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    Predefinito Garibaldi: giornalista inglese ripercorre a piedi 649 KM della sua ritirata del 1849

    Nel luglio del 2019 Tim Parks, scrittore e giornalista, nato a Manchester nel 1954 e diventato cittadino del nostro Paese dove è vissuto per più di 40 anni, ha ripercorso, giorno dopo giorno, passo dopo passo, il cammino che Giuseppe Garibaldi compì proprio nel luglio 1849 per sfuggire alle truppe austriache e francesi, arrivate in soccorso di Pio IX, dopo la fine della resistenza della Repubblica Romana.


    Un’impresa condivisa con la moglie Eleonora e narrata nel saggio-autobiografico Il cammino dell’eroe. A piedi con Garibaldi da Roma a Ravenna (Rizzoli, pag. 492, 22 euro). È un atto d’amore nei confronti dell’Italia perché racconta luoghi poco frequentati della nostra Penisola e un pezzo di storia sconosciuto ai più. L’eroe dei due mondi, promotore degli ideali del Risorgimento, che non aveva accettato la resa alle truppe nemiche, iniziò la ritirata verso Venezia con quattromila fanti, ottocento soldati a cavallo e un cannone, portando con sé la moglie Anita, incinta di sei mesi. Una colonna mesta che intraprese una marcia a tappe forzate lunga 640 chilometri, attraverso l’Umbria, la Toscana e l’Emilia-Romagna, costantemente incalzata dai nemici. Tim ed Eleonora, non avevano eserciti che li inseguivano, ma fare ogni giorno 20-30 chilometri sull’Appennino, partendo sempre prima dell’alba, ha presentato, comunque, pericoli, fatiche fisiche, strade trafficate, sentieri chiusi o pieni di rovi. Per non parlare di vesciche e scottature, calabroni, vespe, cani minacciosi, e l’incertezza di trovare un pasto o un letto per la notte. Alla fine di questa avventura durata un mese, Parks non solo riesce a dimostrare il valore, il coraggio e l’astuzia del generale, spesso sminuito dagli storici, ma anche a descrivere aspetti inediti dell’Italia e delle sue bellezze paesaggistiche. Con molti suggerimenti utili a chi volesse cimentarsi nell’impresa.

    Inglese con cittadinanza italiana, perché ha scelto proprio Garibaldi?
    «A sedici anni, dovendo scegliere un argomento per l’esame di storia alla maturità, optai per il Risorgimento, anche se non sapevo nulla dell’Italia. Abbiamo letto una raccolta di documenti originali dell’epoca, così ho conosciuto i quattro grandi protagonisti del Risorgimento, Vittorio Emanuele I, Cavour, Mazzini, Garibaldi.

    Difficile, come adolescente, non preferire Garibaldi: marinaio, rivoluzionario, guerriero. Anni dopo, per scrivere un saggio sull’eroe per il settimanale americano New Yorker, ho affrontato numerose biografie. Mi affascina una certa diffidenza di molti italiani nei suoi riguardi, quasi che i suoi successi, il suo carisma, la sua indipendenza e probità fossero eccessivi. Specialmente in un uomo di umili origini…».
    Perché 170 anni dopo?
    «Puro caso. Nel novembre del 2018, controllando una fonte in una biografia di Pio IX, mi sono imbattuto nel libro di Gustav Hoffstetter, Storia della Repubblica di Roma del 1849, che descrive giorno per giorno anche la lunga ritirata da Roma a Cesenatico. E ho chiesto a Eleonora, oggi mia moglie: “Ti va di fare una camminata”?».
    Come è riuscito Garibaldi a convincere non solo italiani, ma anche stranieri, a seguirlo?
    «Premesso che la comunità liberale rivoluzionaria del periodo era comunque internazionale e cosmopolita, è evidente che Garibaldi esercitava un fascino potentissimo su quasi tutti quelli che lo conoscevano. A parte le sue qualità innate, penso che contassero molto la sua autenticità e la sua passione, se non l’ossessione, per la libertà. Credeva davvero nel progetto di un’Italia stato nazione, come solo

