La storia del Partito socialista italiano (Psi) è una storia di occasioni non colte, di appuntamenti mancati, di treni persi. Culminata con un disastro irreparabile. A essere impietosi potrebbe essere addirittura una storia la cui catarsi esige la decapitazione della sua classe dirigente, la condanna penale del leader incontrastato degli ultimi vent’anni della sua fase finale, il fallimento finanziario, la girandola dei segretari, fino alla sua disintegrazione in una miriade di schegge poi faticosamente ricomposta in una formazione di dimensioni appena visibili.In Piero Ignazi, “I partiti in Italia dal 1945 al 2018”, Il Mulino, Bologna 2015, pp. 43-63.
Quando nell’agosto del 1943, subito dopo la caduta del fascismo, si tiene la prima riunione pubblica e ufficiale del partito, sono rintracciabili tre tronconi: quello storico legato ai fuoriusciti, il Movimento di unità popolare formatosi nel Nord con epicentro a Milano, e il gruppo romano dei giovani che avevano ripreso a tessere le fila dell’organizzazione. In quella riunione vengono nominati i nuovi organismi dirigenti, con Pietro Nenni segretario, e il partito assume il nome di Partito socialista di unità proletaria (Psiup) in omaggio alle richieste delle nuove componenti che vogliono marcare una cesura rispetto al passato. Il nome, comunque, riflette anche il programma: l’obiettivo fondamentale, al di là della liberazione del paese, è puntato sulla realizzazione del partito unico della classe operaia. Il che significa che il rapporto con il Partito comunista influisce in maniera decisiva sulle scelte politico-strategiche, e sugli assetti interni, del Psiup fin dai suoi primi passi. E incomberà sempre sul partito: un rapporto complesso, intricato, spesso rispondente più a meccanismi psicologici che politici di odio-amore, schiavo-padrone, padre-figlio, maestro-allievo.
Gli anni della Resistenza e del primissimo dopoguerra evidenziano una contrapposizione tra la linea «fusionista», incarnata principalmente da Lelio Basso, favorevole a una completa amalgamazione con il Pci, e quella più gelosa dell’autonomia socialista rappresentata dalla vecchia guardia, con Pietro Nenni in testa. In una prima fase, le occasioni di conflitto con il Pci prevalgono sulle ragioni dell’accordo. Lo scontro più eclatante si manifesta nell’aprile del 1944 con la cosiddetta «Svolta di Salerno», quando il segretario comunista Palmiro Togliatti propone di accantonare la questione istituzionale vanificando così l’offensiva antimonarchica di socialisti e azionisti. Le frizioni tra i due partiti valgono a rinvigorire le posizioni autonomiste all’interno del Psiup che lancia ripetuti segnali di apertura verso la Dc tanto che, nell’ottobre del 1945, il Comitato centrale auspica una «franca intesa e collaborazione con la Dc». Il Psiup ambisce a giocare un ruolo centrale nel nuovo sistema partitico – e per questo si muove quindi su più fronti – puntando sul prestigio dei suoi leader, primo fra tutti Nenni, sul peso della tradizione, sulla sua presenza nel movimento cooperativo e nel sindacato e sui primi, confortanti esiti elettorali nelle amministrative (24,1% contro il 25% del Pci), poi migliorati alle elezioni per la Costituente (20,7% contro il 18,9% del Pci). Questo possibile incontro con la Dc naufraga però sullo scoglio della laicità dello stato e in particolare sull’art. 7 della Costituzione che riconosce il Concordato tra stato e chiesa. In questa occasione il Partito socialista rimane schiacciato dall’accordo tra Dc e Pci «sopra la sua testa»: mentre i socialisti si fanno alfieri di una scuola e di un diritto di famiglia più laici, andando allo scontro con la Dc, il Pci lancia un’inattesa ciambella di salvataggio al partito di De Gasperi votando a favore dell’art. 7. Il Partito socialista rimane spiazzato dal suo supposto «alleato» comunista. E così sarà nel futuro.
