di Leo Valiani – «Mondoperaio», gennaio 1974, pp. 49-52

I passi in avanti che il movimento socialista e comunista ha compiuto, dal 1914 ad oggi, nella maggior parte del globo, sono immensi. Lo scoppio della prima guerra mondiale sembrava aver piegato i partiti socialisti. Coloro che, nelle nazioni belligeranti, resistettero all’«unione sacra» erano ben pochi. Mezzo secolo dopo la fondazione della Prima Internazionale, i militanti che si riunirono a Zimmerwald per denunciare il fallimento della Seconda Internazionale e ricominciare da capo, non arrivavano, osservò Trotski, a due dozzine. Un solo partito legale, avente un sicuro seguito di massa – il Partito socialista italiano – aderì ufficialmente alla conferenza internazionalista.
Prevalevano, fra gli internazionalisti, i rappresentanti di partiti illegali o di minoranze apparentemente esigue di partiti legali. S’intende che, seppure Lenin auspicasse il contrario, del movimento operaio reale continuavano a far parte altresì i partiti socialisti o socialdemocratici che avevano votato per i crediti militari. Essi conservavano quasi dappertutto in Europa la fiducia delle organizzazioni sindacali dei lavoratori e, anzi, in Francia la conquistarono per la prima volta. In Inghilterra il partito laburista, che rappresentava direttamente i sindacati, si fece, durante la guerra, molto più risolutamente socialista di come non fosse stato per l’addietro. Ma, dovunque, il conflitto aveva dapprima diminuito le dimensioni numeriche e il peso politico e sociale dei partiti e sindacati operai.
Questa situazione mutò con la rivoluzione russa del 1917. Se ci domandiamo il perché dei guadagni, certo non rettilinei, ma pur sempre enormi che i partiti comunisti hanno fatto a spese dei partiti socialisti, la risposta conforme al vero non risiede nella superiorità ideologica del leninismo, che in realtà è stato radicalmente cambiato dallo stalinismo e dal post-stalinismo, ma nella vittoria dei bolscevichi, guidati da Lenin e Trotski, nell’ottobre 1917. Lenin credeva appassionatamente nella propria interpretazione ideologica del marxismo. Marx, peraltro, aveva già ammonito a non giudicare né un uomo, né una formazione sociale da quel che pensano di se stessi. Lenin era un capo d’eccezione, come ne nascono pochi nei secoli, i bolscevichi erano dei rivoluzionari a tutta prova, stretti in un’organizzazione ferrea. Ma Lenin morì prematuramente e quasi tutta la vecchia guardia bolscevica fu fatta assassinare da Stalin. Questa terribile tragedia trasformò la dittatura del partito rivoluzionario, che sin dal 1919-20 aveva preso il posto della dittatura del proletariato, in un regime totalitario, che neanche le drammatiche denunce di Kruscev hanno veramente scalfito, ma solo reso più tollerante. Il monopolio del potere è rimasto nelle mani del gruppo oligarchico che si autoelegge e si automodifica nella direzione del partito comunista. Il paese, da paese sconfitto, arretrato, in sfacelo, s’è invece trasformato in una delle due gigantesche superpotenze mondiali.
L’U.R.S.S. ha imposto il proprio regime – per certo socialista se per socialismo s’intende la statizzazione dei mezzi di produzione, per nulla socialista se per socialismo s’intende il libero autogoverno dei lavoratori in una società d’uomini liberi che abbia eliminato ogni e qualsiasi oppressione e privilegio – là dove sono giunti i suoi eserciti. Rivoluzioni socialiste, o sedicenti tali, hanno vinto anche in numerosi altri paesi. Ma sempre in paesi che con la Russia avevano in comune l’estrema miseria della stragrande maggioranza della loro popolazione, l’assenza, nel mezzo d’essa, d’una larga e robusta classe media. Ciò ha confermato la validità d’una delle tesi fondamentali di Marx, che per l’appunto scontava la nascita del processo sociale rivoluzionario a seguito della miseria delle masse. Non ha confermato, invece, l’altra sua previsione, quella della proletarizzazione dei ceti medi nelle società capitalistiche avanzate, o meglio l’ha confermata nel senso che l’industria capitalistica ha davvero soppiantato il vecchio artigiano (e, con qualche ritardo, la piccola proprietà dei coltivatori diretti sta scomparendo nelle campagne), ma l’ha smentita attraverso la crescita di nuovi ceti medi, molto più numerosi e solidi dei padroncini artigiani d’un tempo. Il proletariato vero e proprio, insomma, è diventato sempre più la grande maggioranza della popolazione nei paesi sottosviluppati o arretrati, ma lo è sempre di meno nei paesi industriali.
