In Piero Ignazi, “I partiti in Italia dal 1945 al 2018”, Il Mulino, Bologna 2018

Il Partito repubblicano italiano (Pri) ha incarnato una tradizione specificamente nazionale, quella legata alla formazione della nazione nella sua versione «rivoluzionaria», democratica e repubblicana, simboleggiata dalla figura di Giuseppe Mazzini. Il Pri affonda quindi le proprie radici nella storia italiana, addirittura nella sua fase preunitaria. Il peso di questa lunga tradizione costituirà una dote, una risorsa identitaria e simbolica fortissima, ma anche un handicap che sarà (abilmente) superato solo negli anni Sessanta del secolo scorso, grazie alle capacità di una grande leader politico con il quale il partito si identificherà a lungo, Ugo La Malfa.
Proprio per l’attaccamento alle sue radici, il Pri mantiene nel periodo della guerra di liberazione una posizione distaccata e autonoma, rifiutando di entrare nel Comitato di liberazione nazionale (Cln) a causa dell’indeterminatezza sulla questione istituzionale: la scelta per la repubblica non poteva essere messa in secondo piano per il partito. Quindi, pur essendosi immediatamente ricostruito dopo il 25 luglio 1943, grazie soprattutto all’iniziativa di repubblicani storici come Giovanni Conti, il Pri non aderisce al Cln né partecipa ad alcun governo, fino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
La ricostruzione del Pri avviene nel nome degli ideali storici: sul piano economico-sociale si sottolinea ed enfatizza la concezione mazziniana dell’unione tra capitale e lavoro e dello strumento cooperativo, su quello istituzionale si affaccia l’ipotesi di un’Italia federale con istituti di democrazia diretta, cara a Carlo Cattaneo. Fino al 1948, sotto la guida di Randolfo Pacciardi, eroe della guerra civile spagnola, la sua collocazione è quella di un partito di sinistra democratica in cui risuonano forti accenti anticapitalisti (al XIX Congresso del 17-20 gennaio 1947 vengono chiaramente auspicati «il superamento dell’economia capitalista»), una scelta neutralista in politica internazionale e un atteggiamento di apertura alle sinistre, al punto di fare appello a tutte le forze antifasciste per cooperare armoniosamente alla ricostruzione del paese.
La riattivazione del partito si incentra sulle zone dove, già nel periodo prefascista, raccoglieva i maggiori consensi: la Romagna, in primis, poi le Marche, il litorale toscano e l’alto Lazio. In queste aree, il partito è una sorta di partito di massa, non solo per l’alto numero di iscritti ma per la rete di associazioni e di strutture che, nel tempo, ne avevano consolidato la presenza: le cooperative, le case del popolo, le associazioni collaterali, i sindacati. Numeri così grandi e articolazioni organizzative così estese sono però assolutamente isolati: a livello nazionale gli iscritti al partito sono poche decine di migliaia e l’organizzazione è tutt’altro che solida e territorialmente omogenea. Ciononostante, nel primo congresso postbellico (XVIII), tenutosi a Roma dall’8 al 12 febbraio 1946, il Pri si struttura seguendo il modello del partito di massa. Questa ipotesi di sviluppo organizzativo è sostenuta dai risultati ottenuti nelle prime amministrative della primavera del 1946, e confermati nelle elezioni per la Costituente del giugno successivo perché, a fronte di dati nazionali modesti (5 e 4,4% nelle due elezioni), raggiunge valori elevati nelle Marche (16.4%), in Umbria (11,4%), in Romagna (le province di Forlì e Ravenna sono sopra il 20%), mentre nel Lazio è addirittura il primo partito di sinistra con il 14,8%. Il regresso alle elezioni del 1948, che lo porta al 2,5%, fa sfumare molte illusioni.
Un partito «anticapitalista», neutralista e potenzialmente aperto a sinistra come il Pri dei primi anni della democrazia si converte in breve alla collaborazione con la Democrazia cristiana ed entra nel governo De Gasperi V (1948-1950), in coabitazione con liberali e socialdemocratici. Questa scelta, che sarà strategica per tutti gli anni Cinquanta, arresta, e inverte, la propensione verso sinistra: tale brusco mutamento di rotta viene motivato come necessario per salvaguardare le istituzioni democratiche minacciate dalla destra monarchica (e poi neofascista) e dal comunismo, interno e internazionale (al punto che il precedente neutralismo viene sostituito con un filoatlantismo a tutta prova). In sostanza, il Pri si «sacrifica» alla collaborazione con liberali e democristiani in nome dell’interesse superiore della nazione.