L’illusione di poter giocare un ruolo di leadership nella politica italiana crolla con la scissione delle correnti di Iniziativa socialista e di Critica sociale che nel gennaio 1947, in occasione del XXV Congresso (9-13 gennaio), abbandonano il partito e danno vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (Psli). A causa della scissione il Partito socialista, che riprende l’antico nome di Psi, perde ben 52 parlamentari su 115, la maggioranza della Federazione giovanile socialista e, soprattutto, alcuni dei personaggi simbolo della tradizione riformista come Giuseppe Modigliani, Ludovico D’Aragona e Ugo Guido Mondolfo. La perdita della componente riformista proietta sul Psi l’immagine del «vecchio» partito massimalista e rivoluzionario.
La conflittualità con i socialdemocratici e lo sbilanciamento a sinistra della mappa del potere interno (dove Basso sostituisce Nenni) sospingono il Psi verso l’abbraccio soffocante con il Pci. Lo sbocco naturale di questa scelta è la presentazione di liste comuni con i comunisti alle elezioni del 18 aprile 1948 sotto l’etichetta del Fronte popolare. Per il partito è un suicidio politico. Non tanto per le liste comuni con il Pci, scelta dettata anche dalla paura del confronto con i socialdemocratici, quanto per le implicazioni di questa opzione, che vedono il Psi appiattito sulla linea del Pci in politica internazionale, dove aderisce ciecamente alla logica di potenza dell’Urss al punto di non condannare il colpo di stato comunista a Praga nel febbraio dal 1948 (rompendo così con il socialismo europeo), e sull’organizzazione, con la creazione di organismi di massa unitari con il Pci. In tal modo il Psi perde d’un colpo i suoi referenti autonomi internazionali, il laburismo e la socialdemocrazia scandinava, e regala alla più efficiente e motivata organizzazione comunista la dote della tradizione cooperativistica e sindacale.
I risultati delle elezioni del 1948 sono disastrosi. I candidati socialisti raccolgono meno della metà delle preferenze di quelli comunisti al punto che i deputati socialisti sono appena 42 sui 183 complessivi del Fronte popolare. La disfatta elettorale impone una battuta di arresto ai più accaniti sostenitori della fusione con il Pci. Il congresso straordinario convocato nell’estate del 1948 (27 giugno-1° luglio) estromette dalla segreteria Basso sostituendolo con un candidato espresso da una nuova corrente «centrista», Alberto Jacometti, affiancato dall’ex azionista Riccardo Lombardi quale vicesegretario. L’alleanza con il Pci viene sottoposta a un vaglio critico ma, allo stesso tempo, non si trovano altre sponde: i rapporti con i socialdemocratici rimangono freddi e ostili, e con la Dc il discorso si è chiuso il 18 aprile. In altri termini, il Psi si è infilato in un cul-de-sac in fondo al quale c’è solo l’intesa con il Pci.
La consapevolezza della situazione di minorità in cui il partito si trova di fronte al Pci non riesce a farsi strada, tant’è vero che l’esperimento centrista del duo Jacometti-Lombardi dura poco più di un anno. Riemerge la componente di sinistra, favorevole a una «politica di classe» orientata esclusivamente verso il Pci. Tuttavia, per ragioni di immagine e di equilibri interni la segretaria è affidata alle mani del leader più prestigioso del partito, e cioè Nenni.
La sua lunga segreteria (1949-62) si consoliderà negli anni Cinquanta grazie all’intesa, a volte elettrica, con Rodolfo Morandi, a lungo vicesegretario e responsabile dell’organizzazione. Morandi è l’artefice della ricostruzione organizzativa del partito dopo lo sfascio degli anni 1947-48. Pur criticando la concezione del partito dei comunisti, Morandi ne ripropone il modello organizzativo sotto altre vesti, proprio per rinvigorire uno specifico socialista appannato dalle politiche fusionistiche e unitarie.
I risultati della gestione Morandi sono brillanti. Le sezioni passano dalle 5.936 del 1950 alle 7.385 del 1954, i nuclei aziendali socialisti (strutture di mobilitazione all’interno delle fabbriche) da 720 a 1.412, i «collettori» (militanti a tempo pieno) da 2.530 a 7.704. Gli iscritti, secondo i dati ufficiali, oscillano tra i 500 e i 650 mila. Nel 1950 il 50% degli iscritti proviene dal Nord, il 20% dal Centro, il 20% dal Mezzogiorno e il 10% dalle Isole. Coerentemente con questa distribuzione geografica, la componente principale è quella operaia mentre molto più scarsa di un tempo è l’adesione dei contadini.
