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    Predefinito Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

    In Piero Ignazi, “I partiti in Italia dal 1945 al 2018”, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 43-63.


    La storia del Partito socialista italiano (Psi) è una storia di occasioni non colte, di appuntamenti mancati, di treni persi. Culminata con un disastro irreparabile. A essere impietosi potrebbe essere addirittura una storia la cui catarsi esige la decapitazione della sua classe dirigente, la condanna penale del leader incontrastato degli ultimi vent’anni della sua fase finale, il fallimento finanziario, la girandola dei segretari, fino alla sua disintegrazione in una miriade di schegge poi faticosamente ricomposta in una formazione di dimensioni appena visibili.
    Quando nell’agosto del 1943, subito dopo la caduta del fascismo, si tiene la prima riunione pubblica e ufficiale del partito, sono rintracciabili tre tronconi: quello storico legato ai fuoriusciti, il Movimento di unità popolare formatosi nel Nord con epicentro a Milano, e il gruppo romano dei giovani che avevano ripreso a tessere le fila dell’organizzazione. In quella riunione vengono nominati i nuovi organismi dirigenti, con Pietro Nenni segretario, e il partito assume il nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup) in omaggio alle richieste delle nuove componenti che vogliono marcare una cesura rispetto al passato. Il nome, comunque, riflette anche il programma: l’obiettivo fondamentale, al di là della liberazione del paese, è puntato sulla realizzazione del partito unico della classe operaia. Il che significa che il rapporto con il Partito comunista influisce in maniera decisiva sulle scelte politico-strategiche, e sugli assetti interni, del Psiup fin dai suoi primi passi. E incomberà sempre sul partito: un rapporto complesso, intricato, spesso rispondente più a meccanismi psicologici che politici di odio-amore, schiavo-padrone, padre-figlio, maestro-allievo.
    Gli anni della Resistenza e del primissimo dopoguerra evidenziano una contrapposizione tra la linea «fusionista», incarnata principalmente da Lelio Basso, favorevole a una completa amalgamazione con il Pci, e quella più gelosa dell’autonomia socialista rappresentata dalla vecchia guardia, con Pietro Nenni in testa. In una prima fase, le occasioni di conflitto con il Pci prevalgono sulle ragioni dell’accordo. Lo scontro più eclatante si manifesta nell’aprile del 1944 con la cosiddetta «Svolta di Salerno», quando il segretario comunista Palmiro Togliatti propone di accantonare la questione istituzionale vanificando così l’offensiva antimonarchica di socialisti e azionisti. Le frizioni tra i due partiti valgono a rinvigorire le posizioni autonomiste all’interno del Psiup che lancia ripetuti segnali di apertura verso la Dc tanto che, nell’ottobre del 1945, il Comitato centrale auspica una «franca intesa e collaborazione con la Dc». Il Psiup ambisce a giocare un ruolo centrale nel nuovo sistema partitico – e per questo si muove quindi su più fronti – puntando sul prestigio dei suoi leader, primo fra tutti Nenni, sul peso della tradizione, sulla sua presenza nel movimento cooperativo e nel sindacato e sui primi, confortanti esiti elettorali nelle amministrative (24,1% contro il 25% del Pci), poi migliorati alle elezioni per la Costituente (20,7% contro il 18,9% del Pci). Questo possibile incontro con la Dc naufraga però sullo scoglio della laicità dello stato e in particolare sull’art. 7 della Costituzione che riconosce il Concordato tra stato e chiesa. In questa occasione il Partito socialista rimane schiacciato dall’accordo tra Dc e Pci «sopra la sua testa»: mentre i socialisti si fanno alfieri di una scuola e di un diritto di famiglia più laici, andando allo scontro con la Dc, il Pci lancia un’inattesa ciambella di salvataggio al partito di De Gasperi votando a favore dell’art. 7. Il Partito socialista rimane spiazzato dal suo supposto «alleato» comunista. E così sarà nel futuro.
    L’illusione di poter giocare un ruolo di leadership nella politica italiana crolla con la scissione delle correnti di Iniziativa socialista e di Critica sociale che nel gennaio 1947, in occasione del XXV Congresso (9-13 gennaio), abbandonano il partito e danno vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli). A causa della scissione il Partito socialista, che riprende l’antico nome di Psi, perde ben 52 parlamentari su 115, la maggioranza della Federazione giovanile socialista e, soprattutto, alcuni dei personaggi simbolo della tradizione riformista come Giuseppe Modigliani, Ludovico D’Aragona e Ugo Guido Mondolfo. La perdita della componente riformista proietta sul Psi l’immagine del «vecchio» partito massimalista e rivoluzionario.
    La conflittualità con i socialdemocratici e lo sbilanciamento a sinistra della mappa del potere interno (dove Basso sostituisce Nenni) sospingono il Psi verso l’abbraccio soffocante con il Pci. Lo sbocco naturale di questa scelta è la presentazione di liste comuni con i comunisti alle elezioni del 18 aprile 1948 sotto l’etichetta del Fronte popolare. Per il partito è un suicidio politico. Non tanto per le liste comuni con il Pci, scelta dettata anche dalla paura del confronto con i socialdemocratici, quanto per le implicazioni di questa opzione, che vedono il Psi appiattito sulla linea del Pci in politica internazionale, dove aderisce ciecamente alla logica di potenza dell’Urss al punto di non condannare il colpo di stato comunista a Praga nel febbraio dal 1948 (rompendo così con il socialismo europeo), e sull’organizzazione, con la creazione di organismi di massa unitari con il Pci. In tal modo il Psi perde d’un colpo i suoi referenti autonomi internazionali, il laburismo e la socialdemocrazia scandinava, e regala alla più efficiente e motivata organizzazione comunista la dote della tradizione cooperativistica e sindacale.
    I risultati delle elezioni del 1948 sono disastrosi. I candidati socialisti raccolgono meno della metà delle preferenze di quelli comunisti al punto che i deputati socialisti sono appena 42 sui 183 complessivi del Fronte popolare. La disfatta elettorale impone una battuta di arresto ai più accaniti sostenitori della fusione con il Pci. Il congresso straordinario convocato nell’estate del 1948 (27 giugno-1° luglio) estromette dalla segreteria Basso sostituendolo con un candidato espresso da una nuova corrente «centrista», Alberto Jacometti, affiancato dall’ex azionista Riccardo Lombardi quale vicesegretario. L’alleanza con il Pci viene sottoposta a un vaglio critico ma, allo stesso tempo, non si trovano altre sponde: i rapporti con i socialdemocratici rimangono freddi e ostili, e con la Dc il discorso si è chiuso il 18 aprile. In altri termini, il Psi si è infilato in un cul-de-sac in fondo al quale c’è solo l’intesa con il Pci.