L’ulteriore arretramento alle elezioni del 1953 (1,6%), che riduce il partito ai minimi termini, innesca un ripensamento nella strategia. La difesa delle istituzioni con cui era stata motivata l’adesione alla formula centrista rischia di ridurre il partito a un mero portatore d’acqua per la Dc, proprio quando la stessa Dc sta mandando i primi segnali di intesa verso il Psi. La ridefinizione delle coordinate ideali e strategiche del partito porta alla riappropriazione di elementi caratterizzanti e tradizionali, come la connotazione laica dello stato e l’estensione dei diritti civili, e all’adozione di nuove tematiche come l’apertura a un riformismo sociale, sull’esempio del New Deal americano e del laburismo inglese. Sul primo versante, quello laico e libertario, il partito si avvicina al neonato Partito radicale (Pr), composto prevalentemente da una scissione del Pli alla fine del 1955, mentre sul secondo il Pri va all’incontro-scontro con il Psi.
Per un partito ridotto ai minimi termini, le cui performance elettorali sono ulteriormente aggravate dalle elezioni del 1958 (1,4%), dove si presenta unitamente al Pr, e minato da un’accesa conflittualità interna tra Pacciardi e La Malfa, l’obiettivo di rappresentare una proposta laica e riformista autonoma sembra sproporzionato ai mezzi. Tuttavia, il Pri, per quanto minuscolo, dispone di due risorse importanti: la prima è la sua collocazione «strategica» nello schieramento politico, in una posizione di cerniera, di ponte, tra socialisti e democristiani; la seconda, la caratura della leadership repubblicana. Benché il segretario del partito sia dal 1954 Oronzo Reale, il vero leader è Ugo La Malfa. L’autorevolezza di La Malfa non è tanto nella sua biografia personale di antifascista – quella di Pacciardi è ancora più ricca – quanto nella modernità e nell’ampiezza della sua visione dello sviluppo socioeconomico. Quasi in parallelo con il rinnovamento culturale operato da Malagodi sul Pli, anche il Pri, sotto l’impulso di La Malfa, interpreta la società italiana come una società industriale moderna con problemi ed esigenze nuovi. Da questa analisi discendono proposte come la politica dei redditi in concertazione con sindacati e imprenditori, la programmazione economica, l’intervento mirato dello stato in economia, la necessità dell’aggancio all’Europa e, in termini di referenti sociali, una maggiore attenzione al mondo imprenditoriale e professionale.
Avvicinandosi al centro-sinistra, il Pri cambia pelle (anche stilisticamente, dato che è il primo partito italiano ad affidarsi a un art director professionale per la sua comunicazione visiva): abbandona i riferimenti classici mazziniani come l’unione nelle stesse mani di capitale e lavoro, benché lo stesso La Malfa non dimenticherà mai di rendervi omaggio, e cerca di presentarsi come una forza di sinistra democratica moderna in sintonia con le esperienze delle socialdemocrazie nordiche. Progressivamente, La Malfa trascina il partito, di cui assume la guida diretta nel 1965, sul terreno del riformismo democratico, sottolineando sempre più la differenza con i liberali, relegati tra le forze conservatrici.
L’azione repubblicana in favore del centro-sinistra si corona con il governo Fanfani IV del 1962-63. La partecipazione repubblicana in quel governo è marcata dalla famosa «Nota aggiuntiva» presentata da La Malfa, ministro dei Bilancio, con la quale si indicano nella programmazione, nella politica dei redditi e nella piena integrazione nel Mercato comune europeo gli obiettivi di fondo di un governo riformatore. Questo approdo viene però pagato con la rottura con Pacciardi che, da tempo in contrasto con la linea politica della segreteria, viene espulso nel 1964 per aver votato contro il governo Moro, a cui partecipano anche i repubblicani.
