesso in questi anni per influsso della scienza politica americana, formatasi completamente al di fuori della tradizione del diritto pubblico europeo.
    Queste rapide annotazioni, della cui incompletezza sono io stesso il primo a essere consapevole, anche se non penso di addurre a mia giustificazione la tirannia del tempo e dello spazio, perché la loro incompletezza dipende esclusivamente dalle lacune della mia conoscenza, hanno avuto lo scopo di mettere il lettore in condizione di avere almeno un’idea di tre problemi riguardanti rispettivamente il nome, lo statuto, la materia della scienza politica, quali Mosca si trovò ad affrontare quando si avventurò nell’impresa di scrivere un completo trattato di scienza politica.
    Ripercorrendo il cammino fatto sin qua, il primo problema è quello della scelta del nome. Mosca non ha, a questo riguardo, alcuna esitazione. Più che di scienza politica, egli osserva, oggi si parla, è vero, di scienze politiche, ma le scienze politiche sono, a suo giudizio, un coacervo da cui vanno emergendo a poco a poco scienze particolari e specialistiche, che debbono essere prese in considerazione di per se stesse e staccate una buona volta dal tronco comune. Una di queste scienze è l’economia politica che, «per la sicurezza e l’abbondanza dei risultati acquisiti, si lascia notevolmente indietro tutte le altre»[3]. Dove si vede che la ragione principale del distacco di una nuova scienza dal ceppo comune è la graduale sempre maggiore approssimazione all’ideale della scienza secondo il modello positivistico, i cui criteri essenziali sono il rigore del metodo e la fecondità dei risultati. Ora è venuto il momento, così egli ritiene, del distacco dal ceppo comune di un’altra scienza, quella che studia «le tendenze che regolano l’ordinamento dei poteri politici», ed è la scienza politica, che è quella, precisa, «che forma oggetto di questo lavoro»[4]. La definizione è tutt’altro che chiara e precisa, anche se viene ripetuta in seguito più o meno con le stesse parole: probabilmente Mosca ritiene che la natura di una scienza si riveli nel farla, nel farla in un certo modo piuttosto che in un altro. Le ragioni per cui sceglie questa denominazione sono tre: a) la sua antichità; b) il non essere caduta in disuso; c) altri nomi più adatti non vi sono soprattutto rispetto al nome troppo generico, che mostra di non amare, «sociologia».
    Per provare che l’espressione «scienza politica» non è caduta in disuso cita alcune opere del tempo, che peraltro non credo debbano essere prese in senso stretto come fonti del suo pensiero. Di queste opere abbiamo già incontrato in gran parte gli autori: Brougham, Holtzendorff, de Parieu, Pollock e Bluntschli, di cui erano state tradotte in italiano sia l’opera fondamentale, Die Lehre vom modernen Staat (1851-52), in tre volumi, Dottrina dello stato moderno (Napoli 1879-1883), sia la Politik als Wissenschaft (1876), in un volume, La politica come scienza (Napoli, 1879). Cita inoltre La politique expérimentale di Léon Donnat (Parigi 1885) e The Science of Politics di Sheldon Amos (Londra 1883)[5]. Degli autori italiani l’unico citato è Saverio Scolari, professore di diritto amministrativo e costituzionale, autore di una voluminosa opera di più di settecento pagine, oggi completamente dimenticata, Istituzioni di scienza politica, pubblicata a Pisa nel 1871, in cui vengono combinate nozioni di storia del pensiero politico con nozioni di storia delle istituzioni degli stati teocratici orientali sino alla rivoluzione francese, inquadrate in una teoria generale della politica e del progresso. Mosca ricorda una volta con onore la tesi di Scolari secondo cui lo studioso di scienze sociali non può prevedere ciò che accadrà ma può prevedere ciò che non può accadere perché contrario alla natura umana. È una tesi, questa, che a Mosca sta molto a cuore e che dice di aver appresa direttamente dalla bocca del «chiarissimo» collega[6].
