di Armando Saitta - «Società», a. VII (1951), fasc. 4, pp. 746-758. Recensione a Rosario Romeo, “Il Risorgimento in Sicilia”, Bari, Laterza, 1950, pp. 422.
Solidità di documentazione, armonica architettura delle parti che è poi piena capacità di dominare un argomento assai complesso, acuta perspicacia e finezza critica non disgiunte da una costante serenità di giudizio sono i pregi che balzano subito agli occhi di chi legge il bel volume del Romeo, il quale costituisce la terza delle opere pubblicate sotto l’egida dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli. Limitarsi tuttavia alla semplice constatazione di questi pregi sarebbe dir troppo poco; Il Risorgimento in Sicilia infatti non è soltanto un libro di storia tecnicamente lodevole: è anche, osiamo dirlo con piena consapevolezza del significato delle parole adoperate, un avvenimento culturale e politico di importanza non piccola. Chiariremo oltre il significato «politico» dell’opera; per ora ci preme di mettere in risalto soprattutto l’aspetto di novità culturale del volume in questione, tanto più che intento dell’autore è stato quello di fare un libro di storia, e non altro.
Il Romeo è un giovane. Una bella speranza lo avevano rivelato i pochissimi articoli da lui pubblicati fino ad ora; oggi è il caso di dire che la storiografia italiana ha acquistato una nuova, validissima recluta dalla personalità già matura e dall’ingegno solido ed acuto. Restando fermi a tale piano di valutazione culturale-storiografica siamo portati a fare due osservazioni pregiudiziali.
La prima è quella che, ai nostri occhi, Il Risorgimento in Sicilia segna veramente l’atto di decesso, e speriamo in maniera definitiva, della storiografia risorgimentale (o almeno di tanta parte di essa) la quale se è pur vero che da decenni aveva superato lo stadio della semplice agiografia o quello meramente erudito del contare il numero dei morti di un qualsivoglia patrio scontro o il numero degli anni di galera inflitto ai singoli patrioti, tuttavia era sempre rimasta ferma alla impostazione di esaminare i singoli ex-stati italiani in funzione della futura unità nazionale, se non proprio della futura soluzione monarchico-nazionale. Anche di recente la pur, per tanti aspetti, pregevole Storia della Sicilia dal secolo XI al XIXdi F. De Stefano, arrivando al secolo XIX, aveva ricalcato il vecchio schema e la vecchia impostazione. Nel Romeo nulla di tutto questo: la Sicilia è considerata come un organismo storico che deve essere esaminato non in confronto, in paragone con l’organismo più grande che un giorno l’avrebbe conglobato in sé, l’Italia cioè, ma è considerata in sé stessa, nella sua interna struttura storica, coi suoi peculiari problemi e il termine di paragone diventa l’Europa tutta, ossia la civiltà liberale e democratica della borghesia ottocentesca, e non più l’Italia sola o tanto meno il Regno di Napoli, anche se a quest’ultimo riguardo occorra osservare che, se la freschezza del libro del Romeo deriva in buona parte dell’aver guardato alla Sicilia con occhi del tutto scevri dalle solite impostazioni della storiografia napoletana (giustamente l’autore osserva come questa non sia esente da un certo municipalismo), tuttavia è stato forse troppo allentato il contatto con Napoli. L’opera in questione schiva totalmente il vecchio, astratto calco di natura prevalentemente ideologica e i suoi problemi non sono pertanto l’evolversi e l’intrecciarsi di tesi programmatiche come monarchia o repubblica, separatismo o federazione, autonomia o annessione, così come non lo è la ricerca retorica e pseudo-storiografica di un «popolo siciliano», naturalisticamente inteso; i suoi problemi sono invece costituiti dalla indagine sull’origine e sullo sviluppo della classe dirigente, economico-politica, siciliana, in seno alla quale quelle astratte tesi programmatiche divengono tante fasi di un unico processo di sviluppo. Abbiamo così nel Romeo il primo vero, autentico lavoro che esamini l’avvento dell’Italia unita attraverso lo studio di uno dei suoi componenti.
