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    Predefinito «Il Risorgimento in Sicilia» di Rosario Romeo (1951)

    di Armando Saitta - «Società», a. VII (1951), fasc. 4, pp. 746-758. Recensione a Rosario Romeo, “Il Risorgimento in Sicilia”, Bari, Laterza, 1950, pp. 422.


    Solidità di documentazione, armonica architettura delle parti che è poi piena capacità di dominare un argomento assai complesso, acuta perspicacia e finezza critica non disgiunte da una costante serenità di giudizio sono i pregi che balzano subito agli occhi di chi legge il bel volume del Romeo, il quale costituisce la terza delle opere pubblicate sotto l’egida dell’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli. Limitarsi tuttavia alla semplice constatazione di questi pregi sarebbe dir troppo poco; Il Risorgimento in Sicilia infatti non è soltanto un libro di storia tecnicamente lodevole: è anche, osiamo dirlo con piena consapevolezza del significato delle parole adoperate, un avvenimento culturale e politico di importanza non piccola. Chiariremo oltre il significato «politico» dell’opera; per ora ci preme di mettere in risalto soprattutto l’aspetto di novità culturale del volume in questione, tanto più che intento dell’autore è stato quello di fare un libro di storia, e non altro.
    Il Romeo è un giovane. Una bella speranza lo avevano rivelato i pochissimi articoli da lui pubblicati fino ad ora; oggi è il caso di dire che la storiografia italiana ha acquistato una nuova, validissima recluta dalla personalità già matura e dall’ingegno solido ed acuto. Restando fermi a tale piano di valutazione culturale-storiografica siamo portati a fare due osservazioni pregiudiziali.
    La prima è quella che, ai nostri occhi, Il Risorgimento in Sicilia segna veramente l’atto di decesso, e speriamo in maniera definitiva, della storiografia risorgimentale (o almeno di tanta parte di essa) la quale se è pur vero che da decenni aveva superato lo stadio della semplice agiografia o quello meramente erudito del contare il numero dei morti di un qualsivoglia patrio scontro o il numero degli anni di galera inflitto ai singoli patrioti, tuttavia era sempre rimasta ferma alla impostazione di esaminare i singoli ex-stati italiani in funzione della futura unità nazionale, se non proprio della futura soluzione monarchico-nazionale. Anche di recente la pur, per tanti aspetti, pregevole Storia della Sicilia dal secolo XI al XIXdi F. De Stefano, arrivando al secolo XIX, aveva ricalcato il vecchio schema e la vecchia impostazione. Nel Romeo nulla di tutto questo: la Sicilia è considerata come un organismo storico che deve essere esaminato non in confronto, in paragone con l’organismo più grande che un giorno l’avrebbe conglobato in sé, l’Italia cioè, ma è considerata in sé stessa, nella sua interna struttura storica, coi suoi peculiari problemi e il termine di paragone diventa l’Europa tutta, ossia la civiltà liberale e democratica della borghesia ottocentesca, e non più l’Italia sola o tanto meno il Regno di Napoli, anche se a quest’ultimo riguardo occorra osservare che, se la freschezza del libro del Romeo deriva in buona parte dell’aver guardato alla Sicilia con occhi del tutto scevri dalle solite impostazioni della storiografia napoletana (giustamente l’autore osserva come questa non sia esente da un certo municipalismo), tuttavia è stato forse troppo allentato il contatto con Napoli. L’opera in questione schiva totalmente il vecchio, astratto calco di natura prevalentemente ideologica e i suoi problemi non sono pertanto l’evolversi e l’intrecciarsi di tesi programmatiche come monarchia o repubblica, separatismo o federazione, autonomia o annessione, così come non lo è la ricerca retorica e pseudo-storiografica di un «popolo siciliano», naturalisticamente inteso; i suoi problemi sono invece costituiti dalla indagine sull’origine e sullo sviluppo della classe dirigente, economico-politica, siciliana, in seno alla quale quelle astratte tesi programmatiche divengono tante fasi di un unico processo di sviluppo. Abbiamo così nel Romeo il primo vero, autentico lavoro che esamini l’avvento dell’Italia unita attraverso lo studio di uno dei suoi componenti.
    Una simile esigenza, è pacifico, non è stata del tutto assente nella storiografia italiana prima del lavoro del Romeo: il negarlo sarebbe solo prova di madornale ignoranza; quel che qui si vuole mettere in risalto è unicamente il fatto che se la storia dei singoli ex-stati italiani è stata spesso fatta – e piuttosto bene che male – tuttavia si era riusciti a conservare e mantenere l’esatta impostazione del problema fino all’esame del periodo «riformista» incluso e, giungendo al XIX secolo, si era invece sempre smarrita l’esatta via per ricadere nell’antistoricismo (sostanziale, non certo formale) di tanta parte della storiografia risorgimentale. L’aver tenuto fede al proprio concetto direttivo, senza lasciarsi fuorviare dai tradizionali problemi sulle rivoluzioni del 1820 o 1848, sull’influenza mazziniana, ecc., costituisce il titolo migliore dell’opera del Romeo. Indubbiamente, ed è ben lungi dalle nostre intenzioni il sottovalutare tale fatto, lo sforzo del giovane autore è stato grandemente facilitato dall’essere stata nell’ultimo ventennio al Sicilia oggetto di più di una accurata e intelligente analisi, per merito soprattutto di E. Pontieri e di N. Cortese; tuttavia esso ci appare tanto più meritorio quanto più Il Risorgimento in Sicilia esce in un tempo in cui vivissima è l’esigenza di una revisione profonda della storiografia sull’unità italiana. Non è possibile al riguardo passare sotto il silenzio il valore «pedagogico» (di pedagogia involontaria, e appunto per questo più efficace) delle pagine del Romeo: in un momento in cui la vecchia storiografia monarchico-conservatrice fa acqua da tutte le parti, in cui più vivo si fa il bisogno di rispettare il volto complesso e poliedrico del Risorgimento senza stenderlo, fin dall’inizio, sul letto dii Procuste della soluzione monarchica del 1859-60, il Romeo senza assumere pose gladiatorie e senza scambiare il «Dover fare» col «Fare», le dichiarazioni programmatiche col concreto lavoro di ricostruzione storica, addita la strada maestra per la quale occorre porsi per svecchiare la storiografia risorgimentale. E questo è merito non piccolo.