    La consapevolezza della situazione di minorità in cui il partito si trova di fronte al Pci non riesce a farsi strada, tant’è vero che l’esperimento centrista del duo Jacometti-Lombardi dura poco più di un anno. Riemerge la componente di sinistra, favorevole a una «politica di classe» orientata esclusivamente verso il Pci. Tuttavia, per ragioni di immagine e di equilibri interni la segretaria è affidata alle mani del leader più prestigioso del partito, e cioè Nenni.
    La sua lunga segreteria (1949-62) si consoliderà negli anni Cinquanta grazie all’intesa, a volte elettrica, con Rodolfo Morandi, a lungo vicesegretario e responsabile dell’organizzazione. Morandi è l’artefice della ricostruzione organizzativa del partito dopo lo sfascio degli anni 1947-48. Pur criticando la concezione del partito dei comunisti, Morandi ne ripropone il modello organizzativo sotto altre vesti, proprio per rinvigorire uno specifico socialista appannato dalle politiche fusionistiche e unitarie.
    I risultati della gestione Morandi sono brillanti. Le sezioni passano dalle 5.936 del 1950 alle 7.385 del 1954, i nuclei aziendali socialisti (strutture di mobilitazione all’interno delle fabbriche) da 720 a 1.412, i «collettori» (militanti a tempo pieno) da 2.530 a 7.704. Gli iscritti, secondo i dati ufficiali, oscillano tra i 500 e i 650 mila. Nel 1950 il 50% degli iscritti proviene dal Nord, il 20% dal Centro, il 20% dal Mezzogiorno e il 10% dalle Isole. Coerentemente con questa distribuzione geografica, la componente principale è quella operaia mentre molto più scarsa di un tempo è l’adesione dei contadini.
    La geografia del voto socialista riflette quella degli iscritti. Alle elezioni del 1946 per la Costituente, ricalcando quasi i risultati delle ultime elezioni prima del fascismo nel 1919 e nel 1921, il Psi raccoglie i maggiori consensi nelle regioni industriali del Nord, dove oscilla tra il 20 e il 30% con punte del 31,6% in Friuli e del 30,5% in Lombardia, mentre nel Centro-Sud riesce a malapena a oltrepassare la soglia del 10%. A eccezione della Liguria, il Psi è davanti al Pci in tutto il Nord mentre nelle regioni agricole centrali, la cosiddetta «Zona rossa» (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria), è il Pci a sopravanzare il Psi. In sostanza, il Partito socialista recupera quasi tutto il suo insediamento tradizionale prefascista confermandosi forte dove era forte, e debole dove era debole (a eccezione dell’Emilia-Romagna, dove cede molti consensi ai comunisti).
    Mentre le elezioni del 1948 affrontate congiuntamente con il Pci nel Fronte popolare impediscono di fare un calcolo preciso del rapporto di forza tra i due partiti, quelle del 1953 chiariscono un quadro che non si modificherà per quasi un trentennio. Il Psi si mantiene ben saldo nel Triangolo industriale (Piemonte, Lombardia e Liguria) e conserva d’un soffio (ma per poco) il primato il Lombardia, ma perde disastrosamente il confronto con il Pci nelle regioni della Zona rossa e, soprattutto, nel Sud. Da un lato, il Psdi erode quella base elettorale, concentrata nel Nord, di «aristocrazia operaia» e di ceto medio urbano sensibile alle sirene del socialismo riformista, e, dall’altro, il Pci fa il pieno di voti operai e soprattutto contadini nella Zona rossa e nel Mezzogiorno. Il ridimensionamento del Psi non è quindi dovuto tanto all’abbandono dell’elettorato operaio nella zona industriale quanto all’incapacità di conservare (nella Zona rossa) o di guadagnare (nel Sud) il consenso nelle campagne. In sostanza, il Psi è, negli anni Cinquanta, un partito a forte concentrazione operaia, ben insediato nelle aree più sviluppate del paese, tanto che, se si sommano i suoi voti con quelli dei transfughi del Psdi, i «socialisti» sono ancora nettamente il primo partito in tutto il Nord, Emilia esclusa.
    Il rafforzamento organizzativo e il buon risultato alle elezioni del 1953 rilanciano l’autonomia del partito. Pur tra contraddizioni e incertezze – si pensi al peana di Nenni in onore di Stalin alla morte del dittatore sovietico (1953), alla presidenza dello stesso Nenni dei (filosovietici) Comitati per la pace, o alla promozione dell’accordo tra i partiti «socialisti di sinistra» europei in contrapposizione all’Internazionale socialista – il Psi cerca di recuperare una sua tradizione distinta. In questo tentativo rivendica anche l’eredità del filone democratico-risorgimentale e prefascista, difendendo una visione laica della società e dello stato e il valore delle libertà «borghesi». Rimane però ancora immerso nella tradizione marxista tanto che le libertà borghesi sono considerate soltanto un passo per arrivare all’instaurazione di una vera democrazia, che sarà tale solo grazie all’uguaglianza sociale. E quindi la democrazia parlamentare, più che un bene in sé, è un mezzo per edificare la società socialista. Il Psi si affanna alla ricerca di una sua autonoma posizione politico-ideologica ma rimane in una terra indefinita: da un lato, il Psdi ha buon gioco a sottolineare queste reticenze e contraddizioni ideologiche, dall’altro il Pci utilizza ogni arma di ricatto ideologico-psicologico per tenerlo legato alla mitologia dell’unità di classe, della rivoluzione socialista e dell’anti-imperialismo (ovviamente guidato dalla patria del socialismo, e cioè l’Urss).

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  2. #2
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    Predefinito Re: Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

    Il passaggio definitivo del Psi nel suo faticoso processo di autonomizzazione dal Pci avviene grazie a una diversa configurazione dei vincoli internazionali. Già dal 1953 il Psi si era posto in maniera meno manichea il problema dell’accettazione della Nato e, dopo un’iniziale ostilità alla Comunità europea di difesa (Ced, il progetto di esercito comune europeo), all’avvicinarsi della scadenza per l’ingresso dell’Italia nel Mercato europeo comune (Mec), si era dimostrato sempre più possibilista; ma è con il 1956 che tutto cambia.