Una simile esigenza, è pacifico, non è stata del tutto assente nella storiografia italiana prima del lavoro del Romeo: il negarlo sarebbe solo prova di madornale ignoranza; quel che qui si vuole mettere in risalto è unicamente il fatto che se la storia dei singoli ex-stati italiani è stata spesso fatta – e piuttosto bene che male – tuttavia si era riusciti a conservare e mantenere l’esatta impostazione del problema fino all’esame del periodo «riformista» incluso e, giungendo al XIX secolo, si era invece sempre smarrita l’esatta via per ricadere nell’antistoricismo (sostanziale, non certo formale) di tanta parte della storiografia risorgimentale. L’aver tenuto fede al proprio concetto direttivo, senza lasciarsi fuorviare dai tradizionali problemi sulle rivoluzioni del 1820 o 1848, sull’influenza mazziniana, ecc., costituisce il titolo migliore dell’opera del Romeo. Indubbiamente, ed è ben lungi dalle nostre intenzioni il sottovalutare tale fatto, lo sforzo del giovane autore è stato grandemente facilitato dall’essere stata nell’ultimo ventennio al Sicilia oggetto di più di una accurata e intelligente analisi, per merito soprattutto di E. Pontieri e di N. Cortese; tuttavia esso ci appare tanto più meritorio quanto più Il Risorgimento in Sicilia esce in un tempo in cui vivissima è l’esigenza di una revisione profonda della storiografia sull’unità italiana. Non è possibile al riguardo passare sotto il silenzio il valore «pedagogico» (di pedagogia involontaria, e appunto per questo più efficace) delle pagine del Romeo: in un momento in cui la vecchia storiografia monarchico-conservatrice fa acqua da tutte le parti, in cui più vivo si fa il bisogno di rispettare il volto complesso e poliedrico del Risorgimento senza stenderlo, fin dall’inizio, sul letto dii Procuste della soluzione monarchica del 1859-60, il Romeo senza assumere pose gladiatorie e senza scambiare il «Dover fare» col «Fare», le dichiarazioni programmatiche col concreto lavoro di ricostruzione storica, addita la strada maestra per la quale occorre porsi per svecchiare la storiografia risorgimentale. E questo è merito non piccolo.
La seconda osservazione pregiudiziale è che, allo stesso modo con cui questo libro inizia una nuova pagina nella storiografia risorgimentale, esso è un chiaro ed inequivocabile indice di come la gioventù odierna, nei suoi rappresentanti più vivi e vivaci, senta il bisogno di una storiografia dal respiro assai più ampio del tradizionale storicismo di stampo idealistico. Scrivendo ciò, si spera di non essere fraintesi: Il Risorgimento in Sicilia era appena uscito, che sul «Mondo» P. Gentile dava al Romeo la qualifica di marxista (e meglio sarebbe dire la «taccia» di marxista, giacché l’incomprensione delle affermazioni culturali del Romeo, della quale l’articolo in questione dava prova, era pari solo al livore antimarxista e anticomunista che balzava evidente da ogni rigo), suscitando così una lettera dell’autore, nella quale veniva declinata tale qualifica e riaffermata al riguardo la propria adesione allo storicismo del Croce.
Non abbiamo, quindi, il diritto di contestare l’esplicita dichiarazione dell’interessato, anche se dobbiamo osservare che nel riaffermare la guida crociana sul proprio ideale storiografico egli – spinto forse dalla necessità polemica – abbia dimenticato che nelle sue pagine accanto allo storicismo del filosofo napoletano scorrano rivoli non meno evidenti di quella scuola economico-giuridica che nel Volpe prima maniera ebbe il suo rappresentante più noto; dobbiamo anzi dichiarare che un esame spassionato ed obiettivo di Il Risorgimento in Sicilia ci mostra un Romeo assai lontano dal cogliere certi aspetti di fondamentale importanza del marxismo. Tuttavia, in quanto analizzatori di una storia culturale in atto crediamo di avere il diritto di dichiarare esplicitamente che, a nostro avviso, proprio il libro del Romeo mostra come in realtà il Croce nella mente delle giovani reclute d’ingegno più vivo ed aperto sia stato, se non proprio superato, comunque non seguito in quel processo d’involuzione hegelianizzante (nel senso di metafisica della «libertà»), che da qualche decennio domina sempre più il suo pensiero. Marxista, dunque, il Romeo? Lasciamo stare le qualifiche; tuttavia non possiamo non riconoscere che – ne abbia o meno consapevolezza piena il suo autore – il libro del Romeo rivela come la concezione marxista sia ormai in Italia divenuta un’atmosfera culturale dalla quale non si sfugge: e ciò ha valore ancor maggiore di sintomo proprio per il fatto che il Romeo vive entro l’ambito crociano.