    La seconda osservazione pregiudiziale è che, allo stesso modo con cui questo libro inizia una nuova pagina nella storiografia risorgimentale, esso è un chiaro ed inequivocabile indice di come la gioventù odierna, nei suoi rappresentanti più vivi e vivaci, senta il bisogno di una storiografia dal respiro assai più ampio del tradizionale storicismo di stampo idealistico. Scrivendo ciò, si spera di non essere fraintesi: Il Risorgimento in Sicilia era appena uscito, che sul «Mondo» P. Gentile dava al Romeo la qualifica di marxista (e meglio sarebbe dire la «taccia» di marxista, giacché l’incomprensione delle affermazioni culturali del Romeo, della quale l’articolo in questione dava prova, era pari solo al livore antimarxista e anticomunista che balzava evidente da ogni rigo), suscitando così una lettera dell’autore, nella quale veniva declinata tale qualifica e riaffermata al riguardo la propria adesione allo storicismo del Croce.
    Non abbiamo, quindi, il diritto di contestare l’esplicita dichiarazione dell’interessato, anche se dobbiamo osservare che nel riaffermare la guida crociana sul proprio ideale storiografico egli – spinto forse dalla necessità polemica – abbia dimenticato che nelle sue pagine accanto allo storicismo del filosofo napoletano scorrano rivoli non meno evidenti di quella scuola economico-giuridica che nel Volpe prima maniera ebbe il suo rappresentante più noto; dobbiamo anzi dichiarare che un esame spassionato ed obiettivo di Il Risorgimento in Sicilia ci mostra un Romeo assai lontano dal cogliere certi aspetti di fondamentale importanza del marxismo. Tuttavia, in quanto analizzatori di una storia culturale in atto crediamo di avere il diritto di dichiarare esplicitamente che, a nostro avviso, proprio il libro del Romeo mostra come in realtà il Croce nella mente delle giovani reclute d’ingegno più vivo ed aperto sia stato, se non proprio superato, comunque non seguito in quel processo d’involuzione hegelianizzante (nel senso di metafisica della «libertà»), che da qualche decennio domina sempre più il suo pensiero. Marxista, dunque, il Romeo? Lasciamo stare le qualifiche; tuttavia non possiamo non riconoscere che – ne abbia o meno consapevolezza piena il suo autore – il libro del Romeo rivela come la concezione marxista sia ormai in Italia divenuta un’atmosfera culturale dalla quale non si sfugge: e ciò ha valore ancor maggiore di sintomo proprio per il fatto che il Romeo vive entro l’ambito crociano.
    La presenza di questa atmosfera marxista non sta, è ovvio, nei dati, nelle tabelle di natura economica delle quali è ricco il volume; se tale fosse l’originalità del Romeo, essa sarebbe ben povera cosa. In Italia, per fortuna della cultura storica, non mancano buoni lavori di storia economica e, se a questo si riducesse il volume del Romeo, non avremmo altro che un nuovo lavoro da aggiungere agli altri e al recensore spetterebbe il compito del controllo tecnico dei dati adoperati e dei risultati conseguiti, ma non quello di valutare storiograficamente la presente opera. La nuova atmosfera e nello stesso tempo la notevole originalità del Romeo sta invece in quella che con espressione dantesca ameremmo chiamare «circulata melodia». Economia e cultura, programma politico e struttura sociale, sono qui aspetti concomitanti e contemporanei di un’unica sintesi, la quale non volge mai verso le astratte secche di uno «Spirito» umano di teologica origine bensì si risolve nella chiarificazione di una struttura sociale, costituente la vera molla della storia. Ovviamente, non tutte le affermazioni del Romeo ci convincono, possiamo dissentire, anzi dissentiamo da qualche sua singola interpretazione; ma resta il fatto che il Romeo ha realizzato quell’unità, quella sintesi, che nel mondo degli studi del Risorgimento ancora restava un pio desiderio.
    Ma veniamo alla tesi centrale del bel libro del Romeo. A mezzo il Settecento – egli scrive – il problema che si presenta alla Sicilia è essenzialmente un problema di ammodernamento di una struttura sociale ancora irretita dal vincolismo feudale-corporativo e di raccordo con la civiltà europea. In realtà, però, l’ascesa della borghesia al grande possesso terriero, a fianco o al posto dell’aristocrazia (particolarmente acute le osservazioni del Romeo sulla crisi economica interna – positiva e negativa – che travaglia il baronaggio siciliano dopo la cosiddetta «rivoluzione dei prezzi» e tali da modificare sensibilmente la ricostruzione del Pontieri, errata perché unilaterale), poco volle dire per la sostanza dei rapporti sociali, mentre la massa contadina restava ciò che sempre era stata fino allora, oggetto e non soggetto di storia.