    Per quel che riguarda lo statuto della scienza politica come scienza, la presa di posizione di Mosca è molto netta specie nei confronti della concezione della scienza politica come scienza normativa. Uno dei principali intendimenti di Mosca quando scrive gli Elementi è certamente quello di liberare la disciplina da ogni mira finalistica e da ogni preoccupazione immediatamente pratica. La scienza politica non è per Mosca una scienza normativa, il che non toglie che egli riveli le sue preferenze, per esempio, in favore del governo misto, e la sua fiducia nell’utilità della scoperta di alcune verità di fatto circa la natura dei governi per il miglioramento dell’azione politica.
    Se la scienza politica doveva essere scienza, doveva, secondo Mosca, adeguarsi ai canoni metodologici delle scienze empiriche o positive più progredite: raccogliere la maggior quantità possibile di dati dalla storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi, e trarne, là dove era possibile, delle leggi di tendenza. In conformità di un uso diffuso tra gli studiosi delle scienze morali (distinte dalle scienze fisiche per l’oggetto ma non per il metodo secondo il modello positivistico di scienza) egli chiamò il suo metodo «storico», ma avrebbe potuto chiamarlo, con espressione equivalente, positivo. Era perfettamente consapevole del fatto che una delle maggiori difficoltà che la scienza politica doveva superare rispetto alle scienze naturali era la maggior influenza, cui lo studioso di politica è sottoposto, dei pregiudizi, delle credenze, delle passioni politiche. Ma era anche convinto che lo scienziato dovesse mettere da parte i propri giudizi di valore quando si accingeva a fare ricerca, ed esercitare il proprio mestiere con quella onestà, con quella serenità che permette il necessario distacco dal proprio oggetto. Sarebbero state inconcepibili per lui le definizioni di scienza politica di cui ho dato prima qualche esempio, o quella data nella prefazione alla Biblioteca di Brunialti dal dottor Luigi Moriondo, direttore dell’Utet, secondo cui le scienze politiche «insegnano il modo di vivere liberi, colla più efficace guarentigia dell’eguaglianza giuridica e della giustizia, e per guisa che da questa guarentigia e dalle pubbliche libertà derivino il maggior benessere dei cittadini, la maggior grandezza e potenza degli stati» (pag. 5).
    Si può anche tranquillamente aggiungere che, dopo Mosca, nessuno in Italia avrebbe mai più fatto un’affermazione simile[7].
    Circa l’oggetto della scienza politica il contributo essenziale di Mosca è stato quello di separare una volta per sempre la scienza politica dal diritto pubblico o, per usare le espressioni abituali nelle università tedesche, la Staatwissenschaft dallo Staatsrecht. Questa separazione rispondeva, da un lato, a un’esigenza didattica, all’esigenza di evitare la ibrida mescolanza tra il punto di vista storico-sociologico e il punto di vista giuridico nello studio dello stato e di riflesso nei trattati di diritto pubblico, dall’altro lato alla necessità di favorire lo sviluppo autonomo di uno studio della politica che potesse tener conto dei progressi delle scienze sociali in generale.
    Bisogna anche dire che questa separazione della scienza politica dal diritto pubblico andò di pari passo con la separazione eguale e contraria del diritto pubblico dalla scienza politica e in genere dalla sociologia. Sulla scia della più progredita scienza del diritto tedesca, si affermò anche in Italia negli ultimi anni del secolo la scuola cosiddetta tecnica o formalistica del diritto pubblico che elevò a suo canone metodologico esclusivo il trattamento del diritto con «metodo giuridico», ovvero con quel metodo esegetico e ricostruttivo del diritto vigente (del diritto positivo contrapposto polemicamente al diritto naturale), che aveva permesso al diritto privato progressi nell’elaborazione concettuale e nella ricostruzione sistematica ignoti al diritto pubblico, contaminato, come si andava dicendo, da elementi estranei, giuridicamente spurii, tratti dalla storia, dalla sociologia e dalla filosofia. È del 1889 la famosa prolusione di Vittorio Emanuele Orlando all’Università di Palermo, in cui l’ancor giovane giurista, come il Mosca siciliano, del Mosca compagno di università, sostenne che le scienze del diritto pubblico interno dovevano essere ricondotte alla «loro vera natura di scienze giuridiche» secondo l’uso del diritto privato, perché sino allora troppo si era concesso alle «teorie puramente filosofiche», a quelle che egli chiamava goethianamente «il prologo in cielo», ad «un’eccessiva filosofia che ha nociuto così gravemente al carattere giuridico della scienza nostra»[8]. Che poi questa separazione così netta, e persino astiosa, abbia finito alla lunga per isterilire il diritto pubblico e per impoverire la scienza politica è cosa nota, tanto che ormai è avvenuta un’inversione di tendenza di cui non c’è di che rallegrarsi.