Chi deplora l’incapacità finora dimostrata dai partiti socialisti e comunisti europei, operanti in nazioni industrializzate, o in via di avanzata industrializzazione, di conquistare il potere e dare l’avvio al passaggio dall’economia capitalistica all’economia socialistica, dovrebbe ricordarsi di questa dinamica obiettiva, strutturale, che specie per gli adepti del materialismo storico condiziona tutto il resto. Si aggiunga – e anche questo ci pare conforme ai canoni del marxismo – che mentre le società prevalentemente precapitalistiche, o di capitalismo coloniale, possono essere anche rivoluzionate da un’esplosione nazionale interna, che le liberi, se mai, da una dominazione straniera (ma, in realtà, anche le loro rivoluzioni si sono svolte col favore della situazione internazionale: così grazie all’andamento della prima guerra mondiale per quanto concerne la Russia, al peso della vittoria dell’U.R.S.S. nella seconda guerra mondiale per quanto concerne la Jugoslavia e la Cina, all’influenza dell’U.R.S.S. medesima, o della Cina, da allora ad oggi, e via dicendo), le nazioni industriali sono soggette ad un’interdipendenza economica supernazionale che rende difficile il superamento del loro regime sociale su scala esclusivamente interna.

Le occasioni perdute della sinistra europea

Con questa premessa – che vuole solo mettere in guardia contro il velleitarismo di chi crede che la rivoluzione sia sempre fattibile, purché la si voglia – non neghiamo che degli errori politici ed organizzativi anche gravissimi, oltre che delle remore psicologiche, hanno costantemente inceppato l’azione dei partiti socialisti e comunisti. Per cominciare, essi non seppero sfruttare adeguatamente il potente slancio che la rivoluzione in Russia e la sorda o palese ribellione delle masse, stanche del prolungato massacro e delle prolungate privazioni, avevano dato al movimento operaio, quale che fosse il suo orientamento, riformista o rivoluzionario, a partire dall’ultimo anno della grande guerra. Il 1914 lo aveva visto prostrato, il 1918 lo vide risorgere ed espandersi. Così accade di nuovo nel 1945 rispetto al 1939.
Se esaminiamo la storia dei partiti socialisti in Italia e, per esempio, in Francia, non tardiamo ad accorgerci che le loro deficienze più gravi si sono regolarmente avute sul terreno organizzativo. Le condizioni obiettive potrebbero essere favorevoli, le ideologie e le politiche potrebbero essere ottime, ma se poi mancasse l’organizzazione, non si combinerebbe nulla di solido. I partiti socialisti italiano e francese hanno tardato molto ad apprendere questa lezione che i partiti comunisti di questi due paesi hanno, invece, rapidamente assimilato dal bolscevismo. Abbiamo già notato che del leninismo originario ben poco è sopravvissuto, ideologicamente e politicamente, nell’U.R.S.S., ma la preminenza che esso dava alla sistematicità degli sforzi organizzativi è non solo sopravvissuta, sibbene è stata ininterrottamente potenziata, da Stalin a Brezhnev.
