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    Predefinito Come nacque e come morì il liberalsocialismo (1983)

    di Paolo Bagnoli - «Mondoperaio», gennaio-febbraio 1983, pp. 111-119.


    Il liberalsocialismo rappresenta un’esperienza nuova nell’ambito dello sviluppo del pensiero politico democratico. Esso, infatti, costruisce la propria visione facendo tesoro di varie suggestioni e di particolari sensibilità che Aldo Capitini avverte, nel proprio tormento di verità e di umanità, come valori nuovi e non estranei a suggestioni da altri affermate e patite prima di lui e che Guido Calogero, poi, espliciterà nella propria filosofia di morale concreta di libertà. Capitini soprattutto ha più volte cercato di collocare la propria esperienza in una linea di continuità con precedenti esperienze della cultura democratica e progressista. In primo luogo, egli si è premurato di sottolineare una specie di rapporti di affinità con Piero Gobetti. Nella vasta produzione pubblicistica che Capitini svilupperà sul liberalsocialismo tornerà costante il monito della appartenenza «alla generazione dei Rosselli e di Gobetti»[1], sul fatto che nella propria cultura di autodidatta «mi permettevo (…) di leggere la Rivoluzione Liberale»[2].
    La guerra d’Etiopia è il momento in cui le spinte maturate negli anni precedenti vengono ad assumere forza; la crisi di coscienza della gioventù italiana è colta da Capitini con intuizione notevole ed esplicitata in termini di organicità. Gli Elementi di un’esperienza religiosa, pubblicati nel 1937 per i tipi di Laterza auspice Benedetto Croce, rappresentano il momento di arrivo del travaglio da lui vissuto dalla fine della guerra in poi e, al contempo, il punto di partenza di una nuova fase di cui si sostanzierà il pensiero e il movimento liberalsocialista.


    La religiosità di Capitini


    Gli Elementi vogliono offrire una prospettiva di valori alla gioventù in crisi, una specie di codice morale che nasceva non da un astratto intellettualismo ma da una ricerca sofferta[3]. Molti anni dopo Capitini definirà il libretto del ’36 «una situazione dell’anima, un fascio di esigenze, di problemi, di impeti, di ammonizioni; ma anche, su un piano più calmo, di spunti filosofici, di momenti lirici, di tensioni religiose. Era quindi, implicitamente, una specie di raccolta della cultura e della spiritualità più essenziale e una specie di allineamento di tutte le testimonianze in favore di un atteggiamento estraneo al fascismo, costruttivo in senso nuovo, ribelle solo apparentemente perché, invece, in ogni istante innamorato delle leggi più alte che si possono dare»[4].
    Al centro della propria ricerca Capitini pone l’uomo. Il ritornare all’individuo e alla sua possibilità di scelta denota, con precisione, il ribaltamento del metodo capitiniano rispetto alla situazione storica in cui si trova ad operare. Non la magniloquenza dell’Impero, non la certezza di romani destini, non la «socialità» del fascismo, ma di fronte all’oggettività negativa di un sistema educativo e culturale dovuto a una dottrina politica dittatoriale, una risposta positiva viene individuata nella coscienza dell’uomo e nella sua capacità di viverla dentro il rapporto di socialità con gli altri: «… la vita attuale cerca un principio dominatore dell’individuo, che lo superi elevandolo, e stabilisca insomma un nuovo equilibrio fra autorità e libertà. Rafforzare nell’uomo la persuasione che egli nell’atto può realizzare un valore che lo salvi dall’isolamento, dal solipsismo e dal relativismo, è il compito dell’attuale civiltà del mondo. È questa un’ispirazione veramente religiosa, perché l’individuo sa la sua insufficienza e cerca sinceramente un qualche cosa che valga più di lui e che, posseduto nell’intimo con persuasione, possa rafforzarlo nella fatica della vita e rasserenarlo. L’uomo ha sete di questo, specialmente dopo che ha visto l’interpretazione moderna del liberalismo degenerare da tolleranza in indifferenza, da sviluppo nel meglio in acquisto della prosperità materiale e ricerca di una rendita e del godimento»[5].
    L’esperienza religiosa richiamata da Capitini nel titolo del libro viene, quindi, a confermarsi all’interno di un equilibrio tra autorità e libertà in cui ciò che conta non è tanto il recupero di un valore economicistico dell’individualità quanto il contributo che la singola individualità può dare a un equilibrio sociale in cui il rapporto umano sia difeso dallo scadere in indifferenza. Per religione Capitini sembra intendere non solo un recupero di valori ma anche una consapevolezza della socialità e, di converso, di partecipazione ai problemi della comunità. Nel momento, poi, in cui l’intendimento di questa esperienza nega valore agli assunti liberali è chiaro che gli elementi richiamati di socializzazione si risolvono verso un ambito socialista, che è il superamento della degenerazione liberale quale si realizza con il passaggio dalla tolleranza alla indifferenza.
    Questo passaggio racchiude profonde implicazioni politiche. La prima concerne il problema dello Stato attorno al quale Capitini sviluppa un concetto centrale di tutto il proprio antifascismo. A suo avviso, lo Stato forte è quello che subentra a una società in profonda crisi; quella che scaturisce dalla degenerazione del liberalismo e che tende a rendere coeso il popolo con una morale statuale che viene imposta da uno Stato che afferma essere il rappresentante morale di tutti.
    La visione di Capitini, quale emerge dalla lettura degli Elementi, si fonda su una visione di morale laica, aperta alla umanità e alla sua socialità, sulla base di una visione della libertà come frutto della conflittualità. Su tale base si comprendono anche le ragioni dell’incontro con la visione di Guido Calogero. La conflittualità comporta la libertà come conquista e un intreccio molto stretto tra umanità e libertà. Questo legame assume in Capitini il tono di un chiaro invito alla scelta politica, quando afferma: «La fondazione di una nuova aristocrazia poggia sulla libertà, intesa nel senso di un’idea che, muovendo da un’affermazione intima, si colloca liberamente, con una nuova direttiva, in mezzo alle circostanze della storia; libertà, dunque, che si esige in nome di una legge interna. Per una nuova aristocrazia il tempo è propizio, e l’aria tempestosissima, come sempre ad ogni nuova storia»[6].