    Rispetto alla purezza della scienza politica nei riguardi del diritto pubblico, gli Elementi mantengono fede al proposito. Chi scorra anche soltanto l’indice dei capitoli ne trova uno soltanto che possa far pensare a una contaminazione con le scienze giuridiche: quello sulla «difesa giuridica». Ma leggendolo ci si rende subito conto che l’argomento è ancora una volta essenzialmente politico, di teoria politica nel senso tradizionale della parola, essendo il capitolo dedicato prevalentemente alla distinzione tra forme buone e forme cattive di governo e alla prima elaborazione della teoria del governo misto come la miglior forma di governo[9]. Tra l’altro, perché Mosca abbia chiamato «difesa giuridica» l’oggetto di questo capitolo non mi è mai risultato molto chiaro. Anche se per la qualità degli argomenti trattati gli Elementi sono difficili da definire e da far rientrare in una disciplina specifica, sta di fatto che essi non contengono neppure uno dei temi di solito trattati nei manuali di diritto pubblico. Più che lo stato nei suoi tradizionali elementi costitutivi, il popolo, il territorio, la sovranità, e nei suoi differenti e distinti poteri, legislativo, giudiziario, esecutivo, l’oggetto principale dell’opera è l’organizzazione della società nei suoi soggetti primari (la classe politica), negli strumenti di controllo (la formula politica e la difesa giuridica), nei movimenti e nelle istituzioni che contribuiscono sia alla sua stabilità interna o alla sua dissoluzione (un capitolo è dedicato al fenomeno delle rivoluzioni) sia alla sua difesa esterna (l’ultimo capitolo è dedicato alla guerra e all’esercito). Per la sua novità, e anche per la non ancora raggiunta autonomia a quei tempi della scienza politica, il libro di Mosca è difficile da comparare con altre opere che recano lo stesso titolo o titoli affini. Ad ogni modo è completamente diverso dalle opere di diritto pubblico contemporanee e successive, ma anche dai trattati che verranno di poi di dottrina dello stato, una disciplina universitaria nella quale si eserciteranno con esiti diversissimi un giurista come Giorgio Balladore Pallieri e uno storico delle dottrine politiche come Alessandro Passerin d’Entrèves.
    Per conoscere quale fosse lo stato delle scienze politiche in Italia negli anni in cui Mosca scrisse gli Elementi abbiamo fortunatamente a disposizione uno strumento eccezionale, la già più volte citata Biblioteca di scienze politiche, promossa e curata da Attilio Brunialti (1849-1920), professore di diritto costituzionale anche all’Università di Torino, dove insegnò dal 1881 al 1893 e dove ebbe come successore Mosca, nonché uomo politico (deputato in nove legislature). La Biblioteca fu pubblicata dalla casa editrice torinese, già menzionata, l’Utet, che era la stessa casa editrice della notissima Biblioteca dell’economista, giunta allora con la terza serie al quarantesimo volume e della quale la nuova biblioteca fu una non meno importante, a che se meno fortunata, imitazione. Il primo volume apparve cent’anni fa, nel 1884, ma la premessa al primo volume, del dottor Moriondo, che ricollega esplicitamente questa nuova impresa a quella precedente, la Biblioteca dell’economista, nata nel 1850, reca la data 1° maggio 1883. Ne usciranno tre serie: la prima in otto volumi divisi in undici parti dal 1884 al 1892; la seconda, intitolata Biblioteca di scienze politica e amministrative, in dieci volumi divisi in undici parti dal 1894 al 1914; la terza, nella quale si aggiungono, nella direzione al Brunialti, Oreste Ranelletti e Giulio Cesare Buzzati, in otto volumi usciti tra il 1914 e il 1915.