    Parks, sulle orme di Garibaldi in ritirata: «Fu un’impresa folle in un’Italia bellissima»
    modo per arrivare all’autogoverno, e così alla libertà. I soldi e gli onori non gli interessavano; si vestiva come meglio gli pareva, si mise con una donna sposata e non si preoccupava delle critiche. Mangiava in modo semplice e in battaglia si gettava nella mischia senza tirarsi indietro. Insomma, ci si poteva fidare. Per quanto riguarda gli stranieri, dava il benvenuto a tutti, parlava bene il francese, lo spagnolo, il portoghese, e masticava pure l’inglese… In fin dei conti aveva passato gran parte della sua vita all’estero».
    Perché un bavarese come Gustav von Hoffstetter, suo capo di Stato maggiore, si è unito a lui?
    «Hoffstetter era un giovane militare di professione dell’esercito svizzero che nel ’48 aveva gettato al vento la carriera per schierarsi con i rivoluzionari liberali nel Sud della Germania. Quando vennero sconfitti, lui fuggì a Roma dove divenne assistente di Luciano Manara, che poi era aiutante di campo di Garibaldi. Quando Manara fu ucciso, Garibaldi gli chiese di prenderne il posto. Apprezzava la sua preparazione militare: Hoffstetter era un vero ossessivo, capace di passare giornate intere a studiare il modo migliore per disporre le sentinelle intorno al più sperduto villaggio. Un uomo utile, ma anche colto, e innamorato del suo capo».
    Questa fatica che cosa ha portato?
    «Innanzitutto un sacco di vesciche e scottature. Poi una vacanza stupenda, una nuova intimità di coppia, ma anche la scoperta di un’Italia che non conoscevo: l’aspra Sabina in particolare, ma anche gli altipiani dell’Appennino. Facendo tutto a piedi, ci sentivamo più vicini agli uomini che hanno fatto questa marcia tanto tempo fa. In fin dei conti, l’idea del progetto era quella, di avvicinarsi il più possibile, anche fisicamente, all’esperienza del passato».
    Qual è stato il tragitto che più le è piaciuto?
    «Difficile scegliere. La Toscana è bellissima, dolcissima. Se non esistesse la parola pittoresco bisognerebbe inventarla per descrivere la Toscana: i cipressi che si stagliano sul profilo del pendio accanto alle cascine, il gioco di luce e di ombra. Ma il guaio è che tutto sembra già conosciuto, prevedibile. Mi è piaciuta moltissimo, come

    Parks, sulle orme di Garibaldi in ritirata: «Fu un’impresa folle in un’Italia bellissima»
    dicevo, la Sabina intorno a Poggio Mirteto, Cantalupo, Stroncone. Anche l’altipiano tra Todi e Orvieto. Ma la camminata più spettacolare è stata quella tra Macerata Feltria e San Marino. Lì, a mille metri di altezza, abbiamo avuto la prima visione dell’Adriatico; poco dopo l’alba, una lunga scintilla di luce che accendeva l’orizzonte. Una grande emozione dopo centinaia di chilometri di cammino».
    Rifarebbe questo viaggio?
    «In certe zone senz’altro. Magari tre o quattro giorni alla volta. Ma non l’impresa intera. Ci vuole un’energia speciale per fare tutto un mese di fila, energia che viene anche dalla novità dell’avventura, credo».
    Consiglierebbe di fare questo percorso?
    «Per chi è entusiasta e ne ha voglia, è un modo bellissimo di scoprire il paesaggio e di stare in compagnia. Ma con un caveat, un avvertimento: uscire da Roma a piedi è un vero incubo. Meglio cominciare da Tivoli».
    Le app possono servire?
    «Un’app di navigazione dedicata al trekking è essenziale. È difficile trovare delle mappe cartacee sufficientemente dettagliate per una camminata del genere, e sarebbe faticoso portare chissà quante mappe, e aprirle e chiuderle costantemente, magari sotto la pioggia. Ormai ci sono app che trovano anche i sentieri meno frequentati, aiutandoti ad evitare le strade trafficate. Non che ci si possa fidare