    V’era – prosegue l’autore - … un intrinseco legame fra monarchia borbonica e classi feudali siciliane, che era poi il legame che ambedue le riuniva a un assetto sociale e a un mondo ideale arretrato: e però nessuna di queste forze può dirsi veramente rappresentativa della civiltà del secolo XIX nell’isola. Contribuendo anzi ad inserire la borghesia nella classe proprietaria isolana, senza essere riuscita ad abbatterne la vecchia intelaiatura aristocratica, la monarchia finì per agevolare, paradossalmente, il passaggio all’opposizione della sola forza che in Sicilia l’avesse sinora appoggiata in funzione antibaronale; mentre l’azione antifeudale rendeva più aspre le resistenze della non fiaccata aristocrazia alla politica napoletana di fusione delle due parti del Regno (pp. 162-63).


    Pertanto


    se nel Nord il Risorgimento fu, socialmente, la rivoluzione di una borghesia avviata a uno sviluppo capitalistico contro i vecchi ceti redditieri, nel Mezzogiorno, e in Sicilia in particolare, saranno invece ancora quei vecchi ceti o altri ad essi strettamente affini, a condurre le battaglie del Risorgimento; con le ben note conseguenze sulla struttura del ceto dirigente dell’Italia unitaria, che nella sua ala meridionale vanterà sì alcune delle maggiori figure del mondo liberale italiano, ma avrà in genere un carattere meno schiettamente liberale, più fiacca coscienza politica, minore attitudine e preparazione alla vita moderna, a sentirne i problemi, a volgerne i progressi a vantaggio proprio e della propria regione (p. 348).