    Brunialti premise al primo volume il lungo saggio già menzionato La scienza politica nello stato moderno, e scrisse introduzioni e commenti nei volumi successivi, spaziando da un argomento all’altro. Appartenente alla scuola precedente all’avanzata del formalismo giuridico, riteneva che scienza politica e diritto pubblico fossero strettamente congiunti e inseparabili: lo stato, diceva, ha una faccia politica e una faccia giuridica, ma quella politica presuppone il diritto in quanto il diritto pone le condizioni indispensabili dell’azione concreta e normale della politica. Questa impostazione generale dei rapporti fra scienza politica e diritto pubblico spiega perché nella sua grande raccolta egli accogliesse opere politiche e giuridiche in una sintesi che si può giudicare eclettica, ma tuttavia altamente benemerita per lo sviluppo degli studi politici e giuridici nel nostro paese.
    Per sottolineare l’importanza dell’impresa mi limito a qualche accenno nella speranza che qualche giovane di buona volontà ne faccia uno studio ampio e sistematico. Nel secondo tomo della prima parte compare la prima traduzione italiana de La democrazia in America di Tocqueville; nel secondo tomo del quarto volume c’è La tattica parlamentare di Bentham, nel quinto compaiono La libertà di John Stuard Mill e il saggio di Constant su La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni. Due volumi raccolgono scritti vari sul sistema parlamentare e in genere sulle istituzioni inglesi. Un volume è dedicato alle istituzioni degli Stati Uniti, un altro comprende scritti sullo stato federale, oltre al saggio di Humboldt sui limiti dell’azione dello stato e al libro di Gneist sullo stato secondo il diritto nonché all’opera di Lorenz von Stein sulla scienza dell’amministrazione. Un volume intero è dedicato alle costituzioni del Giappone, dell’Australia, dell’Ungheria, della Svezia, della Finlandia, della Turchia. Negli ultimi volumi apparsi alle soglie della prima guerra mondiale, che interrompe definitivamente la grande e insuperata impresa, si trovano testi di Laband, di Triepel, e nientemeno Lo stato di Woodrow Wilson, per due volte presidente degli Stati Uniti (1912-1920).
    Su questi volumi si formò un’intera generazione di studiosi, quella che assistette alla crescita dello stato liberale italiano dopo l’Unità, e ne vide e in molti casi ne decretò la morte (o cercò di giustificarla). Come la maggior parte dei giuristi italiani che pure si consideravano liberali, e non erano affatto culturalmente dei provinciali, abbiano poi messo la loro dottrina al servizio dell’instaurazione di una dittatura che stravolse lo statuto senza mai considerarlo abrogato, è una storia che non è ancora stata raccontata come meriterebbe.
    Brunialti apparteneva alla schiera dei costituzionalisti della vecchia scuola sui quali cadde inesorabile la condanna dei neóteroi. Insieme coi suoi scritti è stata sepolta nelle biblioteche la sua coraggiosa raccolta di testi, che per ampiezza, continuità (è durata ininterrottamente trent’anni), importanza degli scritti pubblicati non ha avuto eguali anche negli anni più recenti, in cui molte sono state le traduzioni ma senza una veduta d’insieme.