    ciecamente: il Gps va in tilt quando sei in certi borghi dove ogni casa è fatta di pietre e le mura sono spesse un metro. Poi, di tanto in tanto, trovi che i contadini hanno chiuso un sentiero, magari accatastando una quantità di letame o detriti vari. O qualche privato ha costruito un recinto di filo spinato. O semplicemente nessuno usa il sentiero da anni ed è tutto infestato di rovi. Allora con un sospiro si fa marcia indietro, cercando di non arrabbiarsi troppo».
    Qual è stata la paura più grande che avete avuto?
    «Io ed Eleonora abbiamo paure diverse. Io mi sono molto spaventato per il traffico, uscendo da Roma, per esempio quando i Tir ti sfiorano nei sottopassaggi. Eleonora invece teme i cani, avendo subito un trauma da piccola. Qualche cane sciolto l’abbiamo pure trovato. Poi una sera, vicino a Vacone, in Sabina, non trovavamo un posto per dormire; sembrava che dovessimo passare la notte all’aperto, e lei era convinta che ci fossero lupi nei boschi. Chissà. Fortunatamente, in extremis, abbiamo trovato un B&B».
    Quale è stata la cosa più sorprendente?
    «Poter sopportare il caldo e anche goderne. Il silenzioso lavorio della vegetazione, il chiasso pazzesco delle cicale sotto il sole intenso, il piacere dello stordimento estivo. Tutto questo non sembrava far parte del mio Dna inglese. E invece sì. Anche la vuota vastità di certi paesaggi mi ha stupito. Colline e montagne infinite, apparentemente vuote. Soprattutto sull’Appennino. Come faceva Garibaldi a orientarsi? Garibaldi studiava il paesaggio costantemente, sempre allerta contro i pericoli militari, ma anche per cogliere ogni opportunità. Infinite esplorazioni a cavallo. Se c’era una torre con vista, lui ci saliva. Se c’era una collina più alta delle altre, lui andava subito fino in cima. Aveva sempre il cannocchiale in tasca. La prima cosa che faceva quando arrivava in un borgo era ingaggiare una o più guide, che poi venivano messe sotto scorta, nel caso cercassero di tradire. Studiava anche a lungo le mappe. Effettivamente, se è riuscito ad attraversare l’Umbria, la Toscana e le Marche con quattro eserciti austriaci che cercavano di intrappolarlo era perché sapeva leggere il paesaggio meglio di loro».
    Che aspetti dell’Italia avete conosciuto?
    «Molti borghi bellissimi, ma anche il fenomeno dello spopolamento di certe piccole città di provincia. Penso a Torrita di Siena, paese delizioso, dove la padrona del bar si lamentava per l’imminente chiusura dell’ultimo alimentari. E poi il troppo turismo: certe città – Montepulciano - che sembrano sopravvivere solo grazie ai turisti che si affollano e snaturano la realtà locale. A Sarteano (Toscana) un anziano ci ha tenuto una mezz’ora per sfogarsi contro chi voleva cacciarlo di casa per vendere tutto il palazzo a tedeschi e inglesi».
    Che incontri avete fatto?
    «Tipi colti e selvaggi, simpatici e scorbutici. Uno scultore ci ha fatto vedere nella cantina dei disegni incisi nella pietra dai garibaldini che ci si erano nascosti dopo la sconfitta di Mentana. Una coppia comicissima che aveva una specie di fattoria didattica con tanto di animali esotici che siamo stati costretti a passare in rassegna anche dopo una camminata di 35 chilometri. Persone che semplicemente non volevano credere che avessimo fatto tutta la strada a piedi da Roma. Complottisti che insistevano che Garibaldi era un farabutto strumentalizzato dalla massoneria internazionale. Ma anche patrioti entusiasti. Gente di tutti i colori».
    Garibaldi ha avuto l’omaggio che meritava?
    «Dopo l’unificazione è diventato l’uomo più popolare d’Europa. Ma l’Italia ha sempre mantenuto una certa diffidenza verso di lui. C’era la paura che avrebbe cambiato troppo il mondo, a svantaggio della classe abbiente. Come dice nella sua autobiografia a proposito del momento dell’unificazione: “Si voleva godere il frutto della conquista, ma cacciarne i conquistatori”».
    Questo percorso le ha fatto scoprire qualcosa di nuovo su Garibaldi?