    Il XX Congresso del Pcus, la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Chruščëv e l’invasione dell’esercito sovietico contro gli insorti in Ungheria forniscono al Psi l’occasione per marcare nettamente e senza equivoci la sua estraneità rispetto a quel mondo. Le durissime prese di posizione di Nenni, simboleggiate tra l’altro dalla restituzione del premio Stalin da parte del segretario socialista che destina i relativi 15 milioni ai martiri ungheresi, facilitano una ripresa di dialogo con i cattolici. Il nuovo corso della Dc di Fanfani aveva già consentito al Psi di riproporre qualche intesa, tanto che Nenni aveva scritto che «l’incontro (dei democristiani) con noi è scritto nelle cose». Ma questo incontro necessiterà di tempi lunghi.
    L’approccio con i socialdemocratici, invece, timidamente avviato già da qualche tempo, subisce una netta accelerazione. L’incontro tra Nenni e Saragat a Pralognan, nell’estate del 1956, si conclude con un celebre abbraccio, foriero di sviluppi imminenti. In realtà, all’interno del partito permangono resistenze al taglio del cordone ombelicale con il movimento comunista interno e internazionale. La fronda interna si coagula nella cosiddetta «corrente dei carristi», cioè di coloro che non vogliono una denuncia troppo esplicita dell’intervento sovietico in Ungheria per paura di rompere l’unità di classe con il Pci, proprio quando questo partito vive la sua prima, profonda crisi che sfocia nelle dimissioni di un nutrito gruppo di intellettuali e di quadri che, in buona parte, aderiscono al Psi.
    Quando i fatti del 1956 e il buon risultato delle amministrative di quello stesso anno sembrano porre le premesse per il passaggio del Psi nell’area di governo e la ricomposizione della frattura socialdemocratica, Nenni non ha più al suo fianco il più prezioso alleato di questa strategia, Rodolfo Morandi, morto l’anno precedente. Gli effetti si vedono nel XXXII Congresso (6-10 febbraio 1957) svoltosi a Venezia, che avrebbe dovuto consacrare la svolta autonomista e l’apertura alla Dc (tra l’altro, il congresso è significativamente accolto da un caloroso messaggio del patriarca di Venezia, cardinale Roncalli, futuro papa Giovanni XXIII); benché vengano approvate risoluzioni innovative – inscindibilità del nesso democrazia-socialismo, democrazia come fine e non come mezzo, abbandono di ogni legame con il mondo del socialismo reale -, la conclusione del congresso è ambigua. Il leader che identifica questa linea, Nenni, non viene plebiscitato ma, al contrario, ottiene meno preferenze di altri leader nell’elezione al Comitato centrale. Anche se viene riconfermato alla segreteria, è un leader dimezzato, a legittimità ridotta. Questa débâcle riporta in alto mare tutti i progetti coltivati negli anni immediatamente precedenti: si rompe il patto di consultazione con i socialdemocratici, soprattutto per la diffidenza di Saragat, si isterilisce il dialogo con i cattolici, stenta quello con repubblicani e radicali. Lo slancio per arrivare al sospirato incontro con i cattolici potrebbe essere fornito dalle elezioni del 1958, che danno il miglior risultato in assoluto del Psi fino ad allora, 14,2%. Ma non basta. È di nuovo il contesto internazionale a dare il via libera alla strategia di integrazione socialista nel sistema: l’elezione del democratico John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti e il pontificato di papa Roncalli con i loro messaggi di distensione facilitano indirettamente la marcia di avvicinamento alla «stanza dei bottoni». Semmai, sono proprio all’interno dello stesso Psi le zavorre più ingombranti. La sorda ostilità della sinistra socialista all’ipotesi di un governo con i «nemici di classe», rinfocolata abilmente da un’attività ai fianchi (o, meglio, per file interne) del Pci, indebolisce l’azione della segreteria socialista. Inoltre, nella stessa maggioranza, al XXXIV Congresso (16-18 marzo 1961), emerge la posizione particolare di un esponente della maggioranza, Riccardo Lombardi, fautore di un enigmatico «riformismo rivoluzionario».
    Nonostante tutto il Partito socialista compie il grande passo e consente con il suo appoggio esterno la nascita del IV governo Fanfani (21 febbraio 1962). In contropartita ottiene dal nuovo esecutivo la nazionalizzazione delle industrie elettriche, il cosiddetto «Piano verde» per l’agricoltura, la riforma della scuola media, l’attuazione delle regioni e la programmazione economica: il più ambizioso programma riformista mai realizzato fino ad allora. Anche se queste non sono quelle riforme di struttura per scardinare il sistema capitalista invocate da Lombardi, la sinistra interna si adegua e mette la sordina alle critiche. Per Nenni si è finalmente arrivati a «colmare il distacco tra istituzioni e popolo». Tuttavia, la speranza di condizionare stabilmente la Dc e di mettere all’angolo il Pci svanisce subito. Al momento di entrare direttamente al governo sotto la premiership di Aldo Moro (5 dicembre 1963) 25 deputati su 87 e 12 senatori su 36 non partecipano al voto di fiducia lamentando la svendita del socialismo al moderatismo capitalista-borghese, ed escono dal partito fondando il Psiup (il vecchio nome del partito nel 1943-46). Gli scissionisti sono seguiti da circa 3 mila sezioni e nuclei aziendali e da una grande quantità di quadri tra cui almeno 500 funzionari. Un’emorragia che indebolisce mortalmente il Partito socialista. Dopo un effimero successo alle elezioni del 1968, il Psiup si scioglierà nel 1972, travolto dal fiasco elettorale in quell’occasione.
    Questa scissione priva il Psi della forza necessaria per mantenere l’impulso riformatore appena avviato. Inoltre, le pressioni diventano insostenibili: la più drammatica quella profilatasi durante la crisi di governo dell’estate del 1964 con voci di colpi di stato (il caso Sifar del generale Giovanni De Lorenzo), rievocate poi da Nenni con la celebre espressione del «tintinnar di sciabole». In compenso, il partito, liberatosi della sua ingombrante ala sinistra, può riprendere il processo di unificazione con il Psdi già tentato un decennio prima. Auspice il neoeletto presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, dopo altri due anni di gestazione, il 30 ottobre 1966, a conclusione del XXXVII Congresso (26-29 ottobre), viene celebrata, in un clima di grande euforia, la fusione tra i due partiti.