    Calogero e la responsabilità dell’intellettuale


    Gli anni in cui maturano gli Elementi di Capitini sono pure gli anni in cui prende avvio la riflessione liberalsocialista di Guido Calogero. L’elaborazione di Calogero ha più ampia dimensione di quella di Capitini e segna, nei due libri La filosofia e la vita del 1936 e La scuola dell’uomo del 1939, tutto l’arco di crisi della coscienza, soprattutto giovanile, rispetto agli eventi della storia e della politica, considerate come elementi costitutivi della civiltà, espressione riflessa delle capacità morali dei singoli e dei gruppi associati. Anche Capitini è spinto da un’esigenza di tipo morale; tuttavia, mentre l’esigenza capitiniana si risolve in un particolare messaggio di tipo religioso, in Calogero essa diventa dottrina civile che ricerca, soprattutto nelle forme esplicative della libertà, spazi giuridici che siano, al contempo, espressione e garanzia della libertà. Sotto tale aspetto il saggio del 1936 è una premessa a quello del 1939. Infatti mentre il primo lavoro è la messa a punto della dottrina del moralismo assoluto, il secondo è una specie di manifesto della libertà. Il porre a confronto i due termini, filosofia e vita, è di per sé indicativo dell’orientamento di Calogero. Attraverso la spiegazione di ciò che è la filosofia, Calogero vuole indicare una strada tramite cui, con l’uso del pensiero applicato alle cose dell’esistenza, sia possibile prendere coscienza della condizione reale dell’uomo. Calogero offre così una giustificazione pratica della filosofia, del pensiero e della sua funzione strettamente collegata alla vita che l’uomo può comprendere e mutare partendo dalle proprie capacità razionali e, quindi, recuperando una funzione critica che opera nella storia. Anche Calogero, al pari di Capitini, avverte che vi è una crisi delle coscienze e con le sue riflessioni cerca di stimolare la ricerca di una nuova via fondata sul principio che «l’estremo criterio della verità è sempre, per la mia coscienza, la mia stessa coscienza»[7]. Siffatta nuova responsabilità dell’individuo porta la stessa realtà nell’ambito della coscienza per cui la vera realtà è quella che l’individuo vive in quanto la costruisce: «quella realtà – dice Calogero – la cui verità è la mia certezza»[8].
    Questo assunto di tipo chiaramente antistoricistico nega, perciò, la tesi crociana del fascismo come parentesi e l’atteggiamento distaccato di salvaguardia della dignità della cultura liberale assunto da Croce verso il fascismo. Nell’ambito offertogli dalla propria professione, Calogero invita, rovesciando il principio crociano, a immergersi nella lotta, a intervenire per cambiare la realtà, a confrontarsi nella storia con la propria verità[9]. Il compito del filosofo è quello di perseguire la verità nello stato non dei concetti ma delle necessità: nelle forme con cui si esplica il rapporto con gli altri. L’intellettuale è perciò chiamato all’impegno da estrinsecarsi con l’applicazione di un metodo critico basato sulla ragione che, nella ricerca della verità, non persegue astrattezze ma deve, volta a volta, verificare le proprie certezze.
    La riduzione della filosofia alla vita per Calogero è molto stretta; infatti, se filosofia vuol dire conoscenza e questa significa vita allora anche il primo termine equivale all’ultimo. Ecco l’impostazione del problema morale da cui parte Calogero per arrivare a determinare il rapporto con la libertà e la legge, vale a dire, con la politica. Posto che occorra istituire delle norme che regolino la libertà e il rapporto tra le libertà, perché questo è il problema primo che si pone nel mondo morale, la legge, che regola i rapporti di convivenza, è la norma superiore necessaria regolante lo Stato, vale a dire la realtà sociale e politica.

    (...)



    [1] Aldo Capitini, L’antifascismo alla Normale di Pisa, «Il Ponte», 1965, p. 1633.
    [2] Aldo Capitini, La mia opposizione al fascismo, «Il Ponte», 1960, p. 32.
    [3] Il libro, secondo Capitini, «fin dal titolo, fu l’espressione di un’esperienza concreta, vissuta; non un programma di partito o di associazione, sceso da chissà dove per raggruppare persone. Organizzare quelli che vivevano un’esperienza simile era un compito appena appena affacciato, e affidato ai fatti: non era l’atto da compiere, l’atto principale, centrale, superiore del passato» (Premessa a un libro del ’36, «Il Ponte», 1945, p. 539).
    [4] Ivi.
    [5] Elementi d’un’esperienza religiosa, cit., p. 11.
    [6] Ib., pp. 95-96.
    [7] Guido Calogero, La filosofia e la vita, cit., p. 28.
    [8] Ib., p. 31.
    [9] Anticipando un tema proprio de La scuola dell’uomo, Calogero individua due tipi di filosofia: quella di tipo universale e quella fondata su concezioni legate alla necessità. Rispetto alla prima osserva che «c’è dunque un secondo e più concreto e solido, tipo di filosofia, il quale si distingue dal primo così come l’uomo esperto, che vuol sempre meglio comprendere le sue assolute capacità d’azione per meglio agire, si distingue dall’astratto contemplatore che guarda le stelle e cade nel fosso. E s’intende allora in che senso possa dirsi che la filosofia non è qualcosa di distaccato dalla vita, ma è la vita stessa nella sua presenza più necessaria e radicale. Tale non è, certamente, la filosofia del primo tipo, quella della tradizione più vecchia e nota, a cui risale la consueta raffigurazione del filosofo come individuo eternamente assorto e distratto, preoccupato delle cose celesti e affatto ignaro di quelle terrene. D’altronde questa idea del filosofo non sarebbe diventata di dominio comune se non fosse stata, appunto, peculiare di una tradizione più antica, e ormai radicalmente sorpassata nonostante qualche sopravvivenza. La filosofia della tradizione moderna è invece quell’altra filosofia, che lungi dall’astrarsi dalla vita aspira a cogliere le sue più schiette radici, per meglio orientare e suscitare le sue eterne energie». (Ib. pp. 38-39).
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Come nacque e come morì il liberalsocialismo (1983)