    Per il Romeo, dunque, il contenuto positivo del Risorgimento siciliano è da ricercare non sul terreno sociale, ma soltanto su quello politico e morale e – se non abbiamo frainteso le parole del Romeo – nel «valore di rottura col passato che per la Sicilia ebbe il suo ingresso nella nuova vita italiana» (p. 350).
    Questa nella sua scheletricità la tesi generale di un lavoro, invece così doviziosamente ricco di analisi, di dati, così pertinente nell’interpretazione dei dati economici ai fini di una storia sociale, che assorba in sé la storia politica e culturale. Ci vorrà ora il Romeo consentire la discussione con alcune sue affermazioni, discussione diciamo subito che non investe i punti centrali del suo lavoro, i quali sono dal sottoscritto accettati e condivisi, ma solo – salvo un caso – dei problemi puramente marginali.
    Nel volume del Romeo vi è, anzitutto, una grande assente: la Chiesa cattolica. Diciamo questo sia nel senso della Chiesa come portatrice di espressione del sentimento religioso sia nell’altro della Chiesa come organismo ecclesiastico-sociale. Il Romeo dedica un qualche interesse al sentimento religioso in Sicilia allorché egli può parlare di «religione illuministica» (p. 117; cfr pure p. 271); ma in realtà qui siamo su un piano tipicamente ed esclusivamente culturale, così come su un piano essenzialmente politico siamo nell’analisi del pensiero del principe di Scordia, del D’Ondes, ecc. (pp. 240-43); in tutto il resto dell’opera l’autore non se ne cura affatto e resta fedele a quanto ha scritto all’inizio di essa, ossia che «la vita morale [dei Siciliani nel cinquecento] decadde nel formalismo e nella casistica» (p. 13), e alla grande, unica, influenza della Controriforma sul sentire religioso dei Siciliani (giudizio ribadito ed aggravato alla p. 39). Comprendiamo come in realtà questo non fosse un argomento che rientrasse nella problematica del Romeo né sapremmo dargli totalmente torto in questo suo disinteresse; ma non possiamo nascondere che tale taccia di formalismo, di mere pratiche estrinseche rivolta alla Sicilia religiosa ci ha lasciato sempre – e non solo nel Romeo – assai perplessi. Che il Cattolicesimo sia in Sicilia ancorato saldamente al sentire contro-riformistico è cosa indubbia e bisognerebbe essere folle o in mala fede per negarlo; tuttavia non ci sentiremmo affatto di giudicare puramente formale il sentire religioso in Sicilia, o per lo meno formale ad un grado maggiore di quanto non lo sia in quegli altri paesi cattolici ove il sentire «tridentino» si impone senza dover lottare con vigorose, antecedenti correnti spirituali di Cattolicesimo pretridentino o con confessioni non cattoliche. Lasciamo pure da parte gli antichi secoli medievali, così pervasi di cristianesimo orientale e con una tanto vasta diaspora di monachesimo basiliano; ma pur sempre ad essi bisogna risalire per cogliere le cause di quella stasi che involge la Sicilia anche nel campo religioso: l’isola aveva nel passato vissuto troppo di contatti con l’Oriente e bisogna guardare non solo all’insediamento della Spagna nell’isola ma anche al crollo totale di Bisanzio per cogliere il perché di questa stasi. Ma essa poi fu totale? Già nel XVI secolo non pochi siciliani calcano le strade che menano a Ginevra e basta sfogliare l’informatissimo saggio del Garufi sull’Inquisizione in Sicilia per accorgersi di come l’humus che alimenta il sentire religioso non sia nell’isola del tutto arido. E procedendo innanzi nei secoli, allorché la Sicilia è tutta compenetrata di gesuitismo e di Cattolicesimo tridentino, ci si accorge che ivi il conformismo religioso non è maggiore che in altre regioni: il quietismo, tanto per fare un esempio, fu assai diffuso, più di quanto finora non sia stato chiarito. V’è motivo di ritenere che un’indagine sul Cattolicesimo, o più in generale sul sentimento religioso in Sicilia (tanto per intenderci sul tipo di quella già eseguita dallo Chabod per lo Stato di Milano sotto Carlo V), darebbe non poche sorprese: non è senza significato il fatto che dopo il 1860 proprio in Sicilia si sia avuto qualche caso di libera elezione popolare dei parroci (ricavo tale notizia, fin’oggi totalmente ignorata, da F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari, 1951, p. 252), che proprio in Sicilia la Chiesa valdese abbia delle infiltrazioni, anche in questo momento in atto (due anni fa esse comparvero in una zona rurale del comune di S. Angelo di Brolo, provincia di Messina, e contro la decisa volontà di quei contadini si spuntarono le pressioni confessionali dei maggiorenti cattolici), ecc. Ed è questo un problema che supera quello di un contrasto o di una concorrenza di confessioni religiose per investire l’essenza stessa del sentire religioso isolano; al riguardo è ben probante il richiamo che, analizzando il mondo spirituale del Verga, Luigi Russo ha fatto non solo a certi «lividori spagnuoli» e alla «cupezza del cattolicesimo spagnuolo del ‘600» ma anche al proverbio popolare Monaci e parrini, siènticci la missa, e stòccaci li rini, con la conclusione: «In Sicilia c’è una profonda religiosità, ma una religiosità che non ha nulla di sereno e di consolato: è la religione più polemica, e meno riposatamente cattolica, che io conosca… Una forma, direi ancora, di cristianesimo medievale, meno estrinseco del cattolicesimo consueto, e però più sincero e assai rispettabile (L. Russo, Giovanni Verga, Bari, 1934², pp. 179-80).

    (...)
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    Predefinito Re: «Il Risorgimento in Sicilia» di Rosario Romeo (1951)