    Nonostante tutti i travagli, in questi anni il Psi raccoglie adesioni entusiastiche da parte di un ceto intellettuale che tendenzialmente lo snobbava a favore del Pci; le idee-forza della programmazione economica e delle riforme di struttura attraggono numerosi brillanti economisti, alcuni dei quali partecipano a quel serbatoio di intelligenze che è il Comitato per la programmazione (Paolo Sylos Sabini, Giorgio Ruffolo, Antonio Giolitti); il massimalismo e il verbalismo rivoluzionario socialista sembrano lasciare posto a una concretezza riformatrice tale da portare il partito finalmente a contatto con le esperienze socialdemocratiche europee.

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    Predefinito Re: Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

    L’unificazione con il Psdi potrebbe essere congeniale a questo processo. Ma questo obiettivo è stato così ritardato da non rispondere più alle aspettative che vi erano state riposte quando venne prefigurato: è una sorta di matrimonio tardivo quando ormai le passioni, in positivo e in negativo, si sono spente. Per questo motivo, da un lato, l’unificazione si rivela una sovrapposizione di apparati con le gelosie e le piccinerie tipiche di queste operazioni fatte a tavolino, a freddo; dall’altro, non riesce e fungere da motore per quella più ampia aggregazione laico-socialista, prefigurata da Nenni, che consentisse di dialogare con «pari dignità» con Pci e Dc.
    Le ambizioni del Partito socialista unificato si scontrano con i dati delle elezioni del 1968 dove il partito – che si presenta con la sigla Psu – ottiene un misero 14,5%, ben inferiore alla somma dei voti ottenuti dai due partiti nel 1963. Questo insuccesso innesca una spirale di frammentazione e rissosità interna. Lo sfaldamento della corrente autonomista, che aveva gestito il processo di unificazione, consente alla sinistra interna di conquistare la segreteria acuendo così la contrapposizione con la componente socialdemocratica. Nonostante lo sforzo di Nenni a favore dell’unità, la scissione socialdemocratica si consuma nell’estate del 1969. Il progetto di costituzione di un forte polo laico-socialista va in frantumi.
    A questa prospettiva strategica si sostituisce la formula dei «nuovi e più avanzati equilibri», infelice espressione con la quale si patrocina un governo aperto a sinistra. Sostanzialmente, la nuova segreteria di Francesco De Martino vuole rappresentare al governo tutta la sinistra, innescando un rapporto preferenziale sia con il Pci sia con il sindacato, definito «il quinto partito» della coalizione. In tal modo la dirigenza socialista pensa si avere un maggior potere contrattuale nei confronti della Dc: in realtà, invece, non fa altro che irritare i partner di governo e scontentare i suoi interlocutori esterni (Pci e sindacato) che non si accontentano delle pur rilevanti riforme realizzate in questo periodo, come lo Statuto dei lavoratori, fortissimamente voluto dal ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, e la legge sul divorzio firmata dall’inedita coppia, liberale e socialista, Antonio Baslini e Loris Fortuna. Questi successi non sono sufficienti e dirottare consensi sul Psi alle elezioni del 1972, che invece segnano il suo peggior risultato fino ad allora: 9,6%. Il partito arretra al Centro-Nord dove ha perso la propria base militante, visto che nel 1971 gli iscritti delle regioni meridionali sono saliti al 48% del totale (contro il 31% di dieci anni prima).
    Nei primi anni Settanta il Psi attraversa un periodo difficile: estromesso dal governo per far posto a una (breve) riedizione del centrismo; «forzato» al cambio di segreteria per le accuse di corruzione lanciate contro Giacomo Mancini (sostituito da De Martino); spiazzato dalla proposta del segretario del Pci di un «compromesso storico» con le forze popolari, Dc inclusa, quindi; investito senza trarne particolari benefici dalla stagione dei movimenti collettivi. Per quanto una parte del Psi si offra di rappresentare i fermenti della società civile, un’altra è del tutto indifferente. Ne è un esempio la reazione della segreteria ai risultati del referendum sul divorzio nel 1974. Mentre il vecchio Nenni, dopo aver partecipato al comizio finale con gli altri leader storici delle forze laiche, saluta il risultato come la rivincita sul 18 aprile 1948, De Martino, in sintonia con il Pci, ne sminuisce la portata, in puro stile autolesionista. Del resto, la strategia del segretario socialista, chiaramente enunciata alla fine del 1974, è quella di instaurare un rapporto preferenziale con la Dc piuttosto che con i partiti laici per aprire la strada del governo al Pci. Ci vorrà il tonfo elettorale del 1976, e corrispettivamente il successo comunista, perché la dirigenza socialista capisca che sta avanzando, alle sue spalle, un’intesa diretta tra Pci e Dc. A forza di portare acqua al Pci, il Partito socialista rischia di rimanere a secco.
    È quanto accade alle elezioni del 1976, quando il Psi riconferma il suo minimo storico delle precedenti elezioni (9,6%) e arretra di 2,4 punti rispetto alle amministrative dell’anno prima che avevano illuso circa una ripresa elettorale del partito. Una situazione così buia necessita di un capro espiatorio, che non può che essere il segretario del partito. In un infuocato Comitato centrale (12-16 luglio 1976) all’hotel Midas di Roma, gli schieramenti interni, da tempo cristallizzati, si frantumano in un caleidoscopio di posizioni. La corrente di maggioranza di osservanza demartiniana si sfalda, demolita dalla defezione guidata da Enrico Manca che assume il ruolo di regista nella scelta del nuovo leader. Un’inedita coalizione composta da sinistra lombardiana, autonomisti nenniani, ex demartiniani e manciniani insedia alla guida del partito il candidato meno appariscente, più giovane e più debole (in quanto esponente della piccola corrente autonomista), Bettino Craxi. L’elezione di Craxi, a lungo segretario della Federazione di Milano, seguace di Nenni e dal 1972 giovane vicesegretario nazionale, è in sintonia con il rinnovamento dei dirigenti socialisti e l’affacciarsi della terza generazione dopo quella storica dei Nenni e dei Pertini e quella intermedia dei De Martino e dei Mancini. Proprio nel congresso immediatamente precedente (3-7 marzo 1976) c’era stato un ricambio significativo negli organi dirigenti nazionali: più di un quarto del totale (10 su 37) apparteneva alla generazione dei quarantenni.