    Il distacco dallo storicismo crociano


    Ne La scuola dell’uomo, pubblicato per i tipi di Sansoni nel 1939, Calogero ampia i temi del precedente saggio dando loro forma organica e compiuta. Nello sviluppo del pensiero liberalsocialista il saggio di Calogero ha un’importanza fondamentale che lo stesso Capitini ha avuto più volte modo di ricordare. La tesi di partenza delle argomentazioni di Calogero verte sull’esistenza del mondo morale quale necessità inderogabile dell’esperienza umana, poiché è da questo che si origina la responsabilità del singolo che è quale lo fanno le singole esperienze che in esso vengono a sintesi. Rientrando il principio morale nella sfera del dover essere, qualitativamente diversa da quella del poter essere, ne consegue che il mondo dei valori rientra nell’ambito di quel dover essere di cui fa parte l’esperienza morale dell’individuo per cui «la legge morale non è una condizione, ma un programma della volontà»[1].
    La conseguenza immediata di tale affermazione è una considerazione non strumentale degli uomini, non mezzi ma fini, che è il tramite cui avviene il congiungimento d’intenti tra Calogero e Capitini. Ciò che interessa a entrambi non è tanto un io astratto ma l’individuo nella sua esistenza concreta, con i problemi che la vita pone al singolo e alle relazioni interpersonali. Riprendendo ed estendendo un concetto già accennato nel libro del 1936, Calogero rapporta il tema della questione morale al problema della libertà, massimo dei valori appartenenti al mondo del dover essere e, quindi, valore costitutivo della moralità. Ne consegue che l’umanità deve avere come programma della volontà il perseguimento della libertà. La scuola dell’uomo segue di un anno il volume di Benedetto Croce La storia come pensiero e come azione. In questo saggio di grande importanza nella storia del pensiero italiano, Croce esplicita i concetti della storia come storia della libertà e di storicismo. La libertà è considerata «l’eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia»; storicismo «è creare la propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla coscienza presente del passato».
    Allo storicismo assoluto del filosofo napoletano Calogero contrappone, polemicamente, una sorta di storicismo attivistico che si basa sul rifiuto della formula hegeliana, ripresa da Croce, della storia come storia della libertà, concependo lo storicismo come laicità, costruttivo rifiuto di ogni metafisica agente nella storia e, di conseguenza, decisa presa di distanza da certe tendenze quietistiche che negano l’aspetto volontaristico che è uno dei presupposti su cui basa la propria elaborazione e che è il presupposto necessario per l’affermarsi della libertà come norma. Lo storicismo assoluto, idealistico di Benedetto Croce finisce, per Calogero, per ricreare una nuova trascendenza che si riduce a passività sul terreno strettamente politico.
    Lo storicismo assoluto di derivazione hegeliana per Calogero cade in una petizione di principio poiché, pur facendo leva su ciò che fa storia, scadendo in una nuova trascendenza finisce per cancellare la coscienza morale dell’individuo. La storia – sono parole di Calogero – è «storia di abitudini» cui sovrintende un criterio etico regolante il «giuoco di forze»: la storia è il risultato di questa sintesi[2].
    Con La scuola dell’uomo si può dire che il liberalsocialismo abbia compiuto la sua incubazione culturale e filosofica. L’anno seguente verrà steso il primo manifesto del movimento che sarà in larga parte la transposizione politica delle tesi già espresse. Capitini, in scritti successivi, ha sempre dato grande rilievo al contributo di Calogero. A La scuola dell’uomo riconosce una grande influenza sui giovani. «Era la ricostruzione – scrive – dell’uomo liberato ormai dall’opportunismo che accetta come vero ciò che è più potente, e che purtroppo era la filosofia di alcuni, allora. Il Calogero invece imposta la scuola dell’uomo su altri punti, che sono quelli della coscienza, della civiltà come progresso dei diritti civili, come educazione di dialogo»[3].


    Il manifesto del 1940


    Gli scritti di Aldo Capitini e di Guido Calogero che abbiamo ricordato costituiscono le basi sulle quali poggia il liberalsocialismo, che nasce da un incontro ideologico molto composito, che nasce da un incontro ideologico molto composito, come già Capitini ebbe modo di rilevare, essendo le esigenze dei due filosofi differenti nei punti di partenza e convergenti nelle intenzioni di arrivo. La serie di riunioni, incontri, convegni nel corso dei quali furono gettate le fondamenta teoriche e programmatiche sono largamente note dagli scritti di Calogero e di Ragghianti[4]. Da essi uscì, nel 1940, Il primo manifesto del liberalsocialismo[5] che è il documento fondamentale del nuovo movimento di opposizione al fascismo.
    L’assioma iniziale da cui discendono tutte le altre argomentazioni risiede nel «concetto della sostanziale unità e identità della ragione ideale, che sorregge e giustifica tanto il socialismo nella sua esigenza di libertà». Da questa premessa, quindi, si ricava la intrinseca ed equiordinaria validità delle due dottrine considerate da un’angolazione non storica ma puramente filosofico-concettuale.
    Il liberalsocialismo si colloca in un’universale aspirazione etica in cui si riconosce ad ognuno dei due elementi di perseguire mete giuste ma incomplete: un’astratta libertà e una giustizia solo di tipo economico. È sulla base di una concezione etica della politica che i due momenti vengono considerati quali grandi aspirazioni ideali a una forma di civiltà perfettibile, aliena dalle insufficienze di carattere pratico, nel momento in cui ha risolto le proprie antinomie a livello dei concetti di pensiero politico. Da qui nasce un intreccio molto stretto e necessario per cui, come si legge nel primo manifesto: «Non si può essere seriamente liberali senza essere socialisti, né essere seriamente socialisti senza essere liberali. Chi è pervenuto a questa convinzione, e si è persuaso che la civiltà tanto meglio procede quanto più la coscienza e gli istituti del liberalismo lavorano ad inventare e ad instaurare sempre più giusti assetti sociali, e la coscienza e gli istituti del socialismo a rendere sempre più possibile e intensa e diffusa tale opera della libertà, ha raggiungo il pieno del liberalsocialismo».
    Ciò che conta, quindi, sono i valori etico-politici dei due movimenti sulla cui base si attua la loro conciliabilità. Presi, infatti, in maniera separata, entrambi dimostrano larghe insufficienze; da un lato quel liberalismo che non tiene conto della «giusta norma della libertà», vale a dire quei provvedimenti giuridici che intervengono nell’ordinamento sociale a tutela dei diritti di libertà delle categorie più indifese socialmente; dall’altro quel socialismo con caratteristiche autoritarie, «che vede nella dittatura del proletariato la condizione della futura libertà». Così il liberalsocialismo muove anche da una posizione di critica verso l’economicismo marxista, verso una concezione razionalistica della storia fondata sul determinismo e sulla sicurezza che la socializzazione dei mezzi di produzione basti di per sé ad assicurare una condizione di maggiore libertà. Il Manifesto ritiene questa concezione superata e arcaica in quanto ispirantesi a una visione solo di tipo economico e superata da una visione etica, più moderna, più aperta a quelle istanze che ne rendono possibile un’interpretazione liberale; per cui «questo socialismo fondato sulla libertà e radicato nella più profonda ispirazione dell’uomo, quel liberalismo assetato di giustizia e deciso a non contentarsi di libertà che possano essere irrise come vuote, convergono e coincidono nel liberalsocialismo».
    Dalla critica che il Manifesto svolge verso il socialismo realizzato si deduce il carattere riformatore e non rivoluzionario del liberalsocialismo. In primo luogo la denuncia dell’utopia illiberale del collettivismo: per il liberalsocialisti la «proprietà privata non è mai totalmente eliminabile» né si può ritenere valida la collettivizzazione limitandola ai soli mezzi di produzione, ossia al capitale, intendendo così il controllo e il possesso dei mezzi finanziari che possono essere anche i risparmi di un operaio dipendente. In questo caso il socialismo collettivista mostra il proprio volto non-morale, dal momento che la parsimonia è «un grande movente di disciplina etica».
    Il liberalsocialismo tende a rifondare un insieme di principi espressione di valori che solo in parte vengono desunti dal socialismo e dal liberalismo che hanno avuto le loro conferme, positive e negative, nella storia[6]. Nel secondo Manifesto[7] che è del 1941, il liberalsocialismo viene definito «in primo luogo un movimento, che mira al ristabilimento della libertà politica, per sé come per ogni altro movimento o partito rispettoso della libertà». Solo in secondo luogo esso è un partito ma una funzione siffatta viene ritenuta possibile in un domani di libero gioco democratico, ma questa, al momento, non appare la preoccupazione maggiore. Al contrario, sviluppando le tesi finali del primo Manifesto, il liberalsocialismo si individua come la base per un largo fronte di collaborazione, un «comune Fronte della Libertà» cui «invita a parteciparvi tutti coloro che, qualunque sia il loro specifico orientamento di partito, consentono in quei principi fondamentali della convivenza politica, che il liberalsocialismo ritiene debbano essere pregiudizialmente accettati da ogni partito degno del suo diritto di libertà».
    Il secondo Manifesto compie una puntualizzazione dei concetti espressi nel primo, pur accentuando gli elementi di programma politico con il rilievo che liberalismo e socialismo, «considerati nella loro sostanza migliore, non sono ideali contrastanti né concetti disparati, ma specificazioni parallele di un unico principio etico, che è il canone individuale di ogni storia e di ogni civiltà».
    Nel complesso, dalla lettura dei due Manifesti si ricava un senso generalizzato di aspirazioni che individuano linee molto vaghe sul piano strettamente politico, per la preoccupazione di dare sostanza a un nuovo liberalismo avanzato nelle istituzioni e sul piano delle garanzie protettive verso la collettività. Secondo Ragghianti, «nel suo giustapporre semplicemente i concetti, o meglio le astrazioni di libertà e di giustizia, nel sommarli, il liberalsocialismo riduceva la libertà agli istituti storici acquisiti della libertà, e il socialismo restava entro i limiti delle classiche determinazioni derivate dal marxismo. La relazione tra i due concetti non essendo né chiarita, né dedotta o svolta nella reale necessità dei due termini, ne derivava che, sul piano della giustizia, il liberalsocialismo si comportava in maniera non diversa e dava indicazioni non diverse, non soltanto da quelle fornite dai socialisti revisionisti e autonomisti, ma anche dai partiti socialisti marxisti, e indulgeva alla lotta di classe (nel senso classico che implica violenza e dittatura)»[8]. Ragghianti nega che il liberalsocialismo rappresenti una sintesi delle due dottrine, e su ciò non è difficile convenire, mentre appare meno convincente la sua tesi che, da un tale tentativo non riuscito, escano anche nell’accezione liberalsocialista, riconfermati i contenuti delle due ideologie. Un tentativo timido di superamento lo si ritrova, anche se non ben specificato, visto che i manifesti sono delle carte ideologiche e non dei programmi politici.