La geografia del voto socialista riflette quella degli iscritti. Alle elezioni del 1946 per la Costituente, ricalcando quasi i risultati delle ultime elezioni prima del fascismo nel 1919 e nel 1921, il Psi raccoglie i maggiori consensi nelle regioni industriali del Nord, dove oscilla tra il 20 e il 30% con punte del 31,6% in Friuli e del 30,5% in Lombardia, mentre nel Centro-Sud riesce a malapena a oltrepassare la soglia del 10%. A eccezione della Liguria, il Psi è davanti al Pci in tutto il Nord mentre nelle regioni agricole centrali, la cosiddetta «Zona rossa» (Emilia-Romagna, Toscana, Marche e Umbria), è il Pci a sopravanzare il Psi. In sostanza, il Partito socialista recupera quasi tutto il suo insediamento tradizionale prefascista confermandosi forte dove era forte, e debole dove era debole (a eccezione dell’Emilia-Romagna, dove cede molti consensi ai comunisti).
Mentre le elezioni del 1948 affrontate congiuntamente con il Pci nel Fronte popolare impediscono di fare un calcolo preciso del rapporto di forza tra i due partiti, quelle del 1953 chiariscono un quadro che non si modificherà per quasi un trentennio. Il Psi si mantiene ben saldo nel Triangolo industriale (Piemonte, Lombardia e Liguria) e conserva d’un soffio (ma per poco) il primato il Lombardia, ma perde disastrosamente il confronto con il Pci nelle regioni della Zona rossa e, soprattutto, nel Sud. Da un lato, il Psdi erode quella base elettorale, concentrata nel Nord, di «aristocrazia operaia» e di ceto medio urbano sensibile alle sirene del socialismo riformista, e, dall’altro, il Pci fa il pieno di voti operai e soprattutto contadini nella Zona rossa e nel Mezzogiorno. Il ridimensionamento del Psi non è quindi dovuto tanto all’abbandono dell’elettorato operaio nella zona industriale quanto all’incapacità di conservare (nella Zona rossa) o di guadagnare (nel Sud) il consenso nelle campagne. In sostanza, il Psi è, negli anni Cinquanta, un partito a forte concentrazione operaia, ben insediato nelle aree più sviluppate del paese, tanto che, se si sommano i suoi voti con quelli dei transfughi del Psdi, i «socialisti» sono ancora nettamente il primo partito in tutto il Nord, Emilia esclusa.
Il rafforzamento organizzativo e il buon risultato alle elezioni del 1953 rilanciano l’autonomia del partito. Pur tra contraddizioni e incertezze – si pensi al peana di Nenni in onore di Stalin alla morte del dittatore sovietico (1953), alla presidenza dello stesso Nenni dei (filosovietici) Comitati per la pace, o alla promozione dell’accordo tra i partiti «socialisti di sinistra» europei in contrapposizione all’Internazionale socialista – il Psi cerca di recuperare una sua tradizione distinta. In questo tentativo rivendica anche l’eredità del filone democratico-risorgimentale e prefascista, difendendo una visione laica della società e dello stato e il valore delle libertà «borghesi». Rimane però ancora immerso nella tradizione marxista tanto che le libertà borghesi sono considerate soltanto un passo per arrivare all’instaurazione di una vera democrazia, che sarà tale solo grazie all’uguaglianza sociale. E quindi la democrazia parlamentare, più che un bene in sé, è un mezzo per edificare la società socialista. Il Psi si affanna alla ricerca di una sua autonoma posizione politico-ideologica ma rimane in una terra indefinita: da un lato, il Psdi ha buon gioco a sottolineare queste reticenze e contraddizioni ideologiche, dall’altro il Pci utilizza ogni arma di ricatto ideologico-psicologico per tenerlo legato alla mitologia dell’unità di classe, della rivoluzione socialista e dell’anti-imperialismo (ovviamente guidato dalla patria del socialismo, e cioè l’Urss).
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