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Discussione: Poche idee e terribili

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    Predefinito Poche idee e terribili

    La carta dei diritti dell’uomo, “vangelo” del progressismo DI JEROSLAVA PAVLIK


    Le Dichiarazioni universali dei diritti umani sono state sancite per la prima volta con la Rivoluzione americana, poi con quella francese; l’ultima è la rielaborazione delle Nazioni Unite del 1948 e, per l’Unione europea, il riferimento è la CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo). Questi sono alla base del costituzionalismo e degli ordinamenti giuridici occidentali. Alla luce della contemporaneità questi diritti sono ancora il collante per la tenuta morale e sociale dei cittadini oppure la Carta dei diritti rimane solo un vacuo riferimento carico di significato retorico senza più basi reali e sostanziali?





    Qual è il fondamento di queste carte dei diritti?

    La base è il contrattualismo. La base su cui si sono fondati i diritti dell’uomo non è stata la natura oggettiva dell’essere umano, bensì il consenso dei consociati: solo attraverso l’accordo comune si creano i diritti fondamentali. Da un momento storico preciso, che è la Rivoluzione francese, si è posta l’utopia ideologica come ordinamento sopra una realtà oggettiva che preesiste a qualsiasi valutazione umana. Quello che si è fatto è stato mettere sul tavolo ex novo una serie di diritti, i quali, senza un vincolo a un dato oggettivo come un vincolo di dovere morale reciproco tra gli individui, potranno essere spazzati via facilmente. Se è l’accordo a far nascere i diritti, potrà essere sempre un accordo contrario a farli morire oppure una decisione diversa che, a proprio piacimento, può dare un significato diverso ad ognuno di di essi, per cui nessuno può escludere l’idea di far nascere nuovi diritti sulla base dell’astrattezza decisionale dei singoli. Chi ha, dunque, il diritto di vietare nuovi diritti?

    Le democrazie moderne dotate di una Carta costituzionale sanciscono delle libertà (libertà fondamentali o principi fondamentali) che traggono la loro legittimità esclusivamente dalla coesistenza all’interno della società di valori condivisi: la costituzione italiana è frutto di un compromesso da cui si sono formalizzati i principi fondanti della nuova Repubblica democratica. La Carta costituzionale è appunto una carta; chi dà significato alle parole scritte sono gli uomini che l’hanno redatta: una tale Costituzione non può avere valore assoluto.

    La validità di determinati principi si fonda sull’opinione maggioritaria (o, comunque, ritenuta “generale”) della bontà e dell’utilità di questi principi oppure vi è un valore oggettivo intrinseco di tali principi?

    In altre parole, una Carta costituzionale o una legge è sufficiente che sia approvata a maggioranza da un’Assemblea costituente o da un Parlamento nel rispetto delle procedure tecniche oppure, per essere considerata giusta e rispettabile dovrebbero essere presi in considerazione anche argomenti sostanziali, perfino di natura metafisica? È un problema di legittimità e validità.

    Un ulteriore problema riguarda le modalità con cui vengono fatti rispettare questi principi, se una minoranza decide deliberatamente di non aderirvi. Se non sono assoluti, lo Stato dovrebbe assumersi l’obbligo di far obbedire i cittadini a quei principi che lo stesso Stato ha fondato, e questo ci ricondurrebbe allo Stato etico che tanto si cerca di osteggiare.

    Lo Stato liberale per la sua laicità costitutiva, non possiede i presupposti spirituali e valoriali, non può e non sarebbe in grado di guidare i cittadini attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, se non rinunciando alla propria liberalità, ricadendo così in quel totalitarismo da cui aveva cercato di svincolarsi dopo la caduta dei regimi anche solo autoritari.

    La conclusione che si prende valida è quella suggerita dal paradosso di Böckenförde: lo Stato liberale secolarizzato non può garantire i diritti sanciti nella sua Costituzione.

    «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà»[1].