    (...)



    [1] Cit., pp. 25-26.
    [2] «Storicismo – specifica – in generale, è la concezione secondo cui tutto è storia, e non c’è nulla che sia estraneo alla storia. In questo senso esso costituisce la più efficace istanza contro ogni asserzione di realtà o entità trascendenti, le quali possono comunque infirmare o limitare la libertà creatrice che lo spirito manifesta nel suo evolversi storico» (ivi, p. 105).
    [3] Aldo Capitini, Educazione aperta, 2 voll., Firenze, 1967, II, p. 67.
    [4] Cfr. Guido Calogero, Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, nuova edizione a cura di Michele Schiavone e Dino Cofrancesco, Milano 1972, pp. 194-195, e C. L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Pisa, 1962, pp. 308-312.
    [5] Ora in Guido Calogero, Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, cit., pp. 221-226.
    [6] Il primo Manifesto del liberalsocialismo non ha un’accentuazione rivoluzionaria e in questo c’è già la prima differenza di fondo dal programma di «Giustizia e Libertà» che, per dirla con Valiani, volle rappresentare «un’alternativa al comunismo». (Il Partito d’azione in Valiani-Bianchi-Ragionieri, Azionisti, cattolici e comunisti della Resistenza, Milano 1971, p. 23). Esso si caratterizza per un taglio decisamente democratico, di tipo laburista e socialdemocratico avanzato, in sintonia con quanto era avvenuto in altri paesi d’Europa. Rispetto allo Schema di G.L. il Manifesto liberalsocialista si differenzia anche per la minore intenzionalità politica nel senso che vuole assumere il carattere di una base molto generale su cui ricostruire la vita democratica.
    [7] Ora in Guido Calogero, Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, cit., pp. 221-226
    [8] Op. cit., pp. 327-328.
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    Predefinito Re: Come nacque e come morì il liberalsocialismo (1983)

    La polemica con Croce

    L’accentrarsi dell’attenzione liberalsocialista sul problema della libertà, che era stato il grande tema del saggio di Calogero del 1939, pone ai pensatori liberalsocialisti il problema del rapporto con Benedetto Croce, mentore laico della religione della libertà. Durante il ventennio, il magistero crociano ha un’importanza determinante – sono parole di Calogero – per la gioventù italiana che tramite Croce conosce il valore della libertà e la dignità della cultura. «Alla mente di quei giovani – scrive Calogero – Croce apriva il mondo della libertà. Schiudeva loro un orizzonte, da cui non avrebbero mai più accettato di vedersi esclusi. Essi si contrapponevano, in tal modo, a coloro che andavano, sì, al di là della soluzione corporativa, ma, per non aver assorbito o compreso il più profondo insegnamento crociano, continuavano a prospettare il problema della conciliazione di libertà individuali ed esigenze sociali sull’esclusivo piano dell’economia (…) Avevano imparato da lui ad amare la libertà non già come egoistico diritto di privilegio, ma come dovere di sempre più vasta liberazione degli uomini da qualunque forza di servitù: e non riuscivano a comprendere perché, combattendo per tale liberazione, egli avesse dinanzi agli occhi il solo ritorno alle libertà politiche della democrazia, e rinviasse a un più remoto e oscuro avvenire quelle diverse forme di riscatto dell’uomo, a cui, pure attraverso gli errori teorici del marxismo, sinceramente aspirava la tradizione socialista. Ecco dunque l’esigenza di una più radicale sintesi di liberalismo e socialismo, che determinò la genesi della concezione liberalsocialista e del movimento da essa determinato»[1].
    Calogero, quindi, partendo da una riconosciuta importanza del ruolo crociano, definisce il liberalsocialismo quale superamento della filosofia crociana: il liberalsocialismo, perciò, non come negazione ma sviluppo e avanzamento dell’idea crociana. Croce, com’è noto, manifestò notevole diffidenza verso l’elaborazione calogeriana, tanto che si aprì una polemica di alcuni anni. Il filosofo napoletano che, significativamente, non aveva scritto un rigo su La scuola dell’uomo, aveva conosciuto con anticipo il Manifesto del 1940 portatogli dallo stesso Calogero e lo aveva criticato con forza[2]. Il dibattito tra Guido Calogero e Benedetto Croce si protrasse fino a dopo la liberazione e si articolò con una serie di interventi e articoli in cui, volta a volta, venivano sviscerati i punti di controversia. È intorno all’ircocervo che si sviluppa la polemica tra Croce e Calogero; vediamola secondo quest’ultimo. Il tema è quello della libertà o meglio delle libertà: quella basata sul che voglio e quella in forza di cui voglio. La prima è la libertà che si deve possedere necessariamente per non essere automi, per dare un senso a ogni responsabilità o obbligazione morale; la seconda è la libertà quale scopo da raggiungere e non come uno stato da acquisire; è, in altre parole, un programma, un ideale del potere. «Perché senza dubbio – nota Calogero – la storia è tutta la storia della libertà, se per ciò si vuole intendere che essa è creazione della libertà, cioè della consapevole responsabilità umana. C’è storia dove c’è azione, dove non c’è solo evento di natura»[3]. Tutto il suo ragionamento politico ora si fa più esplicito, anche in considerazione del fatto che esso matura in un duro momento di lotta politica, in cui le esigenze della libertà hanno ben precise referenze con la pratica. A differenza di Croce, Calogero non scinde il momento etico da quello politico: la libertà è un grande fatto etico-politico per cui diventa scelta morale a pieno titolo non il teorizzare ma il perseguire quella libertà in forza di cui voglio. La concezione crociana della libertà per Calogero è astratta e ciò è all’origine dell’incomprensione verso il liberalsocialismo che invera la libertà[4].