Tuttavia, da sola, neppure l’organizzazione è bastevole. Il partito comunista tedesco si vantava fino al 1932, di avere una buona organizzazione, ma crollò rapidamente, al principio dell’anno successivo, sotto i colpi del governo hitleriano. La socialdemocrazia tedesca aveva un’organizzazione ancora molto più efficiente, e soprattutto radicata da molto più tempo nelle masse dei lavoratori. Anch’essa crollò verticalmente. Il partito comunista tedesco credeva follemente che il suo nemico principale fosse la socialdemocrazia. Questa comprendeva meglio che il nemico principale era il nazismo, ma pensava che si potesse contenerlo, pur rimanendo costantemente sulla difensiva. Alla spaventosa crisi economica, che aveva portato il numero dei disoccupati in Germania a più di sei milioni, e che ingrossava l’elettorato e i ranghi del partito nazionalsocialista di Hitler, la socialdemocrazia si limitava a contrapporre la politica del meno peggio, che poteva significare, di volta in volta, sia la difesa rigida della legislazione sociale (e ciò la portò, nel 1930, con una decisione che fu fatale, fuori del governo), sia delle concessioni alle richieste degli altri partiti costituzionali, in linea di massima antinazisti; ma non si risolse a farsi banditrice d’una politica economica espansionista, volta al debellamento diretto della disoccupazione. In realtà la socialdemocrazia tedesca era ancora traumatizzata dall’inflazione galoppante del 1923. Inoltre, la sua comprensione dei fenomeni monetari era scarsa. Del resto neanche il governo laburista inglese del 1929-31, che pure non poteva non conoscere le idee di Keynes, osò adottare una politica espansionistica, che supponeva la svalutazione della sterlina, e naufragò sullo scoglio della crisi finanziaria.
La mancanza d’una politica economica costruttiva non sarebbe bastata tuttavia ad impedire alla socialdemocrazia tedesca di tentare la difesa fisica del regime democratico. I suoi militanti avevano creato una forte, anche se insufficientemente armata organizzazione paramilitare repubblicana. I dirigenti del partito socialdemocratico e dei sindacati operai non osarono, però, chiamarla al combattimento. Non osarono perché erano bensì antinazisti, ma non volevano accettare l’ovvia conclusione che il nazismo poteva essere sconfitto, in quella congiuntura, solo attraverso la guerra civile. Il partito comunista tedesco accoglieva la tesi della guerra civile nel proprio programma, e l’aveva tentata nel 1919-23, ma come guerra civile, ben più seria, contro un movimento totalitario come il nazismo, anche i comunisti erano assolutamente impreparati.
Dalla lezione della vittoria del fascismo italiano, né i socialdemocratici, né i comunisti tedeschi avevano imparato nulla. Orgogliosamente, essi pensavano che in un paese industriale come la Germania la classe operaia avrebbe saputo dimostrare ben altra capacità di resistenza che in un paese agricolo arretrato come l’Italia. Non possiamo neppure flagellarli troppo per questa sciagurata ingenuità, poiché la crisi che nel 1924, all’indomani dell’assassinio di Matteotti, s’era aperta nel governo fascista, aveva trovato egualmente impreparati i comunisti e i socialisti italiani d’ambo i partiti, il massimalista e l’unitario o riformista.
La consapevolezza della lotta armata che bisognava opporre al fascismo o nazismo, e della preliminare necessità dell’unità di fronte di tutti i movimenti antifascisti, si fece strada nel 1934, in Francia e in Spagna, e la socialdemocrazia austriaca diede per prima l’esempio, purtroppo tardivamente, dopo fatali esitazioni. Solo gli spagnoli furono tuttavia capaci di cimentarsi in massa, grazie anche all’iniziativa dell’anarchismo ivi molto forte, nella guerra civile, alla condotta della quale l’U.R.S.S. finì col recare, almeno per qualche tempo, il suo aiuto. In Francia, la questione della lotta armata antifascista non tardò a spostarsi dal terreno interno su quello internazionale, come scelta fra la capitolazione davanti agli aggressori nazisti o fascisti, in nome del pacifismo, sacrosanto in passato, ma fattosi poi anacronistico e controproducente, e la decisione d’opporre, occorrendo, volontà di guerra totale a volontà di guerra totale. Nel partito socialista francese il pacifismo prevalse nel non-intervento in Spagna e più ancora davanti a Monaco. Il partito comunista francese risollevò, con minore sincerità di convinzione, la bandiera pacifista all’indomani del patto Hitler-Stalin. L’anacronismo ideologico del socialismo pacifista e gli interessi particolari dell’U.R.S.S. contribuirono così a disarmare il movimento operaio francese nel 1939. Il laburismo inglese, che pure era stato pacifista a lungo, si riscosse in tempo utile. La dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania hitleriana, che fu il grande punto di svolta, era dovuto largamente alle pressioni del laburismo resosi consapevole della posta in giuoco.