    In realtà la laicità e la neutralità dello Stato non coincidono mai con l’assenza di principi.

    Fintanto che lo Stato liberal-democratico al suo interno avrà una coesione morale e sociale dei suoi cittadini, tenuti insieme dai cosiddetti corpi intermedi, questo si terrà in vita, quando, invece, tutto questo incomincerà a mancare, si cercherà di riportare un nuovo collante che si fonderà sulla promessa di una utopia sociale di felicità e benessere. E, infine, se verrà a mancare anche il benessere come si manterrà questo Stato? Qui veniamo al punto. L’ordinamento in cui viviamo è disgregante, perché è relativista, soggettivista e individualista. Il benessere e la stabilità economica, tanto evidenti durante gli anni ‘60 e ‘70, poi ancora pressoché mantenuti negli anni a venire, sono stati messi in crisi nel XXI secolo.

    Su quali basi può continuare a reggersi lo Stato? E quali diritti dovranno essere efficacemente garantiti? In realtà, come suggerito prima, lo Stato è fondato su dei principi. Anche se la società attuale è disgregante, non è del tutto esatto dire che sia assente un piano valoriale, ma vi subentra l’utopia ideologica che impone nuovi paradigmi valoriali. Questa è una questione fondamentale, alla quale corrisponde, inoltre, l’eterna lotta tra quelle che sono le filosofie del diritto dominanti, ovvero giusnaturalismo e giuspositivismo. Un ulteriore problema si pone nel differenziare la filosofia giusnaturalista classica, avente origine dalla filosofia greca, in particolare quella aristotelica, e dal diritto romano, purificati ed esaltati dalla morale cristiana e dalla filosofia tomista, ed il giusnaturalismo moderno, a partire da Ugo Grozio (1583-1645), Thomas Hobbes (1588-1679), Samuel von Pufendorf (1632-1694), John Locke (1632-1704), Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) e Immanuel Kant (1724-1804). La differenza fondamentale tra queste posizioni è che i teorici moderni del diritto naturale, al contrario di quelli medievali, hanno voluto svincolarsi da concezioni teologiche e religiose, esprimendo, con l’elemento natura, la negazione di ogni ordine ontologico precostituito di origine divina, con l’affermazione della libera soggettività umana quale unica fonte del diritto.





    Ambrogio Lorenzetti (1290-1348), Allegoria del Buon Governo (1338-1339)



    Che fondamento hanno, dunque, le basi morali su cui si fonda il diritto naturale?

    La tesi moderna maggioritaria fa coincidere la base morale con le espressioni e percezioni soggettive della nostra mente che, a livello generale, riproducono una convenzione sociale. Vizio e virtù non sono, quindi, aspetti intrinseci del fatto, ma fattori estrinseci ad esso e presenti solo nell’intelletto del soggetto, il quale, poi, arbitrariamente li trasferirà sul fatto stesso. È la separazione tra «ciò che è» e «ciò che deve essere», divisione tra prescrizione e descrizione, tra fatto e valore del fatto, ci stiamo riferendo alla cosiddetta «legge di Hume». È la separazione del mondo fisico-empirico dalla metafisica. Se sono separati e se si fa attribuire al mondo empirico l’oggettività e a quello metafisico la soggettività, ossia l’opinabilità, si conclude che le norme morali non hanno un fondamento oggettivo.

    La tesi contraria, ed è quella che si sostiene, è che le norme morali derivano dalla descrizione della natura umana (dall’essentia entis, cioè dall’osservazione della realtà delle cose) che attraverso la ratio si trasformerebbe in norma etica. La conoscenza dell’essenza dell’uomo porta a conoscere i suoi fini, dunque i suoi doveri: l’essere automaticamente si proietta verso il dover essere. In altre parole, non è la volontà arbitraria dell’uomo a stabilire i suoi fini, ma è la sua stessa natura che l’uomo può razionalmente comprendere e successivamente può volontariamente mettere in azione (o anche non mettere) in conformità ai fini. La realtà oggettiva delle cose presuppone un ordine metafisico che ordina il mondo fisico, dunque anche l’uomo. Se nelle creature irrazionali esiste un ordine di natura fisico-chimico, nelle creature razionali si esprime nella legge morale divina. Ogni essere umano sperimenta una tensione verso l’assoluto, la conoscenza e la verità. Da qui proviene anche la qualità specifica dell’essere umano come essere sociale volto alla cooperazione con gli altri esseri umani per il bene comune.