    Le due facce del liberalismo

    Il processo di sintesi tra liberalismo e socialismo perseguito da Calogero nega il sistema crociano delle distinzioni; mentre, infatti, per Calogero la giustizia appartiene alla sfera etica, per Croce essa fa parte di quella economica e, quindi, opera su un piano diverso e distinto da quello etico che è proprio della libertà. Il liberalsocialismo, rispetto al crocianesimo, recuperando la giustizia alla sfera etica postula che il volere della libertà significa attuare la giustizia. È quindi nell’ambito di una medesima concezione etica della politica che liberalismo e socialismo si incontrano e si saldano. «Che cosa volevamo, infatti – si chiederà poi Calogero -, se non un socialismo ammodernato, un socialismo che, tenendo conto anche di quanto aveva fatto valere il Croce nella sua critica al marxismo, avesse ribadito in forma rigorosa quella che oggi appare cosa ovvia, e allora era tutt’altro che chiara, cioè che mentre molti mutamenti erano necessari per l’avanzamento della giustizia sociale, nessuno di essi sarebbe stato valido e stabile senza la continua garanzia di un’atmosfera di libertà? Lo chiamavamo, d’altronde, socialismo liberale invece che democratico o riformista, non solo perché tale formula era stata cara a Carlo Rosselli e a molti esponenti del nobilissimo movimento clandestino di Giustizia e Libertà, ma anche – e forse più – perché Croce stesso aveva considerato plausibile quella formula quando l’aveva trovata difesa dallo Hobhouse: cosicché noi largamente speravamo che egli avrebbe trovato nelle nostre impostazioni ideologiche uno sviluppo non indebito su idee sue; e questo spiega la pazienza con cui cercavamo d’indurlo a discutere e non ci rassegnavamo alle sue sdegnose condanne»[5].
    Com’è noto, Benedetto Croce nello scritto Liberismo e liberalismo[6] fa riferimento non negativo alla formula socialismo liberale citata dall’Hobhouse nel suo ben noto Liberalismo[7]. Nella nota in questione, Croce, dopo essersi posto la domanda «quale ordinamento liberistico non è da dire in qualche parte socialistico, e all’inverso?», sostiene che «ben si potrà, con la più sincera e vivida coscienza liberale, sostenere provvedimenti e ordinamenti che i teorici dell’astratta economia classificano come socialistici…»; da qui il riferimento al paradosso del socialismo liberale. La critica di Calogero, partendo da questo scritto crociano, tende a dimostrare che la sintesi dei due elementi non solo è valida ed è possibile, così come ammette lo stesso Croce, ma che, di per se stesso, liberalismo è termine senza qualità politica per cui, di paradosso in paradosso, lo stesso Partito liberale di cui Croce è l’insigne esponente è un ircocervo. Il ragionamento di Calogero procede sempre nella logica del superamento del crocianesimo, muovendo, tuttavia, da premesse non estranee alla stessa elaborazione crociana. Ammesso che il liberalismo puro è una forma concettuale e non una proposta politica, una sorta quindi di prepartito, vale a dire di una comune accettazione per ogni forza politica di ispirarsi alla libertà e ai suoi metodi, la necessità della sua specificazione diviene indispensabile per qualificarlo. Alla necessarietà di una sua definizione e qualificazione Calogero arriva per la via delle distinzioni del Croce e in nome della «migliore dottrina crociana»; osserva: «… quando si parla di liberalismo nel senso di amore della libertà quale puro ideale etico, questo liberalismo non ha nessuno, assolutamente nessuno specifico significato nel campo politico (neppure a rigore, quello della più classica, tradizionale, cavouriana, prassi liberale), potendo costituire l’ideale di qualunque partito e di qualunque uomo; mentre, quando si parla di liberalismo nel senso di specifica fede politica, che si distingue da altri consimili o contrastanti fedi politiche (democrazia, socialismo, comunismo, nazionalismo ecc.) (…), questo secondo liberalismo deve per forza, fin dal primo momento della sua concreta formulazione, contaminarsi di empiricità, nuotare nel giure, nell’economia, nella sociologia, muoversi tra provvisorie valutazioni del momento storico ed egualmente provvisorie delineazioni programmatiche dell’avvenire. E, allora, niente vieta a questo liberalismo pieno (…) di concretarsi tanto in un contenuto che si riferisca piuttosto ai vari aspetti della prassi costituzionale del vecchio liberalismo e della sua pratica attuazione dei classici diritti di libertà, quanto in un diverso contenuto, che invece si riferisce piuttosto a tutto ciò che complessivamente si suol comprendere sotto la designazione di problema sociale»[8]. Il saggio sull’ircocervo segna la rottura filosofica di Calogero con Croce.
    La polemica era, tuttavia, destinata a continuare; Croce sottopone a dura critica i chiarimenti programmatici del Partito d’azione, stesi da La Malfa, Calogero, Ragghianti e Calamandrei e ispirantisi al binomio rosselliano, e nel settembre del 1943 pubblicò su «La Critica» un saggio, scritto nel maggio, su Libertà e Giustizia – Revisione di due concetti filosofici. La libertà, specifica Croce, è la spiritualità e l’essenza dell’uomo per cui, dal momento che egli la possiede, non ha senso sostenere che bisogna dargliela. Essa, tuttavia, può accrescersi a condizione che, in ogni campo, si accresca la produttività dell’uomo; «conseguenza del principio così stabilito è che coincidendo la libertà di tutto punto con lo spirito morale e compendiando in sé ogni dovere morale, non c’è nessun compito di tal qualità a cui essa non arrivi che resti fuori dalla sua cerchia, quasi invito ad altra potenza di assumerlo ed eseguirlo; perché, quale sarebbe mai quest’altra potenza, se essa abbraccia il tutto ed è il tutto?».
    Per giustizia, invece, secondo Croce, si intende solo uguaglianza di tipo utilitario e materiale, giustizia come esigenza di uguaglianza tra gli uomini, ecco perché essa appartiene alla sfera economica e non a quella spirituale. Le conclusioni cui perviene Croce sono particolarmente chiare e la risposta a Calogero non potrebbe essere più esplicita e diretta. Il binomio «Libertà e Giustizia», scrive, «mi offende in modo particolare, perché è un tentativo di assopire un aspro e pungente problema dottrinale e morale, con quel procedimento eclettico che è altrettanto odioso alle menti filosofiche quanto gradito agli amanti del quieto vivere e del poco pensare, i quali non vogliono tendere troppo l’arco dell’intelletto né suscitare troppo dispiacere nell’una e nell’altra parte contendente». La conclusione cui perviene Croce è che, come fatto concreto, la libertà crea sempre moralità e attua anche la giustizia quando questa è moralità, non certo quando è uguaglianza, «concetto matematico estraneo alla vita e alla storia». La libertà politica, aspetto concreto della libertà-idea, è la libertà morale che attua le sue istituzioni che reggono tanto quanto regge la forza morale di cui è espressione.