    Non miglior fortuna del resto spettò alla scienza politica, così com’era stata concepita e svolta da Mosca nei suoi Elementi. Non mi riferisco alla teoria della classe politica che fu accolta ed esaltata da studiosi insigni e di diverso orientamento come Croce, Einaudi, Salvemini, Guglielmo Ferrero, Michels, sino a Dorso, Filippo Burzio, Gobetti. Mi riferisco alla scienza politica come disciplina che fu travolta dal nuovo metodo giuridico prima ancora che dal fascismo che, come tutti gli stati polizieschi di questo mondo, non poteva permettere il libero sviluppo delle scienze sociali. Come scrissi alcuni anni fa, «i miti su cui il fascismo si reggeva e ai quali affidò il proprio prestigio di fronte alla folla acclamante erano troppo rozzi perché potesse sopportare il controllo di una disinteressata ricerca scientifica»[10]. Ma aggiunsi anche, e credo di poter ripetere ora senza modificare il mio pensiero, che il fascismo aveva ucciso un uomo morto. Lo studio e l’insegnamento relativi allo stato furono monopolio esclusivo dei giuristi. Non furono istituite cattedre di scienza politica bensì di dottrina dello stato con la precisa intenzione di farle diventare luoghi, se non proprio di propaganda politica di un regime che aveva fatto del ripristino dell’autorità dello stato il suo punto di onore, per lo meno di rinnovate rivendicazioni della maestà dello stato[11].
    A quanto mi risulta la scienza politica non fu insegnata neppure nell’Istituto superiore di scienze sociali Cesare Alfieri, fondato nel 1888 sulla precedente Scuola di scienze sociali, inaugurata nel 1875. Dalla relazione del sottocomitato esecutivo sull’ordinamento degli studi (recante la data dell’11 giugno 1874) risulta una notevole prevalenza delle materie giuridiche. Compare anche una strana disciplina che si chiama Letteratura politica e viene giustificata dalla constatazione che non si può disgiunguere l’insegnamento delle scienze e dell’arte dello stato dallo studio delle lettere. Segue una tirata contro l’eccesso di scienza, onde la nuova cattedra, che probabilmente non aveva precedenti e non ha avuto molta fortuna (fortunatamente!), viene presentata come «nobile ed elevata protesta contro la tendenza di un’epoca che spregia ogni cultura scientifica che non serva a ingrassare la gente». La tirata continua contro la corsa precipitosa verso il benessere di una società «desiderosa della scienza solo per l’utile che può ricavarsene dall’applicazione»[12].
    Poche parole infine sulla rinascita della scienza politica dopo la caduta del fascismo. Poche parole, perché ho trattato l’argomento nel 1960 per il volume Politische Forschung, edito dalla Freie Universität di Berlino per iniziativa del prof. Otto Stammer, e non avrei molto da aggiungere. L’atto di nascita o meglio di rinascita può essere considerata l’uscita del primo fascicolo della rivista «Il Politico» (1950), diretta da Bruno Leoni, il quale insegnava peraltro dottrina dello stato. In occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico a Pavia nel 1950 pronunzia un discorso programmatico, Scienza politica e azione politica, in cui lamenta che troppi problemi politici siano sottratti all’analisi scientifica e incoraggia gli studi politici in polemica, da un lato, contro il formalismo giuridico, dall’altro contro il dilettantismo e l’improvvisazione dei politici[13]. Nel 1952 appare la rivista «Studi politici» presso l’Università di Firenze: nel primo numero Giovanni Sartori pubblica un articolo, Scienza politica e conoscenza retrospettiva, che è già di per se stesso un programma per il rinnovamento degli studi politici, cui segue, l’anno dopo, sempre sulla stessa rivista, un articolo intitolato Filosofia della politica e scienza empirica della politica, in cui sostiene che la scienza empirica per farsi strada avrebbe dovuto liberarsi dalla soggezione alle ideologie, da un lato, e dalla filosofia politica, dall’altro.