La vittoria del 1945, nella quale l’U.R.S.S. aveva parte determinante, il prestigio riacquistato dai socialisti e dai comunisti nei vari movimenti di Resistenza, il successo, superiore ad ogni aspettativa, dei laburisti alle prime elezioni generali postbelliche, la loro nuova politica economica, keynesiana e nazionalizzatrice nello stesso tempo, la loro rinuncia alla dominazione sull’India, che inaugurava la fine di tutti gli imperi coloniali, parvero significare un cammino più rapido e sicuro verso il socialismo. Ma lo schiacciamento staliniano dei partiti socialisti o socialdemocratici nell’Europa orientale, l’allinearsi degli analoghi partiti dell’Europa occidentale, nella guerra fredda, sotto la bandiera d’una crociata anticomunista, interruppero nel vecchio continente questo svolgimento. Esso ha ripreso ad operare con la fine, non sappiamo se provvisoria o definitiva (i contrasti di fondo non essendo stati appianati ancora), della guerra fredda medesima.
Sicuramente, i partiti socialisti e comunisti dell’Europa occidentale, con la parziale e temporanea eccezione del partito laburista inglese, furono poco audaci nel 1945-46, finché la situazione era in qualche modo rivoluzionaria. In situazioni rivoluzionarie ancora molto più acute erano già stati poco audaci, nel 1919-20, il partito socialista italiano e il partito socialista indipendente di Germania (la socialdemocrazia tedesca maggioritaria s’era addirittura schierata, allora, contro la rivoluzione che pure le aveva consegnato le redini del governo), nel 1923 il partito comunista tedesco, nel 1936 il partito socialista e il partito comunista francese. Senza audacia – aveva già spiegato a suo tempo Lenin – di rivoluzioni non se ne fanno. Nel maggio 1968 è molto dubbio se la situazione fosse rivoluzionaria a Parigi. Ma non v’ha dubbio che il partito comunista francese non diede prova d’audacia neanche in quell’occasione.
Non sono meno frequenti, tuttavia, i casi in cui i partiti socialisti e comunisti hanno mancato di prudente realismo, in situazioni nelle quali successi elettorali parziali li avevano portati nell’area di governo. Troppe volte la loro politica è stata improntata a faciloneria, alla richiesta o all’accettazione di spese eccessive e di misure improduttive e costose. Non sempre hanno capito tempestivamente che l’inflazione non meno della deflazione impoverisce, e indebolisce, la classe operaia, isolandola dai ceti medi. Già nel 1936-37 la politica economica del governo francese di Fronte popolare fu paralizzata dall’inflazione ch’esso non aveva previsto mentre la legge sulle 40 ore non consentiva l’aumento della produzione in un paese mancante di mano d’opera qualificata.

Il socialismo come coscienza critica dell’industrializzazione

Dagli errori strategici e tattici si può tuttavia ricavare una esperienza accresciuta. Il problema dei problemi è quello dei modi in cui il socialismo risponde, o cerca di rispondere, alle nuove esigenze di sviluppo della società. Prima ancora di Marx, con Owen, con Saint-Simon e i suoi discepoli, e poi, naturalmente, con Marx ed Engels, il socialismo si fece moderno, identificandosi con le esigenze umane, razionali, del progresso industriale, criticando vuoi le deformazioni capitalistiche di questo processo (e denunciando le sofferenze che causava alle masse), vuoi le barriere che la proprietà capitalistica dei mezzi di produzione (con tutte le sue conseguenze anarchiche ed antagonistiche) opponeva al suo sviluppo ininterrotto ed illimitato.