    L’esperienza del Partito d’azione

    Il distacco da Croce allontanava, di conseguenza, sul piano politico il liberalsocialismo dal liberalismo quale forza politica organizzata mentre troppo ampie rimanevano le divergenze con il Partito socialista. Benché più propensi a forme di presenza politica di movimento che non di partito, i liberalsocialisti entrarono nel Partito d’azione, in coerenza con le loro aspirazioni di rinnovamento e di palingenesi della vita politica italiana. Al partito aderì Calogero ma non Capitini, per la paura «che la trasformazione in partito circoscrivesse il movimento (che era di larga influenza e di ricerca) alla dipendenza di una direzione soverchiamente politica e di un democraticismo che mi pareva insufficiente rispetto all’esigenza del socialismo»[9].
    È infatti nell’esperienza del Partito d’azione che s’incontrano il liberalsocialismo e il socialismo liberale; i giovani crociani insoddisfatti di un’astratta religione della libertà e gli uomini che hanno vissuto, fin dall’inizio, il travaglio della democrazia italiana e del movimento socialista e che, raccolti intorno a Carlo Rosselli, avevano dato inizio alla rifondazione di un socialismo libertario, scevro da miti, costruttore di libertà e di giustizia nella democrazia. Va comunque osservato che, nella multiformità delle provenienze dei gruppi che si ritroveranno nel Partito d’azione, al di là delle comuni e ricordate aspirazioni a un rinnovamento in profondità della società italiana, tra liberalsocialisti e i giellisti ci sono comuni tensioni ideologiche. Alcuni liberalsocialisti, nelle vicende del Partito d’azione[10] si incontreranno saldamente con la continuità giellista ed entrambe rappresenteranno esperienze originali del socialismo italiano, nel senso che saranno genuinamente socialiste.
    Tristano Codignola, che rappresenta la tendenza più orientata a sinistra del liberalsocialismo, non solo fiorentino, si è domandato: «Come avvenne dunque che il nucleo essenziale del pensiero politico di Rosselli fu quasi riscoperto e reinventato dalla generazione antifascista di quindici anni dopo?»[11]. In effetti, non sembra trattarsi né di una riscoperta né di una reinvenzione quanto di un’autonoma maturazione all’interno di un’area laica stimolata dal pensiero di Benedetto Croce[12]. Lo stesso Codignola osserva che «l’incontro con Rosselli è dunque in un certo senso fortuito, anche se i canali di trasmissione non sono mancati». Codignola coglie tuttavia con precisione le differenze tra le due concezioni e le opposte direzioni in cui si muovono[13]; i liberalsocialisti partono dal liberalismo; Rosselli è un socialista che ha conosciuto la lezione di Gobetti, di Einaudi, con larghe conoscenze del marxismo e del pensiero politico anglosassone; i liberalsocialisti partono da Croce e non incontreranno mai strettamente Gobetti sul piano politico – forse Codignola è un’eccezione – mentre rientrano in quel filone ideale di rinnovamento della cultura laica che da Gobetti si origina[14].
    Aldo Capitini, pur non aderendo al nuovo partito, nel settembre del ’43 si reca a Firenze ove, prima in casa di Carlo Furno e poi in quella di Enzo Enriques Agnoletti, si svolge il primo convegno nazionale – naturalmente clandestino – del Partito d’azione. In quell’occasione Capitini motiva, in uno scritto preparato in precedenza e che legge ai convegnisti, i motivi per i quali dissente dalla scelta del partito. Capitini riassume qui la sua motivazione liberalsocialista che è tutta spirituale, incentrata sui valori dell’uomo proiettati in una nuova socialità a sua volta frutto di un processo di tipo rivoluzionario antagonistico rispetto al fascismo. Il liberalsocialismo è per Capitini una rivoluzione di valori, sintesi di libertà e di socialismo; da qui il carattere del movimento, «di essere non un partito e un programma esclusivo, ma un atteggiamento dell’animo, un aprirsi in una direzione, una speranza e una certezza sempre rinnovantisi»[15]. Politica e spiritualità si fondono in questa visione palingenetica del socialismo, ma il processo politico appare ora avulso dalla storia, non ci si pone cioè il problema concreto di come dare corso ai principi liberalsocialisti. La coscienza di quest’atteggiamento risiede nel convincimento che «il socialismo è per noi il punto di partenza e non di arrivo» che è «la persona, il suo sviluppo, la sua creatività, l’amore che culmina nel tu che volgiamo, amando le persone dall’intimo»[16]. Per Capitini, quindi, «il nuovo non sta in un nuovo partito, ma in un orientamento della coscienza che include in sé coloro che lavorano, pur con altra mentalità, nella stessa direzione. Dare alla trasformazione sociale una destinazione di libertà effettiva, non attenua l’appassionamento per questa trasformazione sociale»[17]. Il liberalsocialismo viene da Capitini ricondotto a un’elevata consapevolezza spirituale, alla creazione di nuovi valori di società che permettano agli uomini di potersi comprendere, parlare, capirsi, costruire una società fondata sul rispetto della libertà. Il liberalsocialismo, quindi, come socialismo spirituale di cui Capitini non specifica l’attuazione.
    L’entrata del movimento nel Partito d’azione ha il significato politico di individuare lo strumento tramite cui dare corpo concreto alla scelta ideologica compiuta. Quest’esigenza è particolarmente avvertita da Calogero che vede nel liberalsocialismo il perno ideologico del Partito d’azione. Secondo Calogero il liberalsocialismo è la dottrina della terza via e il partito è l’espressione politica di questa scelta. Ne consegue che per Calogero la nuova sintesi liberalsocialista è quella che legittima il partito nell’area socialista, espressione di un nuovo socialismo – appunto – saldamente ancorato alla libertà. Il Partito d’azione, quale forza fondata sul liberalsocialismo, rappresenta per Calogero il perno su cui incentrare il passaggio alla nuova fase della vita politica italiana. Al di là della visione ideologica che lo anima, da un punto di vista sociale esso vuole rappresentare un momento di unità, collocandosi al centro di un processo che permetta la creazione di un blocco sociale di tipo nuovo impedendo la scissione tra proletariato e piccola borghesia. La società liberalsocialista avrà questa caratteristica in quanto nello sviluppo economico moderno non si registrerà diversità fondamentale di interessi tra i due ceti. Il Partito d’azione garantisce il cemento di tali ruoli e apre una prospettiva riformatrice per il ceto medio.
    Diversa la posizione di Aldo Capitini, che pone il rapporto tra socialismo e democrazia come l’asse intorno al quale incentrare la funzione del partito: pur non cedendo al classismo, Capitini individua il riferimento del partito nell’ambito di una struttura civile che è, appunto, la società liberalsocialista. Nei confronti del partito e delle sue posizioni interne, l’impostazione capitiniana rimane fedele al taglio originario: al liberalsocialismo come nuova civiltà[18].