Liberatosi dall’ingombrante presenza di Pacciardi, il Pri accentua la sua vocazione di interlocutore di tutta la sinistra, incalzando il Pci e la Cgil sui problemi concreti dello sviluppo socioeconomico. Una provocazione che, al di là di qualche occasionale ed enfatizzato episodio, non produce risultati apprezzabili; tuttavia, caratterizza il partito sempre più come «l’altro polo della sinistra», per seguire lo slogan del Pri in quegl’anni.
A queste ambizioni corrisponde anche uno sforzo di ristrutturazione organizzativa, nel segno di un adeguamento sempre più stretto al modello del minipartito di massa: si promuove la costituzione di nuove sezioni, lo sviluppo delle associazioni parallele, l’apertura del partito ai non iscritti, e si attua un profondo rinnovamento dei quadri dirigenti, con l’immissione di una nuova generazione nella direzione nazionale, tanto che, al XXX Congresso (7-10 novembre 1968), entrano 8 nuovi membri su 20 componenti. Il Pri acquista sempre più l’immagine di partito delle professioni liberali e intellettuali, lasciando sullo sfondo, quasi come elemento folklorico, la sua tradizione risorgimentale. Le varie definizioni che lo dipingono come «minoranza consapevole», «coscienza critica», «grillo parlante», ne sottolineano l’autorevolezza e la competenza, ma allo stesso tempo l’aspetto minoritario. Come già lamentava Oronzo Reale nel 1947, il Pri è una sorta di corpo estraneo nel paese: l’arretratezza della cultura civica italiana, il predominio di visioni «dogmatiche» su quella laica, l’assenza di senso dello stato, sono tutti ostacoli per chi si presenta come un pezzetto d’Europa trapiantato nella penisola.
I consensi raccolti tra la classe dirigente, che in gran parte abbandona il Pli ormai ossificato dalla dominazione malagodiana, e una buona stampa – il direttore del «Corriere della Sera», Giovanni Spadolini, diventerà senatore repubblicano nel 1972 – non bastano però a fare da catalizzatori elettorali: per tutti gli anni Sessanta il partito sopravvive solo grazie al serbatoio di voti assicurato dalla Romagna e dalla Sicilia occidentale, che forniscono gli unici quozienti pieni, per eleggere una manciata di deputati e senatori. Solo a partire dagli anni Settanta il partito raggranella qualche decimo di punto in più superando così il rischio dell’estinzione; ma non va oltre. I suoi risultati elettorali continuano a oscillare tra il 2 e il 3%.
La vivacità intellettuale e propositiva degli anni Sessanta si smorza nel decennio successivo. Il Pri attraversa i primi anni Settanta senza riuscire a incidere, né sulle scelte complessive, né su aspetti particolari come il deterioramento della finanza pubblica, problema al quale dedica molta premura. In effetti, sembra essersi esaurita sia quella funzione di stimolo allo svecchiamento della cultura massimalistica e marxisteggiante operata nei confronti del Psi, sia il ruolo di collegamento tra sinistra e cattolici. Un ultimo sussulto in questa direzione è fornito dall’avallo che il Pri dà all’incontro tra comunisti e democristiani. Dopo le elezioni del 1976, infatti, La Malfa definisce «ineluttabile» la prospettiva del «compromesso storico». Ma tre anni dopo, nella primavera del 1979, sarà lui stesso a formalizzare la fine dell’esperienza della «solidarietà nazionale», cercando di formare un governo senza l’appoggio del Partito comunista che chiuda definitivamente quella stagione. L’opposizione del Pci all’ingresso dell’Italia nel Sistema monetario europeo (Sme) delude profondamente La Malfa, il quale aveva tanto investito della trasformazione riformista e «socialdemocratica» del partito di Berlinguer.
Il fallimento strategico del Pri, acuito dall’insuccesso dell’incarico a La Malfa per formare un governo – primo non democristiano a ottenere questo mandato -, viene drammatizzato dall’improvvisa scomparsa dello stesso leader poco tempo dopo. Per un partito che si era identificato in maniera pressoché assoluta con il suo leader, la perdita è gravissima e fa dubitare della possibilità della sua stessa sopravvivenza. Invece, alle elezioni del 1979, il Pri conserva gli stessi voti.
