Il liberalsocialismo rappresenta un’esperienza nuova nell’ambito dello sviluppo del pensiero politico democratico. Esso, infatti, costruisce la propria visione facendo tesoro di varie suggestioni e di particolari sensibilità che Aldo Capitini avverte, nel proprio tormento di verità e di umanità, come valori nuovi e non estranei a suggestioni da altri affermate e patite prima di lui e che Guido Calogero, poi, espliciterà nella propria filosofia di morale concreta di libertà. Capitini soprattutto ha più volte cercato di collocare la propria esperienza in una linea di continuità con precedenti esperienze della cultura democratica e progressista. In primo luogo, egli si è premurato di sottolineare una specie di rapporti di affinità con Piero Gobetti. Nella vasta produzione pubblicistica che Capitini svilupperà sul liberalsocialismo tornerà costante il monito della appartenenza «alla generazione dei Rosselli e di Gobetti»[1], sul fatto che nella propria cultura di autodidatta «mi permettevo (…) di leggere la Rivoluzione Liberale»[2].di Paolo Bagnoli - «Mondoperaio», gennaio-febbraio 1983, pp. 111-119.
La guerra d’Etiopia è il momento in cui le spinte maturate negli anni precedenti vengono ad assumere forza; la crisi di coscienza della gioventù italiana è colta da Capitini con intuizione notevole ed esplicitata in termini di organicità. Gli Elementi di un’esperienza religiosa, pubblicati nel 1937 per i tipi di Laterza auspice Benedetto Croce, rappresentano il momento di arrivo del travaglio da lui vissuto dalla fine della guerra in poi e, al contempo, il punto di partenza di una nuova fase di cui si sostanzierà il pensiero e il movimento liberalsocialista.
La religiosità di Capitini
Gli Elementi vogliono offrire una prospettiva di valori alla gioventù in crisi, una specie di codice morale che nasceva non da un astratto intellettualismo ma da una ricerca sofferta[3]. Molti anni dopo Capitini definirà il libretto del ’36 «una situazione dell’anima, un fascio di esigenze, di problemi, di impeti, di ammonizioni; ma anche, su un piano più calmo, di spunti filosofici, di momenti lirici, di tensioni religiose. Era quindi, implicitamente, una specie di raccolta della cultura e della spiritualità più essenziale e una specie di allineamento di tutte le testimonianze in favore di un atteggiamento estraneo al fascismo, costruttivo in senso nuovo, ribelle solo apparentemente perché, invece, in ogni istante innamorato delle leggi più alte che si possono dare»[4].
Al centro della propria ricerca Capitini pone l’uomo. Il ritornare all’individuo e alla sua possibilità di scelta denota, con precisione, il ribaltamento del metodo capitiniano rispetto alla situazione storica in cui si trova ad operare. Non la magniloquenza dell’Impero, non la certezza di romani destini, non la «socialità» del fascismo, ma di fronte all’oggettività negativa di un sistema educativo e culturale dovuto a una dottrina politica dittatoriale, una risposta positiva viene individuata nella coscienza dell’uomo e nella sua capacità di viverla dentro il rapporto di socialità con gli altri: «… la vita attuale cerca un principio dominatore dell’individuo, che lo superi elevandolo, e stabilisca insomma un nuovo equilibrio fra autorità e libertà. Rafforzare nell’uomo la persuasione che egli nell’atto può realizzare un valore che lo salvi dall’isolamento, dal solipsismo e dal relativismo, è il compito dell’attuale civiltà del mondo. È questa un’ispirazione veramente religiosa, perché l’individuo sa la sua insufficienza e cerca sinceramente un qualche cosa che valga più di lui e che, posseduto nell’intimo con persuasione, possa rafforzarlo nella fatica della vita e rasserenarlo. L’uomo ha sete di questo, specialmente dopo che ha visto l’interpretazione moderna del liberalismo degenerare da tolleranza in indifferenza, da sviluppo nel meglio in acquisto della prosperità materiale e ricerca di una rendita e del godimento»[5].