    Quella che sarebbe dovuta essere una segreteria di transizione si rivela invece la più stabile e la più solida della storia del Psi. Il consolidamento di Craxi avviene in pochi anni attraverso alcuni passaggi cruciali. Il primo è quello di stringere alleanze con le altre componenti per poter governare il partito. Particolarmente stretto il rapporto con il leader emergente della sinistra lombardiana, Claudio Signorile, tanto che l’asse Craxi-Signorile gestisce il partito fino alla rottura della loro intesa tra fine 1979 e inizio 1980.
    Il secondo è il mutamento politico-strategico. L’avanzamento della strategia del «compromesso storico» è percepito come una minaccia diretta al ruolo e alla sopravvivenza politica del Psi. Nella seconda metà degli anni Settanta il Psi fa ogni sforzo per contrastare la tendenza al bipolarismo, a un duopolio tra Pci e Dc che azzeri le forze intermedie. Per ritrovare uno spazio d’azione autonomo, vira a sinistra adottando una strategia «mitterrandiana» di alternativa di sinistra. Mentre il Pci corre al centro e deve mettere la sordina alle proteste per accreditarsi come affidabile partner di governo, il Psi lo incalza da sinistra blandendo tutti i movimenti di contestazione (ivi compreso il Movimento del Settantasette), esaltando i fermenti della società civile e riaccendendo una forte polemica sul «socialismo reale» dell’Europa dell’Est. In questa fase, un contributo decisivo viene portato dal più prestigioso intellettuale vicino al partito, Norberto Bobbio. Con una serie di saggi brillanti e provocatori pubblicati sulla rivista del partito, «Mondoperaio», che conosce una stagione di grande fervore, Bobbio affonda il rasoio della critica sulle debolezze teoriche del marxismo e dei suoi interpreti italiani in merito alla concezione dello stato e della democrazia. Il dibattito che ne scaturisce ha un duplice effetto: marca delle chiare linee divisorie ideali nei confronti del Pci, e rinforza l’immagine del partito precisandone alcuni tratti ideologici ancora indefiniti. Il riformismo pragmatico nenniano – di cui Craxi si considera l’erede – aveva mantenuto nei suoi codici genetici l’impronta marxista e l’analisi di classe. Nenni era approdato, con il fatidico 1956, all’accettazione della democrazia come metodo e non solo come fine, ma mancavano i fondamenti teorici di questa opzione: era una sorta di constatazione di fatto, di accettazione naturale facilitata da quel fondo umanistico, e umano, che pervadeva il grande leader socialista. Alla fine degli anni Settanta, prende invece corpo la consapevolezza delle radici ideologiche, diverse e autonome, del partito, attraverso un processo di rivalutazione ed esaltazione della tradizione riformista, e di acquisizione piena dei principi della liberaldemocrazia. L’integrazione senza distinguo o pruderie nella socialdemocrazia europea ne è una conseguenza.
    L’ansia di rinnovamento presente nel partito incide anche nel reclutamento del personale politico: circa la metà dei 6 mila membri eletti degli organi direttivi provinciali viene rinnovata nel corso del 1977. Lo stesso vale per il Comitato centrale eletto dal XLI Congresso del 1978 in cui ben il 41,3% dei membri è di nuova nomina. Di questo massiccio ricambio, guidato dal nuovo dinamico responsabile dell’organizzazione, Gianni De Michelis, beneficiano le due correnti al potere, quella autonomista e quella lombardiana, spappolando il correntone demartiniano, ormai privo di qualsiasi referente politico, ideologico e strategico. Il cambiamento interno è favorito anche da una nuova leva di amministratori locali eletta nel 1975. Il nuovo personale amministrativo locale, svincolato da logiche di unità di classe e sempre più insofferente verso il Pci, ma anche meno conciliante la Dc, favorisce un incremento del potenziale di coalizione del Psi in quanto si rende disponibile a entrare sia nelle tradizionali giunte di centro-sinistra sia in quelle di sinistra, soprattutto nelle grandi città. Nel 1977 il Psi ha il 16,5% degli assessori comunali e il 14,3% dei sindaci, quote superiori a quelle dei suoi voti. Anche le iscrizioni mostrano un’inversione di tendenza: aumentano i membri delle regioni settentrionali – oltre il 40% - a scapito di quelli delle regioni meridionali. La nuova segreteria milanese sembra sollecitare un nuovo trend di reclutamento.


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    Predefinito Re: Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

    La prima conferma della segreteria di Craxi si ha al XLI Congresso del 1978 (30 marzo-2 aprile). Grazie all’alleanza con Signorile, il segretario si assicura il consenso di quasi i due terzi dei delegati; una maggioranza confortevole, se rapportata con la tradizionale frammentazione e rissosità interna del partito. Proprio grazie a questo ampio sostegno vengono introdotti importanti cambiamenti: viene modificata la linea politica indirizzandosi a favore dell’alternativa di sinistra e viene cambiato il simbolo storico del partito in modo da marcare, anche in questo modo, l’inizio di una nuova fase. La leadership craxiana si consolida però solo all’inizio del 1980 quando riesce a liberarsi dell’alleanza con la sinistra interna, critica sulla gestione del partito che lascia poco spazio ai non allineati con il segretario, e sulla scarsa convinzione nell’alternativa di sinistra, provocando lo scontro con la sinistra interna. Grazie al decisivo passaggio nelle file craxiane del demartiniano Manca e del lombardiano De Michelis, il segretario vince lo scontro con Signorile e impone la nuova strategia della «governabilità», abbandonando ogni ipotesi di alternativa.
    Da questo momento la leadership di Craxi diviene sempre più incontrastata. Il LXII Congresso (22-26 aprile 1981) ne rappresenta il suggello: Craxi viene plebiscitato da più del 70% dei delegati, che per la prima volta votano direttamente il segretario, aggiungendo un tassello importante al processo di personalizzazione della leadership. Il controllo del partito è assicurato anche da un forte rinnovamento della classe dirigente: entrano in direzione 25 nuovi membri, quasi tutti di fede craxiana, su 41. E a segnare un’ulteriore cesura rispetto al passato, i due vicesegretari, Claudio Martelli e Valdo Spini, sono due trentenni, entrambi con un’elevata caratura intellettuale.