    Il bene e il male sono categorie concettuali comprensibili con il retto uso della ragione, non si basano su presupposti soggettivi: possono anche essere intuizioni colte dagli stati d’animo, dalle emozioni e dai sentimenti, ma la comprensione e la verifica avviene tramite un atto di ragione ed un atto di Fede che si può razionalmente comprendere. È l’accordo assoluto tra Fede e ragione, dove la prima è ampliamento ed approfondimento della seconda: la persona di Fede è più profondamente ragionevole di chi ne è privo, anche in campo etico e politico-giuridico, perché, giova ricordarlo, la politica, di cui il diritto è elemento eminente, è parte dell’etica, che, a sua volta, discende dalla metafisica.

    Se l’istintività nella morale viene fatta passare come genuina, un agire che asseconda le nostre pulsioni e morbidezze d’animo (irrazionali) sarà erroneamente percepito come buono e giusto. Ci sono istinti razionalmente comprensibili come, ad esempio, la conservazione della vita, per cui appunto si obbedisce al comandamento «non uccidere».

    È sicuramente contraddittoria la considerazione di Hobbes: «fintanto che gli uomini vivono nello stato di natura bene e male sono solo nomi, solo nomi che significano i nostri appetiti e le nostre avversioni»[2].

    Lo stato di natura prefigurato da Hobbes è uno stato di bestialità, contrariamente a quello di Rousseau, che considera questa natura come perfetta, pienamente genuina, assente di peccato originale. Su queste due concezioni opposte dello stato di natura si fonda ideologicamente ogni teoria politica moderna. Dall’Essere ciò che si deve Essere si è passati dall’Essere ciò che piace o, come direbbe Hobbes, ciò che piace al sovrano, dunque al potere politico costituito. Per Rousseau bisogna Essere ciò che utopicamente si crede l’Essere. Entrambe le considerazioni sono assurde e irrazionali, perché non sono reali. L’uomo non è una bestia, ma non è neanche un essere perfetto.

    È il fallimento del razionalismo; proprio l’Illuminismo, con il suo mito razionalista e la sua pretesa rivoluzionaria, ha condotto al rovesciamento dei suoi presunti fondamenti.

    Uno di questi fondamenti è il relativismo secondo cui la verità morale non esiste, ma esistono più verità (è uso comune affermare: «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni», vale a dire «la tua idea vale quanto la mia») e come tali devono essere chiamate opinioni. Tutte le opinioni hanno diritto di essere espresse, tranne quella che afferma che la verità sull’uomo c’è ed è conoscibile a noi. Segue questo filone il soggettivismo. Se non vi è una verità, ogni persona ha la sua verità e così anche la sua morale, solo così si possono elevare a diritto i desideri, i vizi e i piaceri di ciascuno e via via riconoscere come beni pubblici le verità dei singoli.





    Abraham Bosse (1604-1676), incisione del Frontespizio del Leviatano di Thomas Hobbes (1651)



    I desideri allora diventano assoluti, perché svincolati da un dato oggettivo, che li possa giudicare; insindacabili, perché l’autore ultimo delle verità morali è l’uomo stesso. Per l’uomo post-moderno è “eretico” affermare che la verità morale e la legge naturale siano qualcosa di inscritto nel cuore degli uomini, nella loro stessa natura, da un’entità divina superiore alla materialità umana, ma che può essere razionalmente compresa e a cui ci si può adeguare.