    Ma, ripetiamo, tale disinteresse del Romeo nell’economia del suo lavoro ci sembra giustificato. Meno giustificato, a nostro credere, è invece il disinteresse verso l’organizzazione economico-sociale della Chiesa cattolica in Sicilia. Qualche accenno alla proprietà ecclesiastica nel Romeo non manca, ma è troppo poco e, se è pur vero che essa in fondo rientrava nella storia della proprietà nobiliare, tuttavia crediamo di non andar errati pensando che essa non dovesse essere – sotto l’aspetto della trattazione – confusa sic et simpliciter con la seconda e che avesse dei problemi propri che meritassero separata e distinta indagine. In solide e pregevoli pagine l’autore ci mostra la vita delle proprietà baronali, il disinteresse dei proprietari, l’attacco di esse da parte della nuova borghesia, ecc.: nulla invece per la proprietà ecclesiastica. Eppure questa costituiva un decimo della superficie dell’isola ed era in fase ascensionale nel periodo cruciale del Risorgimento, se è vero quel che scrive il Romeo (e lo è), ossia che le assegnazioni forzose di terre imposte dalla legge 10 febbraio 1824 a favore dei creditori soggiogatari favorirono in modo particolare la Chiesa (p. 166); si ha dunque il diritto di chiedere quali rapporti economici e sociali la popolazione siciliana non ecclesiastica avesse con sì vasta proprietà. Accanto a questo v’è poi l’altro problema, importantissimo, della proporzione secondo la quale tale proprietà ecclesiastica è divisa tra i vari membri del mondo ecclesiastico isolano. Ameremmo sapere qual è, in Sicilia, sotto il rapporto economico, la situazione dell’alto clero e quella del basso clero; ameremmo sapere con quali delle forze che pongono in movimento la Sicilia nel XIX secolo vada quest’ultimo (non ci disseta ma più viva arsura suscita in noi il Romeo scrivendo in nota alla p. 160: «Notevole il gran numero di ecclesiastici implicati in queste congiure, anche dopo la bolla pontificia che condannava la carboneria; ciò si spiega tenendo presente che in quell’epoca il clero assorbiva ancora buona parte della piccola borghesia intellettuale isolana»), quale influsso esso abbia avuto sull’opinione pubblica siciliana (e dovette averne assai se ancora nel 1832 il console francese a Palermo scrivendo al Presidente del Consiglio C. Périer poteva accennare alla «masse de la nation, turbulente et démoralisée per la misère, par l’ignorance et par la corruption des moines qui la dirigent» [Archives du Ministère des Affaires Etrangères, Corr. Dipl., Naples 156, ff. 58-63: dispaccio del 3 marzo 1832; corsivo nostro]) e vorremmo insinuare al Romeo che forse in tale ricerca sulla struttura e sulla ripartizione della proprietà ecclesiastica si può trovare la spiegazione di quel fenomeno che egli ricorda col tono di una constatazione pacifica ma che non giustifica affatto: «il passaggio del clero, liberale fino al 1860, all’opposizione, in seguito alla legge sulle corporazioni religiose» (p. 344).
    In realtà, questa del non scindere nel duplice elemento costitutivo gli antichi «ordini» è una caratteristica costante del Romeo: anche per il baronaggio, le sue pagine si riferiscono costantemente alla grande nobiltà parlamentare, trascurando la pletorica piccola nobiltà [ma non è proprio il Romeo a scrivere alla p. 147: «In sostanza, l’aristocrazia attraversa in questo periodo una profonda crisi, … preoccupata più che altro di difendere i suoi beni dall’attacco concentrico della monarchia e della borghesia (e la grande nobiltà anche da quelli della piccola)»?]. Avremmo preferito al riguardo una analisi più minuta, più complessa; tuttavia queste limitazioni dell’indagine del Romeo non ne compromettono assolutamente i risultati cui egli giunge, essendo nella Sicilia dei secoli XVIII e XIX la contrapposizione interna dei vari gruppi costituenti ciascuno dei «bracci» parlamentari, cosa ben lontana per intensità e per forza d’interessi da quella in atto, per esempio, nella Francia del 1789.
    Qualche dubbio solleva in noi l’interpretazione che il Romeo dà della rivoluzione del 1820, come avente «un carattere nettamente reazionario» (p. 153). Indubbiamente, le osservazioni che egli oppone alla tesi del Cortese, che nella rivoluzione vede la prova della crescente forza della democrazia di fronte al declinare delle forze aristocratiche, sono acute e spesso esatte; ma non ci sembra che riescano a scalfire il fondo della tesi cortesiana e, comunque, non ci pare che possano essere accettate sotto il profilo di un giudizio complessivo sulla portata storica del moto siciliano del 1820. A parte il fatto che non è cosa di poco momento l’aver abbandonato la costituzione del 1812 per quella di Spagna (la grande idea-forza del democraticismo europeo del XIX secolo, che attende ancora il suo storico), occorre osservare che a far giudicare come reazionario un movimento popolare non basta l’osservare «la naturale propensione di una massa momentaneamente padrona della situazione verso le idee genericamente conosciute come più democratiche» (p. 151). Quel che interessa non è tanto il sedimento psicologico che accompagna un movimento storico quanto il risultato che l’inserimento di quest’ultimo in una determinata situazione politico-sociale, in senso lato storica, produce; quanto di reazionario nei moti agrari della Francia del 1789, ma può intendersi la vittoria della borghesia senza di essi?
    Proprio a questo punto il canone storiografico (p. 151: «autonoma e consapevole scelta»; p. 154: «consapevole volontà politica», ecc.), adoperato dal Romeo e che egli mutua dallo storicismo crociano, rivela la sua intrinseca insufficienza. Le osservazioni che siamo venuti facendo hanno, come già si diceva, un carattere puramente marginale alle belle analisi del Romeo; un dissenso invece più profondo e più netto ora dobbiamo manifestare nell’aver egli fermato il suo lavoro al 1860 e nell’aver troppo sottovalutato l’apporto delle forze popolari e rurali, alle quali l’autore accenna solo per ribadire il giudizio, vorremmo dire illuministico, che esse sono ancora oggetto e non soggetto di storia.
    I nostri non vogliono essere due rilievi distinti, ma due aspetti di un unico rilievo. Il Risorgimento in Sicilia, veniva fatto di pensare nel leggerlo, è una di quelle opere che fanno convergere sui problemi esaminati un fascio di piena luce solare, lasciando in un’ombra fitta altri problemi e realizzando così una certa staticità di rappresentazione storica. Tutto teso ad esaminare l’avvento sul piano economico-sociale della borghesia, il suo accodarsi alla nobiltà e il ricostituirsi dell’unità della classe agraria (p. 178), ossia all’esame della realtà effettuale della Sicilia, l’autore ha finito col dare peso unicamente al presente, dimenticando che lo storico deve pur prestare attenzione a ciò che non è, ma forse sarà, ossia a ciò che la realtà effettuale sconfigge ma che pur sempre costituisce un’apertura verso la storia futura. Così il Romeo è piuttosto severo verso le correnti democratiche siciliane, siano esse l’antica democrazia giacobina da lui giudicata «rivoluzionarismo verbale» (p. 137) o quella più moderna del Risorgimento vero e proprio; ma noi abbiamo il sospetto che qui l’autore non abbia spinto la propria analisi a fondo come per gli altri problemi che più trattenevano la sua attenzione. Più di un indizio esterno autorizza simile affermazione, come per esempio allorché il Romeo, che è pur erudito accorto e sagace, parlando del giacobinismo siciliano non nomina affatto né Alfio Grassi né Giuseppe Timpanaro, che col Gambini furono i principali esponenti del giacobinismo pratico in Sicilia e dovettero rifugiarsi all’estero, ed indica il Giovanni Gambini, canonico catanese e poi cittadino ginevrino e corrispondente di Filippo Buonarroti, costantemente come «Gambino», senza prenome anche nell’accuratissimo indice dei nomi. Similmente, alle pagine 159-60, delle acute considerazioni si trovano a proposito della Carboneria in Sicilia ma non vi è affatto un esame puntuale del fenomeno settario che pur andava fatto, presentando esso degli aspetti assai interessanti: l’accenno, che il Romeo ricava dall’opera di V. Labate, al programma antiaristocratico del Meccio andava sviluppato (p. 159 n. 47) e svariati altri problemi andavano impostati, dal peso che effettivamente le sette ebbero nella formazione dell’opinione pubblica a certe caratteristiche organizzative che esse ebbero nell’isola.
    Lo scarso interesse del Romeo a tali problemi deriva da una esatta intuizione storiografica, e cioè che nella Sicilia del tempo la forza effettiva risiede nella nobiltà e in larghe frazioni della borghesia; tuttavia l’esatto riconoscimento di una realtà effettuale deve accompagnarsi anche con la percezione di quanto è in gestazione ed esso, per non divenire visione unilaterale, richiede un’interpretazione dialettica. Proprio qui si coglie il limite intrinseco della concezione storiografica dell’autore: parlando prima di una certa staticità nella rappresentazione storica del Risorgimento non si è voluta negare la costante cura dell’autore di cogliere quel dinamismo, quell’evoluzione per contrasti interni della classe baronale; ma si è voluto alludere ad una staticità complessiva dell’intiera rappresentazione. Limitando il contrasto dialettico all’interno della classe egemonica, l’autore spezza quel largo divenire, quella più larga dialettica di classi egemoniche e di classi subalterne, che è il tessuto connettivo della vera storia. Porsi da questo punto di vista avrebbe significato abbandonare l’adesione ancora mantenuta a concezioni non adeguate a tali esigenze e accettare il metodo marxista; il persistente crocianesimo non poteva al riguardo non far velo all’autore.
    Quanto qui diciamo chiarisce l’altra faccia del nostro rilievo: fermando la propria analisi al 1860 il Romeo ha svolto in maniera magistrale il suo assunto di mostrare il Risorgimento in Sicilia, ossia l’esame di quel risorgimento della classe agraria, che, svegliatisi col 1812, giunge alla fusione con l’Italia, e giustamente scrive:


    L’accentramento si realizzava dunque in Sicilia sulla base di un compromesso fra Stato accentratore e ceti dominanti che, se da un canto consolidò lo Stato e rese possibile l’unità, dall’altro rese assai spesso meramente illusorio il regime liberale nell’isola; e falliva quasi completamente in quella funzione di freno alla strapotenza dei maggiorenti locali (pp. 341-42);


    ma resta pur sempre un largo margine sociale-politico privo non dirò di considerazione alcuna, perché l’autore dà al riguardo qualche accenno pertinente, ma giustapposto, non fuso, con quella che è stata l’effettiva sintesi storica del Risorgimento. In realtà, proprio il capitolo finale L’Unificazione è quello che soddisfa meno: vediamo la classe dirigente siciliana allargare il proprio giuoco sul piano nazionale, inserirsi in un complesso più vasto, ma non vediamo quali ripercussioni tale inserimento abbia nella Sicilia stessa. Vero è che si potrebbe obiettare che ormai questi non sono più problemi della Sicilia bensì problemi del nuovo stato unitario; ma francamente non possiamo riconoscere a tale obiezione se non una congruenza puramente formale. Noi non chiediamo al Romeo un’analisi della storia italiana dal 1860 ad oggi dall’angolo siciliano, bensì un esame di ciò che per la classe dirigente isolana significò il suo allargarsi al piano nazionale e delle conseguenze che tale fatto produsse sulle restanti classi siciliane, quelle classi che l’autore non considera capaci di storia. L’esame del moto palermitano del 1866 e quello, se non dell’evoluzione dei Fasci siciliani, almeno nell’humus su cui essi sorsero faceva parte, secondo noi, di una storia del Risorgimento in Sicilia.