Il socialismo era, così, la coscienza critica dell’industrializzazione. In Russia, diventò l’ideologia stessa dell’industrializzazione, la cui parte di gran lunga più cospicua fu effettuata dopo la conquista bolscevica del potere. Stalin commise i mostruosi delitti che commise, ma nella storia il suo posto di costruttore resta assicurato per il ciclopico contributo che ha dato, anche se non senza spaventosi sprechi, all’industrializzazione di quel vastissimo paese (per non dire del suo apporto, per quanto recentemente discusso da parte degli stessi studiosi sovietici, alla vittoria militare sulla Germania nazista). Non che tutti gli oppositori di Stalin fossero scettici circa la possibilità d’una rapida industrializzazione della Russia. Sulle orme di Lenin, proprio Trotski e l’economista Preobrazhenski, suo collaboratore, l’avevano auspicata per primi. Ma poi, nonostante la teoria di Preobrazhenski sull’accumulazione primitiva socialista, Trotski reclamò l’industrializzazione assieme all’aumento dei salari reali, e non solo di quelli cartacei, degli operai. Le due esigenze, nelle cose, che sono dure, mentre la carta si lascia facilmente scrivere, avrebbero potuto andare di pari passo se l’industrializzazione fosse stata lenta, il che era ammesso da Bukharin, ma non da Trotski. L’inconcludenza dei suoi rivali fece il giuoco di Stalin. Sotto il suo pugno di acciaio, l’industrializzazione fu compiuta rapidamente, sebbene con paurose storture e col brutale sacrificio dell’agricoltura, collettivizzata di prepotenza, ma impedita di progredire.
In Europa come nell’U.R.S.S., che è anche in Europa, l’industrializzazione è oggi, grosso modo, compiuta. Non occorre dire come lo sia da tempo negli Stati Uniti d’America. Ci sono delle terre in cui il progresso industriale è rimasto assai indietro, così nel nostro Meridione, così in certe regioni d’altri paesi europei, anche nell’U.R.S.S., europea ed asiatica. Ma, nell’insieme, s’è avverata l’affermazione di Marx che il paese industrialmente più avanzato mostra il loro domani ai paesi che s’industrializzano. Lo sviluppo industriale aveva cominciato col creare una permanente grossa «armata di riserva» di senza lavoro, ma successivamente (cosa che Marx non poté più verificare) ha avviato i paesi, nei quali s’è effettuato, verso il pieno impiego e financo verso la scarsezza di mano d’opera. Ciò ha dato una poderosissima forza contrattuale alle organizzazioni sindacali e indirettamente, quando hanno basi di massa fra i lavoratori, ai partiti socialisti o comunisti. Bisogna che sappiano usarne, senza segare l’albero su cui sono seduti e dunque, fuori di metafora, senza ignorare che il pieno impiego medesimo genera delle pressioni inflazionistiche, che vanno controllate, con la programmazione e con altre misure. In un’economia di mercato (ma l’inflazione preoccupa, giustamente, anche i pianificatori delle economie interamente statizzate), dal pieno impiego, specie se solo recentemente o parzialmente raggiunto, si può sempre tornare alla disoccupazione di massa, attraverso lo scatenamento dell’inflazione, il conseguente collasso delle finanze pubbliche, lo squilibrio delle bilance dei pagamenti, la corsa ai beni rifugio e l’accaparramento delle materie prime, per non dire della recente crisi dell’energia.
Ove un collasso del genere si verificasse, e anche se si verificasse, all’opposto, per una grave caduta della domanda del tipo 1929, più ancora delle regioni avanzate, ci rimetterebbero in definitiva le regioni arretrate, su scala mondiale e all’interno dei singoli paesi. Il movimento operaio sindacale e i partiti socialisti devono prenderne acuta consapevolezza, anche se è giusto che là dove c’è arretratezza o sottosviluppo, essi reclamino con tenacia l’industrializzazione, che può anche voler dire industrializzazione dell’agricoltura e dell’allevamento, anziché insediamento ad ogni costo di industrie pesanti.