    «Si parla molto nei libri di storia di una certa sua irruenza, quasi fosse un uomo ingenuo. “Sapeva solo caricare con la baionetta” o “Era guidato in gran parte dalle emozioni”. Questi studiosi si sentono superiori, più razionali del mero eroe. Invece in quella lunghissima e dolorosissima ritirata da Roma, Garibaldi non ordina mai una carica con la baionetta, e anche quando i suoi vogliono arrivare al più presto allo scontro, lui lo evita, cercando a tutti i costi di portare gli uomini sani e salvi a Venezia. Nei momenti più difficili, lungi dall’essere emotivo o ciecamente reattivo, è freddo e lucido. Non dispera mai».
    Sua moglie Eleonora è stata fondamentale?
    «Allora non era ancora mia moglie. Adesso sì. Forse anche perché il lungo cammino ha intensificato il nostro rapporto. Una delle cose che emerge dai diari dei garibaldini è come tutti cercassero un compagno stretto con cui marciare ed eventualmente entrare in battaglia. Uno che ti avrebbe aiutato se venivi ferito, ecc. Beh, non si potrebbe trovare compagna più leale e più pratica di Eleonora».
    Che influenza ha avuto Anita su Garibaldi in questo viaggio?
    «Enorme. Da un lato si rallegrava molto di averla con lui, erano una vera coppia, ma d’altra parte era ansioso perché lei era incinta e poi anche malata. Una preoccupazione in più tra le mille cose a cui doveva pensare. Prima di ammalarsi Anita era senz’altro una presenza positiva, sempre pronta a incoraggiare e rincuorare i soldati. Alla fine però qualche garibaldino la criticava perché rallentava la marcia. Alla fine Garibaldi preferì rischiare la cattura e la fucilazione piuttosto che abbandonarla, dicendo a chi era rimasto di salvarsi come poteva».
    Come mai Anita non ha voluto fermarsi da qualche parte per aspettare di partorire?
    «Nell’aprile del ’49, sapendo che era incinta, Garibaldi l’aveva mandata a casa sua, a Nizza. Ma poi Anita, sentendo che le cose andavano male per la Repubblica Romana, aveva deciso di raggiungere il marito, facendo il viaggio da sola e passando in incognito tra le file delle truppe francesi che assediavano la città. Arrivò a Roma il 26 giugno, pochi giorni prima della sconfitta finale. Più tardi, durante la ritirata, quando Garibaldi le consigliava di rimanere in qualche città e farsi curare, lei non voleva saperne. Era gelosissima, sempre convinta che lui stesse per tradirla. Effettivamente le donne lo trovavano molto attraente».
    Consiglierebbe alle Regioni di fare un «percorso garibaldino»?
    «Perché no? Se non altro, sono passeggiate splendide. Ma già ci sono percorsi del genere, soprattutto intorno a San Marino, e anche a Comacchio. In Umbria e Lazio, invece, niente».
    Il suo prossimo tour letterario garibaldino riguarderà la Sicilia, può anticipare qualcosa?
    «Abbiamo camminato nel 2021 da Marsala a Palermo, o piuttosto, tutto intorno a Palermo e la sua Conca d’oro. Dirò solo che più si consultano diari e archivi e più si conosce il territorio, più ci si rende conto che l’avventura dei garibaldini è stata molto più complessa di quanto non si racconti nei libri di testo, una scommessa folle con pochissime possibilità di successo. Si capisce anche che una delle qualità di Garibaldi era quella di non farsi spiazzare dalle alte possibilità di sconfitta, ma di aggrapparsi con determinazione alle esigue opportunità di vittoria».

  2. #2
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    Predefinito Re: Garibaldi: giornalista inglese ripercorre a piedi 649 KM della sua ritirata del 1

    molto bello, grazie!
    vien voglia di farsi almeno 4-5 giorni di trekking per le meraviglie appenniniche.
    un mio amico va in pensione a settembre e si sta organizzando per fare tutta una serie di percorsi in italia (la moglie è veterana del cammino di santiago, lui invece no perchè con il lavoro non riesce a mai a staccare più di una settimana...). dovrei aggregarmi a lui.

 

 

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