    (...)
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    Predefinito Re: «Il Risorgimento in Sicilia» di Rosario Romeo (1951)

    Al riguardo la chiave di volta avrebbe potuto essere l’esame dei beni ecclesiastici: allorché a p. 344 il Romeo nota che la censuazione dei beni ecclesiastici fallì allo scopo, per essere andati questi ad arrotondare in massima parte il latifondo, dice cosa esattissima; ma sarebbe stato del massimo interesse il seguire un po’ da vicino le vicende di tali beni. Un caso concreto illuminerà meglio la nostra esigenza. Si è accennato sopra ad un piccolo comune siciliano, S. Angelo di Brolo nella Val Demone; questo era sorto lentamente attorno al monastero basiliano di S. Michele Arcangelo, estesissima era dunque ivi la proprietà del monastero, il cui abate siede ancora al parlamento del 1812, e rilevante era essa ancora al momento dell’impresa garibaldina. I beneficiari di questa proprietà divennero nella massima parte due famiglie borghesi del paese e, fra esse, soprattutto i Basile, che nel giro di pochi anni ottenevano ben tre saggi al Senato del Regno d’Italia coi fratelli Luigi ed Emanuele ed il cugino Achille, quest’ultimo prefetto rattazziano e ben presto padre del Basile… eroe fascista (genealogia preziosa questa ai fini di una indagine sulla struttura sociale del fascismo!). Questo caso conferma appieno la tesi del Romeo dell’unità ormai realizzata della classe agraria sulle due distinte frazioni di aristocrazia e borghesia: assai presto infatti questa proprietà dei Basile passa attraverso il giuoco delle successioni ereditarie ai Taviano, baroni di Frangioglio; ma esso permette anche di vedere meglio nella storia della Sicilia unita all’Italia: la classe dirigente isolana rafforza il proprio potere economico-politico, diventa anche classe dirigente nazionale e – proprio in questa grande operazione della censuazione dei beni ecclesiastici – si trova una delle spiegazioni di come nei primi anni dell’Unità proprio la Sicilia, vale a dire un paese politicamente poco maturo, sia fra le regioni che maggiormente esercitano il diritto elettorale (si cita anche questo fatto dalla già ricordata recente opera dello Chabod). Col suffragio ristretto del tempo la difesa dello stato unitario è difesa del proprio arricchimento! Ciò spiega nella insurrezione palermitana del 1866 «la mancata collaborazione dei ceti dirigenti, nobiltà e borghesia, rimasti fedeli all’unità», alla quale accenna l’autore (p. 345). Ma la storia della censuazione dei beni ecclesiastici, ove su 92.000 ettari solo 6.800 vanno ai piccoli proprietari, come già quella delle usurpazioni dei beni comunali (sui quali – non ostante le precisazioni di pp. 166-171 e l’esatto giudizio di p. 171 – avremmo desiderato una analisi spinta ancora più a fondo) spiega anche come il Romeo nel suo quadro troppo solare di ciò che è avesse dovuto far posto anche alle forze di reazione, di opposizione che la vittoria aristocratico-borghese faceva sorgere: quell’opposizione che, confluendo nella sinistra garibaldina rinsalda con ciò stesso l’unità (p. 345), non aveva in fondo vita propria: il fallimento dell’unità – non meccanica – politica, ma spirituale-sociale, in Sicilia bisogna trovarlo nel sorgere o nell’ampliarsi di quel rancore della classe rurale, che esplose nei tragici anni del 1893-94 e che un osservatore contemporaneo così descrisse: «le turbe erano invasate dalla credenza che fosse imminente un nuovo regno di giustizia: si riunivano nelle rustiche sedi dei Fasci col fervore con cui si dovevano raccogliere una volta i seguaci di Spartaco nei grandi boschi e i primi cristiani nelle catacombe» (Rossi, L’agitazione in Sicilia, Milano, 1894, p. 6; ricaviamo questa citazione dallo stesso Romeo, dalla sua recensione al noto lavoro di S. Carbone sulle origini del socialismo in Sicilia, in «Rivista storica italiana», LXI, fasc. I, p. 137; ma preghiamo il lettore di voler considerare tale brano anche in rapporto a quanto abbiamo scritto sul sentire religioso siciliano).
    È tempo di por fine a questa già lunga recensione; prima di farlo però ci tocca chiarire la nostra pregiudiziale affermazione che Il Risorgimento in Sicilia costituisce anche un avvenimento di importanza politica. Il Romeo è un siciliano, il suo lavoro – anche se svolto all’Istituto italiano per gli studi storici, sotto la direzione di F. Chabod – incominciò ad essere concepito dall’autore studente all’Università di Catania. Questo semplice fatto rivela tutta l’importanza anche «politica» di Il Risorgimento in Sicilia. Per chi conosca la cultura isolana, infatti, non è affatto un mistero quale grande difficoltà un siciliano trovi nello studiare la storia della propria terra non solo nell’ambiente culturale che lo circonda, ma proprio e soprattutto in sé stesso, in un complesso di pregiudizi atavici, di mentalità insulare che non può non far velo al retto giudizio. Questo complesso costituisce, tra l’altro, il substrato ideologico-sentimentale, che poi dalla classe dirigente isolana viene sfruttato in funzione separatista o autonomista, e fa sì che il provincialismo culturale (essendo siciliano non mi si vorrà, spero, dai miei conterranei negare il diritto di dirlo) sia ancora forte e vigoroso nell’isola. Le conseguenze, non solo culturali ma anche politiche, di tale fatto sono assai gravi ed esso, insieme con la miseria ivi imperante, son la causa prima di quel doloroso, anzi preoccupante fenomeno per cui tutti coloro che si sono ribellati all’accademismo culturale isolano lo hanno fatto sganciandosi totalmente dalla Sicilia, anzi dimenticandola del tutto. Giustamente il Romeo scrive: «È questa, in fondo, l’origine dell’anelito dei migliori fra i giovani siciliani verso il Nord, dove essi ricercano non solo, come si ritiene dai più, maggiori possibilità economiche, ma anche un ambiente e un ritmo di vita che meglio rispecchi la loro nuova coscienza e realtà interiore, che è italiana e non più siciliana» (p. 350); ma l’esattezza della spiegazione non elimina il risultato per la Sicilia disastroso del fenomeno e al riguardo opportunamente il Romeo ricorda l’efficace espressione omodeana «patologia di dissanguamento».
    Occorre ora riconoscere come la realtà incominci ad essere diversa. Libri come Cos’è questa Sicilia di S. Aglianò, come questo del Romeo sono, sì, il frutto di un distacco dall’isola per mettersi all’unisono con l’Italia e l’Europa ma sono anche l’indizio di un amoroso ritorno alla propria terra – più scoperto e più da moralista politico nell’Aglianò, meno aperto ma più obiettivo e sereno nel Romeo – e pertanto sono da valutare anche come manifestazioni di una sensibilità politica e di un desiderio di svecchiamento della vita isolana. Erano quelli gli anni della massima ventata separatista e Cos’è questa Sicilia e Il Risorgimento in Sicilia, le opere cioè di due giovani che mi è caro accomunare qui nella stima del loro intelletto e nella cordialità di una schietta amicizia, rappresentano due battaglie combattute contro quella aberrazione. Ma non vogliamo insistere sull’origine psicologica del lavoro del Romeo, anche perché essa è stata tracciata sulla «Nuova Rivista Storica» (1950, fasc. V-VI), da Nino Valeri con autorità ben maggiore di quella che potrebbe avere il sottoscritto, avendo il Valeri seguito da vicino, all’Università di Catania, la lenta genesi dell’opera. Insistiamo invece su un altro aspetto del volume di Romeo: con la sua analisi spassionata, obiettiva e serena egli – ne sia consapevole o meno – addita la vera soluzione del male della Sicilia. Scrive il Romeo:


    Le forze che più si adoperarono per la soluzione del maggior problema della vita siciliana non furono… quelle progressive e risorgimentali, ma piuttosto quelle della vecchia monarchia, per tanti rispetti ormai superata dallo svolgersi dei tempi. Fatto questo profondamente caratteristico, che limita e definisce il valore stesso del Risorgimento nella storia complessiva della Sicilia, che esso fu incapace di trasformare in paese veramente moderno, vivo della vita di tutti i suoi elementi. Perché, fallito in sostanza il tentativo di eversione della feudalità, i contadini siciliani rimasero ciò che erano stati fino allora: oggetto, cioè, e non soggetto di storia, massa incapace di far valere i suoi specifici interessi, di assumere un proprio posto nella vita dell’isola… In altre regioni la distruzione della feudalità, iniziata al tempo dei comuni, era già stata compiuta dalla Rivoluzione francese, specie nel nord e nel centro della penisola, mentre in Sicilia il problema rimase insoluto fino a dopo l’unità, con le ben note gravi conseguenze (pp. 184-85).



    Il che significa che il risanamento della Sicilia può venire solo dalla soppressione del latifondo, di quel latifondo di cui tuttavia il Romeo ha creduto di dover osservare «la stretta rispondenza alle esigenze dell’economia locale» (p. 173). È questo l’unico banco di prova per una coraggiosa scelta tra una regione di paria che ancora sentono la ferula dei Voscenza e una Sicilia lavoratrice e progredita.


    https://musicaestoria.wordpress.com/...io-romeo-1951/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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