    La diaspora del dopoguerra

    Un’insopprimibile esigenza di dialogo e di comprensione per mantenere un terreno comune su cui continuare l’approfondimento e il dibattito sta alla base della rivista «Liberalsocialismo» diretta da Guido Calogero, vicedirettore Paolo Vittorelli, che avrà brevissima vita in quanto uscirono solo due numeri tra il gennaio e il febbraio 1946. Qui viene pubblicato lo scritto di Piero Calamandrei, Diritti politici e diritti sociali, che evidenza con chiarezza la concezione della democrazia per i liberalsocialisti. Calamandrei parte, nel suo ragionamento, citando significativamente Rosselli che nel Socialismo liberale aveva ricordato il valore rivoluzionario della conquista dei diritti civili da parte del terzo stato, per riferirsi al socialismo come la forma migliore per garantire il mantenimento delle libertà politiche espandendole alle nuove forze sociali emergenti. I diritti dell’uomo e del cittadino creavano una condizione che rappresentava, al contempo, il momento di arrivo e di partenza di un processo; la nascita e il significato della democrazia politica Calamandrei la riconduce a questo riferimento: «I diritti di libertà erano dunque lo strumento necessario e sufficiente per assicurare al popolo il governo dei migliori, e questo perenne rinnovamento dei ceti dirigenti attraverso la libera gara delle iniziative individuali in ascesa è il pregio essenziale della vera democrazia».
    È da osservare inoltre come, nello scritto di Calamandrei, le citazioni e i riferimenti continui a Carlo Rosselli riguardino esclusivamente le limitazioni storiche del liberalismo nei confronti delle forze emergenti che dovevano partecipare alla vita politica ma che si trovavano in condizioni economiche di inferiorità. Il liberalsocialismo, recuperando il valore costruttivo della libertà, è anche per Calamandrei un’eresia liberale: ossia del liberalismo ciò che va salvaguardato sono i principi di garanzia statuale che sanciscono i diritti.
    Il secondo numero della rivista esce negli stessi giorni che vedono il tramonto del Partito d’azione e con esso la diaspora di grandi energie morali e intellettuali che approderanno, per lo più, nell’arco delle forze in cui si articola la sinistra italiana e, in grandissima parte, nel Partito socialista. In questo contesto il liberalsocialismo, che si è riconosciuto a pieno titolo nell’azionismo, è travagliato più che mai dalla necessità di meglio chiarire se stesso sia nei confronti della tradizione culturale italiana che nel quadro politico immediato. Ne fa fede un breve e lucido saggio di Mario Delle Piane, Appunti sul liberalsocialismo[19], in cui si coglie con precisione l’esigenza di mediare le varie esigenze sopra ricordate. Delle Piane parte dal presupposto, tipicamente calogeriano, del liberalsocialismo come libertà concreta, pur ritenendo valido l’assunto crociano della storia come storia della libertà. La mediazione tra Calogero e Croce la si coglie nel dare alla libertà contenuto storico nell’ambito di una visione più generale che ne fa anche metodo per comprendere i problemi nuovi. Da questa angolazione il liberalsocialismo ha una sua ben connotata genuinità liberale, perché fa propria la visione globale della libertà; e allora, si domanda Delle Piane, perché quest’unione con il socialismo?
    Prima di fornire la risposta al quesito Delle Piane opera, tuttavia, una distinzione interessante nel solco della mediazione con il crocianesimo, rilevando il dualismo esistente tra liberalismo inteso come religione della libertà e liberalismo come dottrina politica determinata: il liberalsocialismo si ritrova nella prima accezione, mentre respinge in toto la seconda e quindi, a differenza di quanto sostiene Croce, è un genuino liberalismo, non impuro sul piano dei concetti, perché è soprattutto prassi politica: «Se è così, la legittimità del nome e l’uguale considerazione alle libertà politiche e alla giustizia sociale che esso significa, non dovranno più essere giudicate sul piano logico, ma su quello storico, ossia soltanto, per essere più precisi, alla luce della duttilità concretamente politica che da esso può ricavarsi nell’attuale condizione storica».


    L’ultimo sussulto

    Ciò che interessa Delle Piane è la critica politica: se il liberalismo, invece di esprimere un movimento politico ben determinato, difendesse le libertà politiche fondamentali, allora non vi sarebbero stati i presupposti per la nascita del liberalsocialismo stesso, che politicamente ha una sua funzione ben caratterizzata e uno spazio per la posizione conservatrice assunta dal Partito liberale «che nega di fatto l’idea di libertà, appunto perché la ritiene esaurita in una forma storica, la quale, in quanto storica, è transeunte e superabile. E, d’altra parte, questa odierna realtà ci mostra un Partito socialista che accetta sì, il giuoco liberale, il metodo democratico, ma lo accetto come mezzo, con la riserva più o meno esplicita di rifiutarlo una volta ottenuta la vittoria, proclamandosi ancora marxista con tutte le conseguenze illiberali che ne conseguono». La conseguenza del ragionamento è elementare: «la necessità di distinguersi dagli uni e dagli altri, il bisogno e il dovere insieme di chiarire una posizione che, semplicemente liberale nel senso più vasto, è insieme socialista e liberale per ciò che i due aggettivi significano comunemente nel linguaggio concretamente politico, ossia nella pratica individuazione delle correnti politiche del nostro tempo». Il liberalsocialismo, perciò, come sintesi delle rispettive parti di libertà che le due dottrine contengono per un’attuazione piena di una concreta libertà.
    Lo scritto di Delle Piane mi sembra rappresentare l’ultimo sussulto di chiarificazione nella lucida e disperata ricerca di una via nuova, diversa e originale, alla crisi della politica costituita nei canoni di tradizioni che finiscono per scadere nei miti che condizionano, e non sempre positivamente, il corso della storia. E certo anche il liberalsocialismo sembra avere la caratteristica di un mito, affascinato da una seduzione che in sé risolve le due idee-forza dell’umanità: la libertà e la giustizia.