Queste elezioni evidenziano alcuni tratti che andranno accentuandosi negli anni successivi: il peso delle zone di maggior forza (le otto province più repubblicane) tende a diminuire, il voto del Triangolo industriale supera quello della zona meridionale, e il partito raccoglie praticamente la metà dei suoi voti (49,8%) nelle aree urbane (sopra i 50 mila abitanti).
Dopo una fase di transizione il vuoto lasciato da La Malfa viene occupato da una personalità del calibro di Giovanni Spadolini che insieme a Bruno Visentini, altra figura di spicco del partito, rappresentano credibilmente il partito presso quei ceti imprenditoriali, professionali e della cultura ai quali da anni il partito fa riferimento. Le prospettive dei repubblicani mutano improvvisamente e positivamente quando Spadolini forma, nel giugno del 1981, il primo governo a guida non democristiana della repubblica. È un momento storico che segna l’inizio della lunga e lenta crisi della Dc, costretta a cedere la poltrona di Palazzo Chigi a un altro rappresentante. Ed è un momento storico anche per il Pri che si trova catapultato al vertice del potere esecutivo. Il partito passa dal rischio dell’estinzione, a seguito della morte del suo grande leader, al più grande e imprevedibile successo politico. Nei diciotto mesi del governo Spadolini, che inaugura la formula del «pentapartito» (dai socialisti ai liberali), il Pri riesce a capitalizzare una quota di consensi che ritroverà nelle urne alle elezioni del 1983: in quell’occasione raggiunge infatti il suo massimo storico (5,1%), raddoppiando i consensi nel Triangolo industriale e arrivando al 7% nelle città sopra i 100 mila abitanti. Per la prima volta il partito distanzia tanto il Psdi quanto il Pli.
Il successo fa balenare alla leadership repubblicana la prospettiva di rappresentare un polo di attrazione per quell’elettorato «centrale» che ha abbandonato massicciamente la Dc in quelle elezioni. Come afferma Spadolini nel consiglio nazionale del 9-10 settembre 1983, «La fase del Pri “coscienza critica” del sistema […] è terminata. Oggi il nuovo peso elettorale, il nuovo disegno strategico, il nuovo rapporto tra forze laiche e forze cattoliche […] ci attribuiscono una funzione più ampia, di guida politica e non più soltanto di coscienza critica». In effetti, il Pri da tempo non enfatizza più, come nei decenni precedenti, la sua collocazione a sinistra ma preferisce glissare su questo aspetto e sottolineare piuttosto le sue caratteristiche di competenza, serietà, affidabilità e onestà. In altre parole, il Pri si candida a essere «il partito leader della democrazia laica italiana».
Il Pri punta a giocare in proprio un ruolo centrale, non più a fare da cerniera o da «grillo parlante». Il tentativo è corroborato da un notevole irrobustimento organizzativo (le sezioni raddoppiano rispetto a vent’anni prima – da 987 a 1.981 – e gli scritti raggiungono quasi quota 100 mila) e da un forte rinnovamento nei quadri dirigenti (entrano in direzione 16 nuovi membri su 47). Il proposito spadoliniano di rappresentare i «ceti emergenti» stride tuttavia con l’accentuata meridionalizzazione della forza organizzata del partito: il 60% degli iscritti e il 50% delle sezioni sono infatti nelle regioni del Sud. Inoltre, mentre nel 1964, prima della scissione di Pacciardi, il 33% degli iscritti era emiliano-romagnolo, nel 1983 il loro peso è passato al 13,5%, a fronte di un 23,5% di iscritti siciliani.
L’ambizione, mai carente tra i repubblicani, è costretta però a fare i conti con la concorrenza inedita del Psi. L’ascesa di Bettino Craxi e la sua lunga permanenza alla presidenza del Consiglio, dal 1983 al 1987, e la contemporanea rivitalizzazione democristiana sotto la guida di Ciriano De Mita, sottraggono al Pri quel ruolo di possibile referente centrale dello schieramento politico per fasce più ampie di elettorato. I tentativi per smarcarsi dalla tenaglia socialista e democristiana non sortiscono effetti, anzi, in alcune occasioni, si rivelano controproducenti, come nel caso del contrasto fra la posizione filoamericana di Spadolini, ministro degli Esteri, e quella «nazionale» di Craxi nella crisi di Sigonella, dove si scontrarono marines americani e forze armate italiane. Schiacciato tra Psi e Dc il partito perde consensi alle elezioni del 1987 (-1,4% punti percentuali). I sogni di gloria svaniscono. A nulla è servita l’espansione organizzativa che l’aveva portato ad avere 121 mila iscritti e 2.450 sezioni.