L’esperienza religiosa richiamata da Capitini nel titolo del libro viene, quindi, a confermarsi all’interno di un equilibrio tra autorità e libertà in cui ciò che conta non è tanto il recupero di un valore economicistico dell’individualità quanto il contributo che la singola individualità può dare a un equilibrio sociale in cui il rapporto umano sia difeso dallo scadere in indifferenza. Per religione Capitini sembra intendere non solo un recupero di valori ma anche una consapevolezza della socialità e, di converso, di partecipazione ai problemi della comunità. Nel momento, poi, in cui l’intendimento di questa esperienza nega valore agli assunti liberali è chiaro che gli elementi richiamati di socializzazione si risolvono verso un ambito socialista, che è il superamento della degenerazione liberale quale si realizza con il passaggio dalla tolleranza alla indifferenza.
Questo passaggio racchiude profonde implicazioni politiche. La prima concerne il problema dello Stato attorno al quale Capitini sviluppa un concetto centrale di tutto il proprio antifascismo. A suo avviso, lo Stato forte è quello che subentra a una società in profonda crisi; quella che scaturisce dalla degenerazione del liberalismo e che tende a rendere coeso il popolo con una morale statuale che viene imposta da uno Stato che afferma essere il rappresentante morale di tutti.
La visione di Capitini, quale emerge dalla lettura degli Elementi, si fonda su una visione di morale laica, aperta alla umanità e alla sua socialità, sulla base di una visione della libertà come frutto della conflittualità. Su tale base si comprendono anche le ragioni dell’incontro con la visione di Guido Calogero. La conflittualità comporta la libertà come conquista e un intreccio molto stretto tra umanità e libertà. Questo legame assume in Capitini il tono di un chiaro invito alla scelta politica, quando afferma: «La fondazione di una nuova aristocrazia poggia sulla libertà, intesa nel senso di un’idea che, muovendo da un’affermazione intima, si colloca liberamente, con una nuova direttiva, in mezzo alle circostanze della storia; libertà, dunque, che si esige in nome di una legge interna. Per una nuova aristocrazia il tempo è propizio, e l’aria tempestosissima, come sempre ad ogni nuova storia»[6].
Calogero e la responsabilità dell’intellettuale
Gli anni in cui maturano gli Elementi di Capitini sono pure gli anni in cui prende avvio la riflessione liberalsocialista di Guido Calogero. L’elaborazione di Calogero ha più ampia dimensione di quella di Capitini e segna, nei due libri La filosofia e la vita del 1936 e La scuola dell’uomo del 1939, tutto l’arco di crisi della coscienza, soprattutto giovanile, rispetto agli eventi della storia e della politica, considerate come elementi costitutivi della civiltà, espressione riflessa delle capacità morali dei singoli e dei gruppi associati. Anche Capitini è spinto da un’esigenza di tipo morale; tuttavia, mentre l’esigenza capitiniana si risolve in un particolare messaggio di tipo religioso, in Calogero essa diventa dottrina civile che ricerca, soprattutto nelle forme esplicative della libertà, spazi giuridici che siano, al contempo, espressione e garanzia della libertà. Sotto tale aspetto il saggio del 1936 è una premessa a quello del 1939. Infatti mentre il primo lavoro è la messa a punto della dottrina del moralismo assoluto, il secondo è una specie di manifesto della libertà. Il porre a confronto i due termini, filosofia e vita, è di per sé indicativo dell’orientamento di Calogero. Attraverso la spiegazione di ciò che è la filosofia, Calogero vuole indicare una strada tramite cui, con l’uso del pensiero applicato alle cose dell’esistenza, sia possibile prendere coscienza della condizione reale dell’uomo. Calogero offre così una giustificazione pratica della filosofia, del pensiero e della sua funzione strettamente collegata alla vita che l’uomo può comprendere e mutare partendo dalle proprie capacità razionali e, quindi, recuperando una funzione critica che opera nella storia. Anche Calogero, al pari di Capitini, avverte che vi è una crisi delle coscienze e con le sue riflessioni cerca di stimolare la ricerca di una nuova via fondata sul principio che «l’estremo criterio della verità è sempre, per la mia coscienza, la mia stessa coscienza»[7]. Siffatta nuova responsabilità dell’individuo porta la stessa realtà nell’ambito della coscienza per cui la vera realtà è quella che l’individuo vive in quanto la costruisce: «quella realtà – dice Calogero – la cui verità è la mia certezza»[8].