    https://musicaestoria.wordpress.com/...cialismo-1983/



    [1] Guido Calogero, Difesa del liberalsocialismo, cit., pp. 191-192.
    [2] Secondo Leo Valiani si trattò di un’orgogliosa incomprensione: «Invece di valutare che si trattava della politicizzazione etica della cultura italiana, che la sua stessa religione della libertà implicava e che essa si svolgeva come opposizione al fascismo, ma altresì, secondo quanto egli stesso auspicava, come un’alternativa al comunismo, Croce mise in dubbio che l’alternativa poteva essere questa, che a tal fine gli sembrava troppo socialistica e infierì contro quelli che reputava gli errori filosofici della sintesi calogeriana, in cui ravvisava influenze gentiliane, che Calogero onestamente non negava d’aver subite, ma che aveva già superate. Del resto, a parte il rimprovero del gentilianeismo, quelle critiche Croce le aveva già mosse a Giustizia e Libertà» (cit., pp. 25-26).
    [3] Guido Calogero, L’ircocervo ovvero le due libertà, scritto nel 1942 e pubblicato nell’agosto 1945 su «Il Ponte», p. 382.
    [4] «Quel che solo (egli dice) può essere proposto come termine dell’aspirazione etico-politica, essendo l’ideale stesso del promovimento della vita, dell’elevazione dello spirito: mentre quello della giustizia è un secondario ideale giuridico-economico, che gli uomini amanti della libertà attueranno ovviamente caso per caso, secondo le esigenze storiche del momento. Nessun bisogno, quindi, di aggiungere (o peggio ancora incorporare, mercé sintesi o fusione o identificazione) al concetto della libertà quello della giustizia, che rispetto ad esso è di stirpe inferiore, e quindi disparato e incompatibile. Il supremo ideale etico-politico non può essere, di conseguenza, che l’ideale della libertà, l’ideale liberale, non mai quello sociale della giustizia, e tanto meno quello liberalsocialista della giustizia-libertà, che sarebbe addirittura un pesce-mammifero, o (per dirla con la parola aristotelica che piace al Croce) un traghefalo, un ircocervo» (ib., p. 383).
    [5] Guido Calogero, Benedetto Croce, «La cultura», 1966, pp. 162-163.
    [6] Su Etica e Politica, Bari 1967, pp. 263-267.
    [7] Prefazione di Armando Frumento, Firenze 1973, pp. 100-117.
    [8] Guido Calogero, L’ircocervo ovvero le due libertà, cit., p. 385.
    [9] Aldo Capitini, recensione ad Augusto Monti, Realtà del Partito d’azione, «Il Ponte», 1946, p. 175.
    [10] Cfr. Giovanni De Luna, Storia del Partito d’azione, Milano 1982, pp. 17-61.
    [11] Tristano Codignola, GL e Partito d’azione, in AA. VV., Giustizia e Libertà nella lotta antifascista e nella storia d’Italia, Firenze 1978, p. 424.
    [12] Scrive Codignola: «I giovani che attraverso i vari canali sopra ricordati riescono a ritrovare faticosamente il gusto della politica sotto la pesante cappa del conformismo fascista, acquisiscono progressivamente la consapevolezza che il ritorno al prefascismo e dunque al sistema liberale è impensabile, perché il fascismo ha posto problemi istituzionali ideologici sociali e psicologici che non possono essere affrontati semplicemente in termini di libertà politica. Nulla è ancora noto delle elaborazioni carcerarie di Gramsci; spenta la voce di Gobetti, sconosciuto ai più Marx. Accanto a Croce, pochi libri soddisfano questa ricerca di un nuovo liberale che sia intrecciato nel sociale. Nei contatti clandestini di quegli anni, s’affiancano alla “Critica” lo smilzo libretto laterziano di Capitini, Elementi di un’esperienza religiosa (del ’37); più tardi, La scuola dell’uomo di Calogero (del ’39)» (op. cit., p. 428). Ricorda Mario Delle Piane: «Parecchi avevano dietro di loro il pensiero di Gentile, da cui si staccarono talvolta con fatica, per approdi che in certi casi non erano di piena rottura con quell’esperienza intellettuale» (Rapporti tra socialismo liberale e liberalsocialismo, in Giustizia e Libertà nella lotta antifascista e nella storia d’Italia, cit., p. 419).
    [13] Osserva Codignola: «Rosselli pone l’accento sul carattere deterministico corporativo protezionista del socialismo del suo tempo per ritrovare nell’indispensabile rapporto fra socialismo e libertà la giustificazione teorica d’un socialismo moderno, nel quale i principi della libertà, come conquista universale, trovino un’espansione conseguente in chiave di nuovo assetto sociale, che gli dia concretezza in termini di eguaglianza fra gli uomini; i giovani crociani che andranno a formare in quegli anni il movimento liberalsocialista partono da sponde ideologiche liberali, e si spingono a separare i principi della libertà dalla connessa interpretazione economica liberistica fino a ritrovare proposte istituzionali di assetto della società che si avvicinano alla tradizione socialista. La conquista dell’indistruttibile nesso di socialismo e libertà, formulato nell’unità anche terminologica di liberalsocialismo strenuamente difesa da Guido Calogero, avvicina il loro iter mentale più all’esperienza di Gobetti che a quella di Rosselli; ma il loro attivismo è di stampo rosselliano e la degenerazione staliniana, più intuita che conosciuta, li avvicina più a Rosselli che a Gobetti nella valutazione dell’esperienza comunista (intorno alla quale si conosceranno più tardi le pagine di Andrea Caffi» (op. cit., pp. 428-429).
    [14] Il valore della scelta etimologica lo ha spiegato lo stesso Calogero: «Preferivamo parlare di liberalsocialismo, piuttosto che di socialismo liberale per sottolineare anche nel termine il fatto che la nuova sintesi rappresentava il riconoscimento della complementarità indissolubile di due aspetti della stessa idea, e non già la postuma e ibrida unificazione di due concetti, che se fossero già stati due non sarebbero mai potuti diventare uno. Né il liberalismo era sostantivo, né il socialismo era aggettivo, né viceversa, non c’era diade di sostantivo e aggettivo, ma un sostantivo unico, che si riferiva etimologicamente ai due vecchi nomi per dare una prima indicazione all’ascoltante, ma in realtà designava un solo e nuovo concetto» (Difesa del liberalsocialismo e altri saggi, cit., p. 193).
    [15] Aldo Capitini, Orientamento per la nuova socialità, in Nuova socialità e riforma religiosa, Torino 1950, p. 92.
    [16] Ib., p. 93.
    [17] Ib., p. 94.
    [18] Sostanzialmente fuori dalla «terza via» ricercata da Calogero; alieno alla vicenda del partito, Capitini batte la sua via solitaria: «Il liberalsocialismo, pensavo, negli anni del fascismo, dovrà far di tutto per portarsi in mezzo alle moltitudini e volgerle via dalla tentazione materialistica e totalitaria, alla libertà. Per far questo bisogna assimilare pienamente l’esigenza socialistica, cioè la compresenza reale dell’umanità lavoratrice, come soggetto della storia, come proprietario dei mezzi di produzione, come avente nei suoi membri uguali possibilità di benessere, di sviluppo, di cultura, di fruizione dei beni della civiltà». (Aldo Capitini, Democrazia e liberalsocialismo, «Il Mondo», 1° settembre 1945).
    [19] «Osservatorio», II, 1946, n. 4, pp. 151-156.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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