Il ridimensionamento delle ambizioni repubblicane spinge il Pri, guidato dalla nuova segreteria di Giorgio La Malfa (figlio di Ugo), eletto nel settembre 1987, a manifestare una sempre maggiore insoddisfazione nei confronti della politica dei governi «pentapartito». Dopo aver dichiarato che, «per l’ultima volta», il partito sarebbe entrato in un governo (Andreotti VI, luglio 1989) il cui programma non indicava come priorità assoluta il rigore finanziario, nel 1991 il Pri passa all’opposizione. Un ruolo che sembra più congeniale alla leadership lamalfiana, la quale cavalca molti e disparati temi per raccogliere una protesta che monta: dall’opposizione al provvedimento di sanatoria degli immigrati clandestini, con la quale il Pri vuole contendere spazio alla Lega lombarda, al sostegno ai referendum elettorali di Mario Segni in polemica con la Dc; dalla proposta di un’alleanza democratica con altri gruppi ed esponenti politici (di cui l’elezione a sindaco di Catania del giovane repubblicano Enzo Bianco con una lista molto eterogenea rappresenta il maggior successo), alla critica moraleggiante dell’invadenza dei partiti.
Questo profilo più battagliero non seve però a rilanciare in maniera decisiva il partito. Il leggero incremento (+0,7 punti) alle elezioni del 1992 è molto inferiore alle aspettative. Tuttavia, il XXXVIII Congresso (11-14 novembre 1992) conferma la linea dell’opposizione al governo e della riforma del sistema politico, appoggiando i progetti di modifica costituzionale e favorendo la costituzione di una nuova formazione di «alleanza democratica». A dispetto dell’opposizione di due leader storici come Spadolini e Visentini, questa linea vince con più dell’80% dei consensi e permette a La Malfa di promuovere una nuova leva di dirigenti, attraverso un fortissimo ricambio nella dirigenza nazionale.
In sostanza, il Pri cerca di connotarsi sempre più come un partito «antipartito», estraneo al sistema di corruzione e di degrado morale: un’operazione che potrebbe essere fruttuosa alla vigilia del crollo del sistema, se il partito non avesse la zavorra gigantesca di essere (ed essere percepito come) espressione della classe dirigente, protagonista e quindi corresponsabile dell’azione governativa a livello nazionale e locale e, infine, abbondantemente compartecipe della pratica di lottizzazione.
Se a tutto ciò si aggiunge lo sfregio di immagine causato dal coinvolgimento, prima di esponenti di spicco del partito di Milano nell’inchiesta Mani pulite, poi alla comunicazione giudiziaria per finanziamenti illeciti allo stesso segretario nazionale, la speranza di giocare un ruolo anche nella trasformazione del sistema svanisce. Le dimissioni di La Malfa nel febbraio del 1993 producono uno sbandamento profondo nel partito, con una conseguente emorragia di iscritti. La nuova segreteria, assunta pro tempore da Giorgio Bogi, porta a compimento il progetto di presentarsi alle elezioni politiche del 1994 nelle file di Alleanza democratica, un’aggregazione di varie componenti laiche, parte dello schieramento progressista. Ma La Malfa, riassunta la segreteria nel gennaio 1994, propone un improvviso mutamento di alleanze schierandosi a favore della confluenza nel Patto Segni. Questa decisione, approvata con soli sei voti di scarto, ha effetti dirompenti e spacca in due il partito: l’ex segretario Bogi, un padre nobile come Visentini, e altri dirigenti storici mantengono la posizione favorevole ad Alleanza democratica e, per questo, vengono dichiarati decaduti dal partito. Ad acuire la crisi del partito rimasto nelle mani di La Malfa arriva l’insuccesso clamoroso del Patto Segni (un eletto), mentre sono quattro gli esponenti repubblicani entrati in parlamento nella lista di Alleanza democratica. Né miglior sorte arride alla lista del Pri lamalfiano alle europee del giugno del 1994, dove raccoglie appena lo 0,7%.