    Tanto io che Leoni, nelle nostre rassegne sulla scienza politica rinnovata, uscite contemporaneamente[14], avevamo stranamente dimenticato l’intervento presentato da Giuseppe Maranini al primo Congresso di studi metodologici svoltosi a Torino nel dicembre 1952 (dico «stranamente», perché entrambi eravamo tra i promotori di quel congresso). In questo intervento, intitolato Legittimità della scienza politica, Maranini si domandava giustamente perché mai la legittimità della scienza politica fosse stata continuamente messa in questione, essendo evidente a chiunque abbia un minimo di conoscenza della storia della scienza che qualsiasi ordine di fenomeni può essere oggetto di ricerca metodologicamente condotta, di quel tipo di ricerca in cui si fa consistere la scienza distinta dall’opinione. Precisava: «Ammetto senz’altro l’estrema difficoltà e l’immaturità attuale della scienza della politica; ma ciò non ha nulla a che vedere con il problema della sua legittimità scientifica»[15].
    L’osservazione, ripeto, era giustissima, ma il fatto stesso che negli anni cinquanta il problema della legittimità della scienza politica fosse ancora aperto tanto da essere proposto come tema di discussione in un congresso di studi metodologici, è una riprova dell’arretratezza in cui versavano ancora questi studi in Italia, che pure avevano avuto nell’opera di Mosca più di cinquant’anni prima un promettente inizio. Senza contare che fra la legittimità e l’effettività, come ben sanno i giuristi, il passo è ancora molto lungo, tanto che non è detto che un potere per il solo fatto di essere legittimo sia anche effettivo, come accade ai sovrani in esilio. Se poi questo sovrano in esilio che fu per tanti anni la scienza politica (gli Elementi di Mosca furono tradotti, com’è ben noto, negli Stati Uniti nel 1939, nell’anno in cui in Italia s’inaugurava la Camera dei fasci e delle corporazioni) sia diventata anche sovrana di fatto è giudizio che lascio ad altri.
    Per quel che mi riguarda mi pare che lo stato di salute della scienza politica sia buono, nonostante sia cresciuta molto in fretta. La crisi del formalismo giuridico ne ha favorito lo sviluppo. Del resto, se la separazione tra scienza politica e diritto pubblico, la loro reciproca autonomia, possono essere state utili in una certa fase del loro sviluppo, oggi è assai più utile la loro conoscenza reciproca e pertanto auspicabile la loro collaborazione.

    https://musicaestoria.wordpress.com/...-sartori-1985/



    [1] H. Maier, Die ältere deutsche Staats- und Verwaltungslehre, Luchterhand, Neuwied am Rhein, 1966, p. 13. Richiamo l’attenzione sul fatto che quest’opera ha per sottotitolo Ein Beitrag fur Geschichte der politischen Wissenschaft in Deutschland, dove è impiegata l’espressione «scienza politica» al singolare. Di fondamentale importanza sul tempo l’opera di P. Schiera, Il cameralismo e l’assolutismo tedesco, Milano, Giuffrè, 1968, che ha per sopratitolo Dall’arte di governo alle scienze dello stato, ove è usato il plurale anziché il singolare. Mi limito qui a ricordare che nella rassegna delle fonti d’autore cita tre autori della prima metà del Settecento, Peter Gasser, Christoph Dithmar, Friedrich Ulrich Stisser, che scrissero trattati di oeconomisch-politisch-kameral-Wissenschaften, disciplina che era stata istituita con questo nome da Federico Guglielmo I di Prussia nella prima metà del Settecento nelle università di Halle e di Francoforte sull’Oder.
    [2] Accanto alla tradizione greca e a quella romana ha influito sul corso del pensiero politico europeo anche quella ebraica. Ma il grande serbatoio di esempi degli scrittori politici che traevano dalla lezione della storia insegnamenti per il loro tempo sono state la storia greca e quella romana più che quella ebraica, anche se occorrerebbe una ricerca circostanziata (che non so se sia mai stata fatta). Si prendano autori famosi come Grozio, Pufendorf, Bodin, sino a Rousseau, e si veda quanti siano gli esempi tratti da scrittori classici e quanti dalla Bibbia. Un libro come quello di Bossuet, Politique tirée des propres paroles de l’Ecriture sainte (seconda metà del Seicento) è un caso piuttosto singolare che non ha mai esercitato un’influenza paragonabile a quella dei commentatori della storia romana, da Machiavelli a Montesquieu.