Questo assunto di tipo chiaramente antistoricistico nega, perciò, la tesi crociana del fascismo come parentesi e l’atteggiamento distaccato di salvaguardia della dignità della cultura liberale assunto da Croce verso il fascismo. Nell’ambito offertogli dalla propria professione, Calogero invita, rovesciando il principio crociano, a immergersi nella lotta, a intervenire per cambiare la realtà, a confrontarsi nella storia con la propria verità[9]. Il compito del filosofo è quello di perseguire la verità nello stato non dei concetti ma delle necessità: nelle forme con cui si esplica il rapporto con gli altri. L’intellettuale è perciò chiamato all’impegno da estrinsecarsi con l’applicazione di un metodo critico basato sulla ragione che, nella ricerca della verità, non persegue astrattezze ma deve, volta a volta, verificare le proprie certezze.
La riduzione della filosofia alla vita per Calogero è molto stretta; infatti, se filosofia vuol dire conoscenza e questa significa vita allora anche il primo termine equivale all’ultimo. Ecco l’impostazione del problema morale da cui parte Calogero per arrivare a determinare il rapporto con la libertà e la legge, vale a dire, con la politica. Posto che occorra istituire delle norme che regolino la libertà e il rapporto tra le libertà, perché questo è il problema primo che si pone nel mondo morale, la legge, che regola i rapporti di convivenza, è la norma superiore necessaria regolante lo Stato, vale a dire la realtà sociale e politica.
(...)
[1] Aldo Capitini, L’antifascismo alla Normale di Pisa, «Il Ponte», 1965, p. 1633.
[2] Aldo Capitini, La mia opposizione al fascismo, «Il Ponte», 1960, p. 32.
[3] Il libro, secondo Capitini, «fin dal titolo, fu l’espressione di un’esperienza concreta, vissuta; non un programma di partito o di associazione, sceso da chissà dove per raggruppare persone. Organizzare quelli che vivevano un’esperienza simile era un compito appena appena affacciato, e affidato ai fatti: non era l’atto da compiere, l’atto principale, centrale, superiore del passato» (Premessa a un libro del ’36, «Il Ponte», 1945, p. 539).
[4] Ivi.
[5] Elementi d’un’esperienza religiosa, cit., p. 11.
[6] Ib., pp. 95-96.
[7] Guido Calogero, La filosofia e la vita, cit., p. 28.
[8] Ib., p. 31.
[9] Anticipando un tema proprio de La scuola dell’uomo, Calogero individua due tipi di filosofia: quella di tipo universale e quella fondata su concezioni legate alla necessità. Rispetto alla prima osserva che «c’è dunque un secondo e più concreto e solido, tipo di filosofia, il quale si distingue dal primo così come l’uomo esperto, che vuol sempre meglio comprendere le sue assolute capacità d’azione per meglio agire, si distingue dall’astratto contemplatore che guarda le stelle e cade nel fosso. E s’intende allora in che senso possa dirsi che la filosofia non è qualcosa di distaccato dalla vita, ma è la vita stessa nella sua presenza più necessaria e radicale. Tale non è, certamente, la filosofia del primo tipo, quella della tradizione più vecchia e nota, a cui risale la consueta raffigurazione del filosofo come individuo eternamente assorto e distratto, preoccupato delle cose celesti e affatto ignaro di quelle terrene. D’altronde questa idea del filosofo non sarebbe diventata di dominio comune se non fosse stata, appunto, peculiare di una tradizione più antica, e ormai radicalmente sorpassata nonostante qualche sopravvivenza. La filosofia della tradizione moderna è invece quell’altra filosofia, che lungi dall’astrarsi dalla vita aspira a cogliere le sue più schiette radici, per meglio orientare e suscitare le sue eterne energie». (Ib. pp. 38-39).