    Vi è poi l’ideale democratico, secondo lo spirito di Rousseau: la “verità” va messa ai voti e sarà la maggioranza a stabilire ciò che è meglio per tutti. Se è la maggioranza ad avere in mano la verità, o forse così è bene farglielo credere, poi poco importa se il popolo oggi sia facilmente manovrabile nei suoi orientamenti e nelle sue convinzioni, allora anche chi lo rappresenta non potrà che varare leggi giuste e condivise. In questo vi è una menzogna più o meno velata, perché sempre di più molte leggi sui principi non negoziabili sono frutto di un’oligarchia tecnocratica, le cui idee non sono certo quelle della base popolare.

    Non di meno è opinione comune considerare che se un comportamento è diffuso, questo allora è normale, se è normale è buono, se è buono deve essere legittimato. È un aspetto fenomenologico che ha decisamente origine da quel filone positivista ottocentesco, dove è la prassi che indica la direzione da seguire. Dall’affermare che è normale ciò che è diffuso, il passo è breve per affermare come norma anche l’eccezione che socialmente può diventare diffusa (il caso particolare che fa saltare la regola generale; in ciò il pensiero radicale ha fatto scuola).

    La morale diventa un’enorme fabbrica che produce in continuazione desideri, sogni e utopie. Negli ultimi anni tale fabbrica produce così tanto e velocemente che il diritto fa fatica a stare al passo con le sue leggi, ma questo è logico, perché il diritto è frutto di un artificio che risiede nella volontà arbitraria dell’ideologia politica. Il diritto di oggi non si trova più nel Corpus iuris, nella scienza giuridica, nelle consuetudini della nazione, bensì nelle pieghe del pastrano dei nostri legislatori. E siamo ben oltre, perché le leggi non le detta neanche più il Parlamento.

    Avendo delineato a livello molto generale le basi del pensiero moderno che condiziona il nostro ordinamento giuridico, c’è da domandarsi se alla luce della complessità della nostra contemporaneità, sia ancora lecito appellarsi ai presunti «diritti dell’uomo».

    La conclusione che se ne trae è che l’uomo occidentale, inebriato dalla cultura liberale e soggettivista e da un vero e proprio dogma dei diritti umani, in realtà ha smarrito se stesso. Ha rinunciato a vivere e persegue delle chimere. Il sogno americano della «ricerca della felicità» si è infranto. «L’uomo veramente felice persegue la realizzazione di stati d’essere, non di stati emotivi, vuole vivere in un mondo reale e non solo vivere le impressioni appaganti che potrebbero venire da quello. Il piacere sganciato dal dato reale è menzognero perché si richiama ad una realtà che non c’è»[3].

    Il diritto naturale ci obbliga ad essere. Un obbligo che non è fine a se stesso, come avrebbe inteso Kant: devi perché devi. Un obbligo che non nasce neppure da un capriccio di Dio e della Chiesa cattolica. Un obbligo che è invece preludio di felicità. La strada del bene e della felicità è già indicata nella nostra natura.









    1 Ernst-Wolfgang Böckenförde, Diritto e secolarizzazione: dallo Stato moderno all’Europa unita, Laterza, 2007 – pp. 226. L’Autore è un ex giudice della Corte Costituzionale tedesca, docente di diritto costituzionale e filosofia del diritto.

    2 Thomas Hobbes, Leviatano, capitolo XV.

    3 T. Scandroglio, La teoria neoclassica sulla legge naturale di Germain Grisez e John Finnis, G. Giappichelli Editore, Torino 2012.

  2. #2
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    Predefinito Re: Poche idee e terribili

    Il giovanotto ha scoperto il jusnaturalismo. Bravo!

  3. #3
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    Predefinito Re: Poche idee e terribili

    Citazione Originariamente Scritto da Vladimir Ilyich Visualizza Messaggio
    Il giovanotto ha scoperto il jusnaturalismo. Bravo!
    ma lo ha anche superato

 

 

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