La presenza di questa atmosfera marxista non sta, è ovvio, nei dati, nelle tabelle di natura economica delle quali è ricco il volume; se tale fosse l’originalità del Romeo, essa sarebbe ben povera cosa. In Italia, per fortuna della cultura storica, non mancano buoni lavori di storia economica e, se a questo si riducesse il volume del Romeo, non avremmo altro che un nuovo lavoro da aggiungere agli altri e al recensore spetterebbe il compito del controllo tecnico dei dati adoperati e dei risultati conseguiti, ma non quello di valutare storiograficamente la presente opera. La nuova atmosfera e nello stesso tempo la notevole originalità del Romeo sta invece in quella che con espressione dantesca ameremmo chiamare «circulata melodia». Economia e cultura, programma politico e struttura sociale, sono qui aspetti concomitanti e contemporanei di un’unica sintesi, la quale non volge mai verso le astratte secche di uno «Spirito» umano di teologica origine bensì si risolve nella chiarificazione di una struttura sociale, costituente la vera molla della storia. Ovviamente, non tutte le affermazioni del Romeo ci convincono, possiamo dissentire, anzi dissentiamo da qualche sua singola interpretazione; ma resta il fatto che il Romeo ha realizzato quell’unità, quella sintesi, che nel mondo degli studi del Risorgimento ancora restava un pio desiderio.
Ma veniamo alla tesi centrale del bel libro del Romeo. A mezzo il Settecento – egli scrive – il problema che si presenta alla Sicilia è essenzialmente un problema di ammodernamento di una struttura sociale ancora irretita dal vincolismo feudale-corporativo e di raccordo con la civiltà europea. In realtà, però, l’ascesa della borghesia al grande possesso terriero, a fianco o al posto dell’aristocrazia (particolarmente acute le osservazioni del Romeo sulla crisi economica interna – positiva e negativa – che travaglia il baronaggio siciliano dopo la cosiddetta «rivoluzione dei prezzi» e tali da modificare sensibilmente la ricostruzione del Pontieri, errata perché unilaterale), poco volle dire per la sostanza dei rapporti sociali, mentre la massa contadina restava ciò che sempre era stata fino allora, oggetto e non soggetto di storia.
V’era – prosegue l’autore - … un intrinseco legame fra monarchia borbonica e classi feudali siciliane, che era poi il legame che ambedue le riuniva a un assetto sociale e a un mondo ideale arretrato: e però nessuna di queste forze può dirsi veramente rappresentativa della civiltà del secolo XIX nell’isola. Contribuendo anzi ad inserire la borghesia nella classe proprietaria isolana, senza essere riuscita ad abbatterne la vecchia intelaiatura aristocratica, la monarchia finì per agevolare, paradossalmente, il passaggio all’opposizione della sola forza che in Sicilia l’avesse sinora appoggiata in funzione antibaronale; mentre l’azione antifeudale rendeva più aspre le resistenze della non fiaccata aristocrazia alla politica napoletana di fusione delle due parti del Regno (pp. 162-63).
Pertanto
se nel Nord il Risorgimento fu, socialmente, la rivoluzione di una borghesia avviata a uno sviluppo capitalistico contro i vecchi ceti redditieri, nel Mezzogiorno, e in Sicilia in particolare, saranno invece ancora quei vecchi ceti o altri ad essi strettamente affini, a condurre le battaglie del Risorgimento; con le ben note conseguenze sulla struttura del ceto dirigente dell’Italia unitaria, che nella sua ala meridionale vanterà sì alcune delle maggiori figure del mondo liberale italiano, ma avrà in genere un carattere meno schiettamente liberale, più fiacca coscienza politica, minore attitudine e preparazione alla vita moderna, a sentirne i problemi, a volgerne i progressi a vantaggio proprio e della propria regione (p. 348).
Per il Romeo, dunque, il contenuto positivo del Risorgimento siciliano è da ricercare non sul terreno sociale, ma soltanto su quello politico e morale e – se non abbiamo frainteso le parole del Romeo – nel «valore di rottura col passato che per la Sicilia ebbe il suo ingresso nella nuova vita italiana» (p. 350).
Questa nella sua scheletricità la tesi generale di un lavoro, invece così doviziosamente ricco di analisi, di dati, così pertinente nell’interpretazione dei dati economici ai fini di una storia sociale, che assorba in sé la storia politica e culturale. Ci vorrà ora il Romeo consentire la discussione con alcune sue affermazioni, discussione diciamo subito che non investe i punti centrali del suo lavoro, i quali sono dal sottoscritto accettati e condivisi, ma solo – salvo un caso – dei problemi puramente marginali.