Il socialismo nella società post-industriale

Là dove l’industrializzazione è, invece, davvero compiuta, e riesce a superare le crisi del pieno impiego, così come ha attenuato le crisi cicliche tradizionali, si profila ormai la società post-industriale. Il suo avvento suppone che la scienza s’emancipi dalla strumentalizzazione alla quale le forze monopolistiche dell’economia e della politica (non solo nei paesi capitalistici, sibbene anche nell’U.R.S.S.) la sottopongono e diventi la regolatrice cosciente del benessere generale, ma anche dei suoi limiti razionali. Il socialismo che Marx ed Engels volevano fosse scientifico già quando questa aspirazione era ancora prematura, oggi potrebbe identificarsi sul serio con la scienza. Solo a questa condizione esso acquisterà una nuova funzione propulsiva nelle nazioni più progredite. Non per questo i partiti socialisti possono permettersi di trascurare le questioni rimase irrisolte o riapertesi della società industriale, o della società pre-industriale.
Sarebbe certamente assurdo voler trasformare dei partiti politici in accademie di scienziati, oppure voler imitare l’U.R.S.S. nella pessima prassi per cui le sue accademie di scienze sociali sono subordinate al partito dominante. Ma il pensiero socialista deve finalmente farsi scientifico, il che suppone la sua libera autonomia critica, libera da censure, scevra da demagogie e da tendenziosità.
La conoscenza delle tendenze di sviluppo in atto, notava Marx, non consente di saltare alcuna fase storicamente necessaria e, infatti, anche l’U.R.S.S. non ha saltato neppure le peggiori fasi dell’industrializzazione che avevano caratterizzato il capitalismo delle origini. Consente però di abbreviarle. La previsione del passaggio consapevole alla società post-industriale non consente di sopprimere volontaristicamente le necessità d’accumulazione della società industriale, finché questa esiste ancora. Solo lo sviluppo della scienza, della tecnica, dell’etica collettiva consentiranno un giorno di sopprimerle.
Non è affatto sicuro che questo sviluppo richieda, la socializzazione dei principali mezzi di produzione. La richiederebbe se fosse tuttora in atto il processo iniziale di proletarizzazione di tutti gli strati sociali, all’infuori d’una sempre più ristretta classe di capitalisti e d’immiserimento di tutta la classe lavoratrice. Ma, da parecchi decenni, questo processo non è più in atto nei paesi industriali. La diffusione numerica e il rigoglio economico dei nuovi ceti medi e l’elevazione materiale ed intellettuale della classe operaia dominano la scena non meno della capacità di resistenza dimostrata dal capitalismo nei paesi che esso ha saputo industrializzare.
Non v’è un motivo di principio per cui alla società post-industriale, socialista nel senso in cui le esigenze della scienza portano al socialismo, non si possa pervenire partendo da un’economia mista, purché razionalmente programmata, anziché da un’economia statizzata. La riconciliazione fra classe operaia e ceti medi può essere indispensabile politicamente, come tutti i partiti socialisti ormai sanno, nelle lotte per la democrazia o per l’indipendenza nazionale o per un nuovo assetto internazionale. Ma può essere anche qualcosa cosa di più: lo strumento chiave per costruire insieme, su un piede di parità, e con l’apporto autonomo degli studiosi, un nuovo assetto sociale, che svuoterà e supererà i rapporti di proprietà oggi esistenti. Dall’acquisizione di questa prospettiva può dipendere, in Europa, in un’Europa unita, il graduale abbattimento della barriera invisibile che finora ha sempre respinto i movimenti socialisti e comunisti, nelle nazioni capitalistiche, ma anche nelle nazioni che si considerano socialiste, dalle soglie della civiltà superiore sognata. Per giungervi non basta la pure indispensabile e doverosa critica del capitalismo. L’autocritica del movimento socialista e comunista è egualmente necessaria.

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