    La consacrazione finale della leadership di Craxi avviene con la sua nomina a presidente del Consiglio. Nel 1983, di fronte a una Dc sotto choc per la sua sonora sconfitta, Craxi forma un governo destinato a durare, per la prima volta nella storia repubblicana, tutta la legislatura (benché interrotta un anno prima della scadenza naturale). Questo periodo è contrassegnato da una continua offensiva sia verso la Dc sia verso il Pci. Il Partito socialista si contrappone alla Democrazia cristiana candidandosi come il vero garante della stabilità governativa e come una forza moderna, efficiente e riformatrice: il tutto allo scopo di sostituire al centro dello schieramento politico, in posizione egemonica, la stessa Dc. È una lotta sorda, senza esclusione di colpi, che passa anche (e poi, soprattutto) per una spietata competizione per il «sottogoverno» e per l’occupazione di qualunque posto e risorsa disponibili. Le residue resistenze morali vengono tacitate, oltre che da un costume ormai molto rilassato, dall’argomentazione che bisogna contrastare la Dc sul suo stesso terreno.
    Anche nei confronti del Partito comunista il Psi procede nella sua politica antagonistica. Il Pci viene incalzato sia sul pieno teorico, continuando a demolire quel poco che è rimasto di riferimenti marxisti, ed enfatizzando la superiorità della tradizione riformista, sia sul piano ideologico e su quello della politica internazionale. La polemica con il Pci raggiunge vette impensabili fino a qualche anno prima. A un Partito comunista che individua in Craxi «un pericolo per la democrazia» rispondono le bordate di fischi che accolgono Enrico Berlinguer al XLIII Congresso socialista (11-15 maggio 1984): una scena inimmaginabile nei decenni di passiva subordinazione all’«autorevolezza» comunista. In effetti, il Psi esce definitivamente da uno stato di vassallaggio psicologico proprio nel 1984, quando sfida il partito di Berlinguer sul terreno delle relazioni industriali con l’accordo sul costo del lavoro, decretato dal governo Craxi nonostante la feroce opposizione del Pci (che indice anche un referendum, poi disastrosamente perduto). Il governo – e quindi il Psi – non riconosce più al Pci un diritto di primogenitura sui problemi del mondo del lavoro. Anzi, il Partito socialista sfrutta questa occasione per sottolineare l’arretratezza culturale del Partito comunista rispetto alle modificazioni socioeconomiche dell’Italia degli anni Ottanta. Non a caso, il Psi si orienta a rappresentare i nuovi ceti medi, emersi con la ripresa economica della metà di questo decennio. Questo porta il partito a enfatizzare, a volte con effetti grotteschi, un collegamento privilegiato con i settori trainanti e di punta dell’economia italiana, i cosiddetti «ceti emergenti».
    Tuttavia, questa autorappresentazione non corrisponde alla realtà. Anche se il Psi è forte e governa le maggiori città del Centro-Nord, il suo baricentro elettorale si è spostato al Sud. Alle elezioni del 1983 per la prima volta il Psi ottiene più voti al Sud che al Nord. Con un processo che si è sviluppato fin dagli anni Sessanta, il Psi ha perso terreno nelle tradizionali aree di forza nel Settentrione per acquistarne nel Mezzogiorno. Calabria e Puglia diventano le roccaforti socialiste al posto di Lombardia e Piemonte. Stesso andamento per la distribuzione geografica degli iscritti. Una ragione plausibile per cui la forza del Psi si sposta verso sud proprio quando il suo rinnovamento vorrebbe farne il partito della modernizzazione del paese rimanda al ruolo giocato dal cosiddetto «voto di scambio»: con la presenza sempre più massiccia e spregiudicata del Psi negli enti pubblici, nelle amministrazioni dello stato e nel settore economico statale, la disponibilità di risorse da distribuire è certamente aumentata, con la conseguente possibilità di agganciare un elettorato motivato da altro che da tradizioni e idealità riformiste.
    A ogni modo, la leadership socialista si presenta, ed è percepita, ben ancorata al Nord e a Milano in particolare, culla politica del segretario. Per questo la cosiddetta «mutazione antropologica» dei socialisti dell’era craxiana è dovuta più ai cambiamenti in atto della società italiana che al pervertimento causato dalla leadership: le scelte adottate negli anni del governo Craxi, l’autoimmagine di partito della modernità anche negli aspetti più frivoli (la «Milano da bere») e l’adozione spregiudicata delle pratiche del sottogoverno e del clientelismo hanno inciso in questa mutazione, tanto da sollevare critiche sempre più forti sia all’esterno, dal Pci, sia all’interno, dal gruppo iniziale dei rinnovatori di «Mondoperaio»; ma sono anche il riflesso di una società che ha finalmente lasciato alle spalle gli anni di piombo e che manifesta un nuovo individualismo acquisitivo. Il Psi è all’incrocio di pulsioni modernizzanti e pratiche antiche. Per molto tempo pensa di risolvere le sue contraddizioni con la forza prometeica della sua leadership. Il decisionismo craxiano, l’immagine di leader volitivo fino all’arroganza, le sfide vinte su più terreni (in primis lo scontro con gli Stati Uniti a Sigonella a seguito del sequestro della nave Achille Lauro) contribuiscono a spandere un’aura di vittoria inevitabile sul partito.
    Ma anche se «la nave va», metafora di un’economia in ripresa, coniata dai socialisti in quel periodo, i dividendi elettorali del partito continuano a essere sideralmente lontani dalle aspettative. Il voto del 1987 consente al Psi di arrivare vicino al suo massimo storico con il 14,3%, ma è poca cosa. Tuttavia, in questa elezione il partito inverte la tendenza alla meridionalizzazione in atto e guadagna soprattutto al Nord e nelle grandi città riequilibrando parzialmente la sua distribuzione geografica anche se le zone di maggior successo rimangono quelle di quattro anni prima, nell’ordine Puglia, Calabria e Campania. Questo risultato rappresenta l’apogeo delle fortune socialiste.
    Negli anni successivi, persa la premiership a favore della Dc, la capacità di condizionamento nei confronti dello Scudocrociato diminuisce verticalmente e Craxi abbandona la strategia del confronto costante e pungente. E infatti nel corso del XLV Congresso (13-16 maggio 1989) sigla un accordo con la leadership democristiana per una gestione più consensuale del governo. La tregua su quel fronte potrebbe essere funzionale alla realizzazione dell’antico progetto nenniano di una federazione laico-socialista imperniata sul Psi, su cui all’interno del partito molti, sulla scia del vicesegretario Claudio Martelli, insistono. Ma l’atteggiamento egemonizzante nei confronti del Partito socialdemocratico e del Partito radicale, le due formazioni più vicine al Psi in questa fase, impediscono di concretizzare tale ipotesi. Analogamente, la leadership socialista è incapace di sfruttare al meglio il collasso del socialismo reale e la conseguente crisi del Pci. Invece di stringere il Partito comunista in un «abbraccio mortale», una replica del 1948 con ruoli invertiti, il Psi oscilla tra l’indifferenza e l’irrisione buttando a mare l’occasione storica di pareggiare i conti con l’avversario di sinistra.