    [3] G. Mosca, Elementi di scienza politica, in G. Mosca, Scritti politici, a cura di G. Sola, Utet, Torino 1982, vol. II, p. 551.
    [4] Op. cit., p. 552.
    [5] Per l’elenco di queste opere vedi la nota di G. Sola, all’ediz. degli Elementi, cit., p. 552, n. 6. Non c’è da stupirsi che Mosca citasse opere tedesche pur essendo accertato che non sapeva il tedesco: così S. Segre, Mosca e Weber. Ricostruzione ipotetica dei rapporti intellettuali e analisi comparata delle teorie politiche, Ecig, Genova 1984, p. 40, nota 9. Come si è visto, delle opere tedesche citate da Mosca esistevano traduzioni francesi o italiane.
    [6] G, Mosca, Elementi, ediz. cit., p. 875.
    [7] Sul modo d’intendere la scienza politica da parte di Mosca rinvio al mio articolo Gaetano Mosca e la scienza politica (1960), in Saggi sulla scienza politica in Italia, Laterza, Bari 1977, pp. 177-198, e all’analisi di G. Sola, nella Introduzione all’edizione degli Scritti politici di Mosca, cit., p. 32 e ss.
    [8] V. E. Orlando, I criteri tecnici per la ricostruzione giuridica del diritto pubblico, che cito dall’ediz. del 1925, a cura dell’Università di Modena, pp. 2 e 9. Orlando si richiamava a due suoi scritti precedenti, la prolusione modenese, Ordine giuridico e ordine politico, 1885, e la prolusione messinese, Sulle necessità di una ricostruzione giuridica del diritto costituzionale, 1886. Sui rapporti fra Mosca e Orlando, M. Fioravanti, Mosca e Vittorio Emanuele Orlando. Due itinerari paralleli (1881-1887), in AA. VV., La dottrina della classe politica di Gaetano Mosca ed i suoi sviluppi internazionali, Società italiana per la storia patria, Palermo 1982, pp. 349-366.
    [9] Su questo tema mi sono soffermato più a lungo nell’articolo Mosca e il governo misto, in AA. VV., Governo e governabilità nel sistema politica e giuridico di Gaetano Mosca, a cura di E. A. Albertoni, Giuffrè, Milano 1983, pp. 19-38.
    [10] N. Bobbio, Teoria e ricerca politica in Italia, in «Il Politico», XXVI, 1961, p. 217.
    [11] Durante gli anni dell’insegnamento torinese, Mosca ebbe per incarico la cattedra di scienza politica presso l’Università Bocconi di Milano, tra il 1918 e il 1923, oltre quella di diritto costituzionale amministrativo tra il 1902 e il 1918. Su questa vicenda vedi S. Violante, Vent’anni di magistero di Gaetano Mosca nell’università commerciale Luigi Bocconi di Milano, in AA. VV., La dottrina della classe politica, cit., pp. 423-433.
    [12] Traggo queste notizie e le gustose citazioni da G. Spadolini, Il Cesare Alfieri nella storia d’Italia, Le Monnier, Firenze 1976, p. 148.
    [13] In «Annuario dell’Università di Pavia» (anno accademico 1949-50), pp. 19-37.
    [14] Quella di Leoni, intitolata significativamente Un bilancio lamentevole: il sottosviluppo della scienza politica in Italia, fu pubblicata da «Il Politico», XXV, 1960, pp. 31-41.
    [15] G. Maranini, Legittimità della scienza politica, in «Atti del Congresso di studi metodologici», promosso dal Centro di studi metodologici, Torino, 17-20 dicembre 1952, Edizioni Ramella, Torino 1954, pp. 332-335.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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