Nel volume del Romeo vi è, anzitutto, una grande assente: la Chiesa cattolica. Diciamo questo sia nel senso della Chiesa come portatrice di espressione del sentimento religioso sia nell’altro della Chiesa come organismo ecclesiastico-sociale. Il Romeo dedica un qualche interesse al sentimento religioso in Sicilia allorché egli può parlare di «religione illuministica» (p. 117; cfr pure p. 271); ma in realtà qui siamo su un piano tipicamente ed esclusivamente culturale, così come su un piano essenzialmente politico siamo nell’analisi del pensiero del principe di Scordia, del D’Ondes, ecc. (pp. 240-43); in tutto il resto dell’opera l’autore non se ne cura affatto e resta fedele a quanto ha scritto all’inizio di essa, ossia che «la vita morale [dei Siciliani nel cinquecento] decadde nel formalismo e nella casistica» (p. 13), e alla grande, unica, influenza della Controriforma sul sentire religioso dei Siciliani (giudizio ribadito ed aggravato alla p. 39). Comprendiamo come in realtà questo non fosse un argomento che rientrasse nella problematica del Romeo né sapremmo dargli totalmente torto in questo suo disinteresse; ma non possiamo nascondere che tale taccia di formalismo, di mere pratiche estrinseche rivolta alla Sicilia religiosa ci ha lasciato sempre – e non solo nel Romeo – assai perplessi. Che il Cattolicesimo sia in Sicilia ancorato saldamente al sentire contro-riformistico è cosa indubbia e bisognerebbe essere folle o in mala fede per negarlo; tuttavia non ci sentiremmo affatto di giudicare puramente formale il sentire religioso in Sicilia, o per lo meno formale ad un grado maggiore di quanto non lo sia in quegli altri paesi cattolici ove il sentire «tridentino» si impone senza dover lottare con vigorose, antecedenti correnti spirituali di Cattolicesimo pretridentino o con confessioni non cattoliche. Lasciamo pure da parte gli antichi secoli medievali, così pervasi di cristianesimo orientale e con una tanto vasta diaspora di monachesimo basiliano; ma pur sempre ad essi bisogna risalire per cogliere le cause di quella stasi che involge la Sicilia anche nel campo religioso: l’isola aveva nel passato vissuto troppo di contatti con l’Oriente e bisogna guardare non solo all’insediamento della Spagna nell’isola ma anche al crollo totale di Bisanzio per cogliere il perché di questa stasi. Ma essa poi fu totale? Già nel XVI secolo non pochi siciliani calcano le strade che menano a Ginevra e basta sfogliare l’informatissimo saggio del Garufi sull’Inquisizione in Sicilia per accorgersi di come l’humus che alimenta il sentire religioso non sia nell’isola del tutto arido. E procedendo innanzi nei secoli, allorché la Sicilia è tutta compenetrata di gesuitismo e di Cattolicesimo tridentino, ci si accorge che ivi il conformismo religioso non è maggiore che in altre regioni: il quietismo, tanto per fare un esempio, fu assai diffuso, più di quanto finora non sia stato chiarito. V’è motivo di ritenere che un’indagine sul Cattolicesimo, o più in generale sul sentimento religioso in Sicilia (tanto per intenderci sul tipo di quella già eseguita dallo Chabod per lo Stato di Milano sotto Carlo V), darebbe non poche sorprese: non è senza significato il fatto che dopo il 1860 proprio in Sicilia si sia avuto qualche caso di libera elezione popolare dei parroci (ricavo tale notizia, fin’oggi totalmente ignorata, da F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, 1951, p. 252), che proprio in Sicilia la Chiesa valdese abbia delle infiltrazioni, anche in questo momento in atto (due anni fa esse comparvero in una zona rurale del comune di S. Angelo di Brolo, provincia di Messina, e contro la decisa volontà di quei contadini si spuntarono le pressioni confessionali dei maggiorenti cattolici), ecc. Ed è questo un problema che supera quello di un contrasto o di una concorrenza di confessioni religiose per investire l’essenza stessa del sentire religioso isolano; al riguardo è ben probante il richiamo che, analizzando il mondo spirituale del Verga, Luigi Russo ha fatto non solo a certi «lividori spagnuoli» e alla «cupezza del cattolicesimo spagnuolo del ‘600» ma anche al proverbio popolare Monaci e parrini, siènticci la missa, e stòccaci li rini, con la conclusione: «In Sicilia c’è una profonda religiosità, ma una religiosità che non ha nulla di sereno e di consolato: è la religione più polemica, e meno riposatamente cattolica, che io conosca… Una forma, direi ancora, di cristianesimo medievale, meno estrinseco del cattolicesimo consueto, e però più sincero e assai rispettabile (L. Russo, Giovanni Verga, Bari, 1934², pp. 179-80).
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