    Tutto ciò riflette uno stato di astenia strategica e politica del partito e della sua leadership. All’interno della dirigenza socialista, e anche in larghissima parte del partito, vige un’acquiescenza assoluta verso il leader, al limite del culto della personalità. Non esiste praticamente più dibattito e anche il fiore all’occhiello della stagione riformista, la rivista «Mondoperaio», ha (da tempo) perso mordente. Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta il Psi vegeta, mantenendo inalterata la sua forza elettorale e organizzativa, ma perdendo ogni capacità progettuale. In sostanza, gestisce l’esistente sfruttando al massimo la sua collocazione strategica senza prefissarsi obiettivi di lungo periodo. Non emerge nulla di lontanamente paragonabile all’attenta e originale riflessione sulle trasformazioni della società italiana elaborata nella Conferenza programmatica di Rimini del 1982, quando il vicesegretario Martelli delineò un’azione riformatrice che, già allora, superasse i limiti dell’assistenzialismo, tenendo piuttosto in conto «meriti e bisogni»: una capacità progettuale e una visione prospettica dissipate.
    Un segno dello sfilacciamento del partito rispetto agli umori dell’elettorato emerge in maniera clamorosa nel giugno del 1991, quando Craxi irride il referendum elettorale sulla preferenza unica promosso dal Comitato Segni invitando a non votare e ad «andare al mare». L’esito del referendum, favorevole all’abrogazione, si ritorce come un colpo di frusta sul leader socialista, che diventa agli occhi dell’opinione pubblica il vero sconfitto. Improvvisamente Craxi perde tutto d’un colpo l’aura del vincitore. In una rovente e caotica sala del XLVI Congresso (27-30 giugno 1991) Craxi dà l’immagine del leader appannato e affaticato. La canottiera che traspare dalla camicia intrisa di sudore è lontana mille miglia da quell’immagine efficientistica, manageriale e «rampante» (per usare un termine di uso corrente negli anni Ottanta) che il partito e il suo leader volevano proiettare.
    Ma il colpo di maglio alla «potenza» socialista è assestato dalle indagini giudiziarie sulla corruzione politica. L’inchiesta Mani pulite inizia con l’arresto di un amministratore socialista milanese. Il tentativo di minimizzare la questione da parte di Craxi - «è un mariuolo» - viene sconfessato dalla valanga di incriminazioni e arresti che piovono sul Psi. Tuttavia, nell’immediato, il partito non ne risente: alle elezioni del 1992 ottiene un buon 13,6% (perdendo però quei consensi al Nord che aveva recuperato nel 1987 e sbilanciandosi ancor più pesantemente verso Sud). Ma il peso degli scandali che coinvolgono il Psi, e più direttamente l’entourage milanese craxiano, è tale che il leader deve rinunciare alle sue ambizioni: non si candida né alla presidenza della Repubblica, né a quella del Consiglio, alla quale riesce però a collocare un socialista, per quanto anomalo, nella persona di Giuliano Amato. La performance del governo Amato è una delle migliori della storia repubblicana, soprattutto sul piano della politica economica, ma non basta a frenare la precipitosa china discendente del Psi. In fondo, proprio l’eccentricità di Amato rispetto all’inner circle craxiano, ancor più del suo alto profilo intellettuale e della sua personale probità, impedisce a partito nel suo complesso di beneficiare del suo impegno.


    (...)
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    Predefinito Re: Psi. Il riformismo (schiacciato) tra sudditanza e arroganza

    Nel Psi affiorano i primi malumori. Se ne fa interprete il delfino di Craxi, Martelli, il quale rompe il lungo sodalizio con il leader dissentendo sulla totale contrapposizione verso la procura milanese e sulla chiusura a riccio del partito, oltre che su altri temi come la riforma del sistema elettorale. Lo scontro si consuma nell’Assemblea nazionale del novembre del 1992, dalla quale esce nettamente vincitore ancora Craxi che raccoglie quasi due terzi dei consensi.
    Solo dopo aver ricevuto quattro avvisi di garanzia il leader socialista decide di passare la mano favorendo nel febbraio del 1993 l’elezione di un suo fedele sostenitore, Giorgio Benvenuto, ex segretario della Uil. La scelta si rivela infelice. Benvenuto entra in una spirale di recriminazioni e accuse nei confronti dello stesso Craxi tali da portare dopo tre mesi alle sue dimissioni e all’uscita dal partito. Al posto di Benvenuto viene eletto un altro ex sindacalista (questa volta della Cgil), Ottaviano Del Turco, che assiste impotente allo sfaldamento organizzativo e politico avviatosi con una progressione accelerata negli ultimi mesi del 1993. Alle elezioni amministrative di novembre il Psi non supera il 4% confermando lo stato preagonico del partito. All’Assemblea nazionale del 16 dicembre si consuma uno strappo ulteriore: la componente craxiana che si oppone frontalmente alla politica di Del Turco, imperniata nel sostegno al governo Ciampi, nella ricerca di un’alleanza a sinistra e nello sforzo di moralizzazione del partito, per la prima volta viene sconfitta, 156 a 116. Finisce un’epoca nella storia del Psi: Craxi non è più il dominus incontrastato del partito, anche se controlla ancora buona parte del gruppo parlamentare, che infatti si scinde in due tronconi, uno allineato con il segretario e l’altro fedele a Craxi.
    In quello stato confusionale il Psi, dopo aver cambiato nome e simbolo al partito – Partito socialista (Ps) e una rosa stilizzata -, alle elezioni del 1994 affonda al 2,2% anche se, avendo aderito all’Alleanza dei progressisti, alcuni socialisti vengono eletti.
    Tuttavia, il colpo finale al partito è assestato dall’espatrio di Craxi in Tunisia, subito dopo le elezioni, in una sua villa di vacanze, per sfuggire all’ordine di arresto spiccatogli dalla magistratura. Il Psi senza il suo leader di riferimento si scioglie come neve al sole e implode in una miriade di gruppi; Benvenuto, uscito qualche mese prima, fonda il raggruppamento di Rinascita socialista, vicino alla sinistra; Amato aderisce personalmente al Patto Segni; Valdo Spini dà vita ai Laburisti; altri come Ruffolo entrano nel nuovo movimento laico di Alleanza democratica; i fedelissimi di Craxi (Intini, Boniver) fondano la Federazione liberalsocialista. Altri ancora, infine, soprattutto a livello locale, rimpinguano le file del neonato movimento Forza Italia.