Infine, la sconfitta per un solo voto di Giovanni Spadolini (nel frattempo nominato senatore a vita) nell’elezione a presidente del Senato chiude emblematicamente un ciclo storico.
Il Pri di Giorgio La Malfa, che aveva tentato di intercettare gli umori protestatari che montavano nell’opinione pubblica, è rimasto travolto da quella stessa ondata che chiedeva novità ben più radicali e credibili. Era un esercizio di alto equilibrismo proporsi come interprete di una protesta antiestablishment quando il partito era connotato come espressione dell’establishment a tutto tondo. In più, le sue commistioni nel sistema tangentizio hanno abbattuto il capitale di credibilità che il Pri aveva cercato di costruirsi nel tempo. Se nemmeno negli eredi di Ugo La Malfa si poteva aver fiducia, allora la borghesia delle professioni e delle imprese non aveva più ragioni per sostenere un piccolo ma virtuoso partito. Tanto valeva passare armi e bagagli a Forza Italia.
Dopo il terremoto di Tangentopoli il microcosmo ufficiale del Pri, mantenuto in vita da La Malfa, alle elezioni del 1996 si orienta a favore della coalizione di centro-sinistra e si presenta in una lista comune insieme al Partito popolare (Ppi), a sostegno del candidato premier Romano Prodi. In quella lista elegge due suoi candidati, mentre altri ex repubblicani vengono confermati nelle liste del Pds.
L’acconciarsi all’interno dell’Ulivo non soddisfa La Malfa. Dopo aver espresso a più riprese – rinverdendo un’antica tradizione – la propria insoddisfazione per l’attività del governo dell’Ulivo (anche sull’Europa e sull’ingresso nell’euro il leader repubblicano si esprime criticamente), a fine legislatura, nel 2001, annuncia il cambio di coalizione. Nel congresso convocato per sancire questo passaggio emergono però voci critiche che portano alla fuoriuscita di alcuni esponenti, tra cui Luciana Sbarbati, favorevoli al mantenimento dell’alleanza a sinistra. Il Movimento dei repubblicani europei della Sbarbati troverà poi accoglienza nell’Unione per Prodi.
La rottura non pregiudica le sorti del partito. Il Pri lamalfiano trova finalmente un riconoscimento con l’ingresso dello stesso leader al dicastero degli Affari europei in occasione del rimpasto del Berlusconi III nel 2005. Ma è un canto del cigno. Pur rientrato in parlamento nel 2006 e nel 2008 con Forza Italia prima e con il Pdl poi, il Pri scompare dai radar della politica. La Malfa, unico eletto nel 2008, abbandona Berlusconi in occasione del voto di fiducia del dicembre del 2010 sancendo una volta di più l’irrequietezza di un leader mai a proprio agio con le altre forze politiche.
Per quanto la sigla Pri sussista e si sia addirittura ripresentata autonomamente, dopo più di vent’anni, alle elezioni del 2018, senza alcun successo, la sua storia è da tempo conclusa. Come gli altri partiti laici anche il Pri è stato affondato dalla tempesta di Mani pulite e dall’emergere impetuoso di nuove forze politiche, in particolare Forza Italia, che hanno svuotato il suo serbatoio elettorale.
Il partito risorgimentale per eccellenza tramonta definitivamente. Nemmeno la caratura intellettuale e l’intelligenza politica di una grande personalità come Ugo La Malfa sono riuscite a insediare stabilmente nell’arena politica un’offerta politica di sinistra moderata, riformista e laica aperta ai ceti produttivi e alla classe intellettuale. Forse la società italiana non era ricettiva, oppure il messaggio era troppo elitario. O, ancora, altri attori politici a sinistra (Psi prima, postcomunisti poi) e a destra (Forza Italia) gli hanno tolto spazio politico finendo per mantenerlo in una posizione minoritaria. E infine gli eventi del 1994 lo hanno travolto.

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