    A Del Turco non rimane che condurre il partito verso lo scioglimento, sancito il 12 novembre 1994, al XLVII Congresso dove, in rappresentanza dei residui 42.387 iscritti, si decide la sua trasformazione in Socialisti italiani (Si) eleggendo segretario un giovane dirigente, Enrico Boselli. Sulle sue spalle grava il compito di «restituire l’onore» e la visibilità a un partito travolto nell’arco di pochi mesi dalla rivoluzione dei giudici, ridotto a dimensioni risibili e additato a responsabile massimo del degrado morale e della corruzione. Si sembra in grado di reclutare ancora alcune decine di migliaia di iscritti e, grazie a un’accorta alleanza elettorale prima con Alleanza democratica e Patto Segni alle regionali del 1995, dove ottiene il 4,5% dei voti, e poi con la lista Dini, alle elezioni del 1996, riporta in parlamento alcuni socialisti. Il partito di Boselli non riesce però a risalire la china stretto tra l’evoluzione e la capacità di attrazione del Partito democratico della sinistra (Pds), lo scivolamento a destra di molti quadri intermedi, militanti ed elettori e la presenza tuttora incombente di Bettino Craxi i cui fax da Hammamet provocano regolarmente imbarazzi e disagi a un partito che vuol chiudere la stagione che si identifica nel capo carismatico del Partito socialista degli ultimi vent’anni.
    Un tentativo per ricomporre la diaspora dei socialisti viene messo in atto con la fondazione dello Sdi (Socialisti democratici italiani) nel 1998, a cui partecipano molte delle anime sparse del socialismo. Questo consente di mantenere un minimo di visibilità e di portare a Strasburgo due rappresentanti grazie al 2,1% ottenuto alle europee del 1999 e di ottenere un ministero nel governo D’Alema (1998-2000) e in quello di Amato (2000-2001) grazie al buon rapporto instaurato con i Democratici di sinistra (Ds). Lo Sdi mantiene viva la tradizione socialista in continuità con il passato, ma nel mondo socialista non c’è pace perché una componente si stacca dal partito e insieme ad altri ex dirigenti del Psi dà vita al Nuovo Psi, animato da Martelli, De Michelis e Bobo Craxi (che però poi prenderanno strade diverse), e orientato a una collaborazione con Forza Italia. Ma se lo Sdi cerca di mantenere un suo spazio autonomo nel sistema partitico e a tal fine stringe varie alleanze (quella con i Verdi nel Girasole nel 2001 e quella con i radicali nel 2006 con la Rosa nel pugno, tutte di limitato successo, peraltro), le altre formazioni inclinate verso destra cercano piuttosto collocazione nel grande corpo di Forza Italia. Il paradosso è che con questa dispersione, calcolando anche le fuoriuscite precedenti, saranno eletti nelle varie formazioni una sessantina di ex socialisti tra Camera e Senato, nel 2001: una presenza tutt’altro che trascurabile ma non ricomponibile in una sola formazione. Il lascito di dissidi e ostilità insanabili, di scelte politiche e visioni divergenti impedisce la rinascita di una formazione di dimensioni apprezzabili. Nemmeno l’unità di quasi tutte le membra sparse a sinistra e a destra, realizzata nel 1998 con la costituzione di un nuovo soggetto, il Ps, consente di uscire dalle secche di consensi minuscoli. La tenacia dell’ex segretario del Si prima e dello Sdi poi, Enrico Boselli, che lo porta a essere confermato alla guida del nuovo partito, non è premiata alle urne, tutt’altro. Nel 2008, complice la forza aggregativa del nuovo Partito democratico (Pd) che respinge una proposta di alleanza formulata da Boselli, il Ps affonda sotto l’1% e rimane senza rappresentanza parlamentare.
    Le dimissioni del segretario aprono una nuova fase turbolenta che si concluse con la riesumazione del nome storico Partito socialista italiano, nel 2009 e con una nuova leadership, nella figura di Riccardo Nencini, che nel corso degli anni, pur senza presentare il partito alle elezioni, riuscirà a marcare una presenza grazie soprattutto all’attenzione rivoltagli dal Pd e all’ingresso nei governi Renzi (2014-2016) e Gentiloni (2016-2018).
    Gli ultimi vent’anni dei socialisti descrivono un declino irrecuperabile. La resilienza di tanti dirigenti del Psi craxiano ha impedito un vero rinnovamento e un’autentica rifondazione. È stato disperso un patrimonio inestimabile di idealità e di iniziative, basti pensare al periodo aureo del primo centro-sinistra dove i giovani economisti socialisti guidavano, insieme ad alcuni illuminati democristiani e a Ugo La Malfa, il più intelligente e ambizioso progetto di modernizzazione del paese. Il fallimento di quell’esperienza, in parte per il massimalismo della corrente che lasciò il partito in quel momento cruciale, ma anche per altre cause, ha fiaccato in maniera fatale il partito. La leadership craxiana ha illuso tanti sull’avvento di una nuova stagione marcata dall’impronta socialista. In realtà, i progetti di modernizzazione, che trovano nella Conferenza programmatica di Rimini del 1982 il suo apice e in Claudio Martelli il suo potenziale interprete, sfumano nella ricerca disinvolta e arrembante di risorse per fronteggiare al meglio la potenza democristiana, come veniva detto per giustificare quelle pratiche. L’ingresso a Palazzo Chigi, coronamento di una storia secolare, non porta i frutti sperati. Anzi: evidenzia tutti i limiti insiti in un partito gracile, non alimentato da sufficienti energie militanti alla base, con quadri intermedi ed eletti arraffoni, e presto privato delle migliori energie intellettuali, allontanatesi da quella fucina di rinnovamento socialista che si ritrovava nella rivista «Mondoperaio». La concentrazione ossessiva sull’acquisizione di risorse al di là di ogni remora morale alla fine «ha perso» il partito. Lo ha svuotato di energia politica e forza di convincimento. Il crollo è stato catastrofico e la fuga di Craxi in Tunisia ha sparso sale sulle rovine.
    E quindi il Psi attuale, e residuale, non può che essere una pallida controfigura in sessantaquattresimo di uno dei grandi partiti della storia d’Italia.


    https://musicaestoria.wordpress.com/...a-e-arroganza/
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