di Angelo Ventura – In Gaetano Cingari (a cura di), “Gaetano Salvemini tra politica e storia”, atti del Convegno internazionale di studi organizzato dall’Istituto di Studi Storici «Gaetano Salvemini», Sezione per la Sicilia e la Calabria dell’Istituto Socialista di Studi Storici (Messina, 3-5 ottobre 1985), Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 45-88.
1. Il socialismo di Salvemini
L’azione svolta da Gaetano Salvemini nel Partito socialista, il suo ruolo di «riformista di complemento, - come scrive argutamente Arfè – aggregato, quale franco tiratore, al gruppo lombardo ed emiliano che costituisce lo stato maggiore del socialismo riformista»[1], il suo complicato e tormentato rapporto col movimento socialista, anche dopo il distacco dal partito, sono stati considerati, benché non sempre in modo puntuale e sereno, e spesso solo incidentalmente, da parte di molti studiosi. Ma Salvemini è un personaggio anche storiograficamente scomodo, troppo complesso e originale per prestarsi agli schemi consueti e a letture lineari. Si può comprendere quindi che della sua esperienza socialista offrano una valutazione sostanzialmente riduttiva sia il meritorio profilo biografico del Tagliacozzo, sia il saggio interpretativo che dell’opera complessiva del Salvemini ha abbozzato per grandi linee Massimo Salvadori, per non parlare della biografia di Gaspare De Caro, che ha pretese di maggiore impegno, ma si risolve in una sorta di requisitoria priva di senso storico[2].
Tra i numerosi saggi parziali, e molti sono di alto livello, pochi quelli dedicati espressamente al problema specifico del Salvemini socialista. Tra questi i più notevoli mi sembrano quelli di Lelio Basso e di Armando Saitta (particolarmente penetrante quest’ultimo), ambedue del 1959, ai quali sono da aggiungere, a parte la breve ma densa Introduzione di Arfè al volume da lui curato nell’edizione delle Opere, un articolo di Valiani, come di consueto magistralmente limpido ed essenziale, e, infine, le belle pagine di Alessandro Galante Garrone nel suo recente Salvemini e Mazzini[3]. Un posto a sé occupa l’importante volume di Hugo Bütler, il primo studio biografico di solido impianto scientifico, fondato su una ricerca sistematica, che ci viene – fatto degno di riflessione – da uno studioso straniero[4]. Nondimeno anche il Bütler, esaminando il pensiero e l’azione di Salvemini nel contesto della politica italiana sino alla prima guerra mondiale, in una prospettiva che sottolinea il carattere sostanzialmente democratico della concezione salveminiana, pur riconoscendone la mai smentita adesione a un ideale di socialismo democratico, appare meno attento e sensibile al rapporto col Partito socialista.
Non è mio proposito, né sarebbe certo possibile in questa sede, tentare un riesame sistematico della questione, e ripercorrere criticamente, dipanandone tutti i nodi, una vicenda quanto mai complessa, che investe la formazione intellettuale e politica di Salvemini e la sua evoluzione nel corso di oltre un ventennio – il periodo più inquieto e creativo della sua vita – intrecciantesi strettamente con la storia del movimento socialista e con quella complessiva del paese. Tuttavia non sembra inutile tornare con qualche riflessione su un problema ancora non bene approfondito. Tanto più che esso si colloca oggi in un diverso orizzonte, al compiersi d’una fase storica, forse a una svolta epocale, che sancisce il superamento, nei fatti e nelle coscienze, dei sistemi ideologici tradizionali e dei loro fondamenti dogmatici, smentiti dall’esperienza e travolti dal mutamento profondo degli stessi elementi costitutivi materiali e culturali – strutture economiche e sociali, istituzioni, mentalità – che avevano segnato la nascita e lo sviluppo nel corso di oltre un secolo, della società industriale e del movimento operaio e socialista.
In questa prospettiva la figura di Salvemini nella storia del socialismo italiano, per quanto indubbiamente connotata da una spiccata originalità, ci appare meno isolata e meno anomala di quanto sia sembrato in genere alle più correnti interpretazioni. Le quali, per opposti motivi – in nome d’una presunta ortodossia marxista che pretende di espellere gli eretici dal socialismo, o per converso ispirandosi a una visione radical-democratica, in sintonia con le idee del secondo Salvemini – tendono a rimuovere la sua esperienza socialista o almeno ad appiattirla su una concezione genericamente democratica, liquidando l’adesione al socialismo come poco più d’un generoso inganno giovanile, oppure come espressione esemplare degli equivoci e delle insufficienze che avrebbero caratterizzato il socialismo riformista, rispetto ad un presunto modello scientifico, che altro non rappresenta in realtà se non una delle diverse forme storiche del movimento socialista.
Ma ora che nessuno, in questo tornante della storia, saprebbe dire veramente cosa sia o cosa dovrebbe essere il socialismo – e meno che altri gli stessi intellettuali e politici che si dichiarano socialisti o comunisti – viene in mente la definizione che ne dava Salvemini in una lettera del luglio 1913[5]. Egli aveva rotto i ponti col Partito socialista ormai da due anni, e conduceva contro di esso un’aspra e perfino ingenerosa polemica: «sono uscito e non ci rientrerò più», proclamava in quella stessa lettera. E si era gettato a capofitto nell’impresa di raccogliere attorno all’«Unità» una nuova élite intellettuale, che sarebbe dovuta diventare nel giro di pochi anni il nucleo dirigente di un nuovo partito. Eppure affermava con vigore:
Io continuo a dichiararmi socialista perché continuo a credere che «chi lavora ha diritto a godere intero il frutto del suo lavoro, e non può ottenere questo fine che con la organizzazione e con la lotta economica e politica di classe». Questo è il socialismo per me. Tutto il resto è appiccicature transitorie: è mito destinato a fallire. Il solo mito che non fallisce mai è il privilegio: e contro esso bisognerà sempre lottare.
E più avanti, dopo aver ribadito il suo definitivo distacco dal partito: «avere poca fiducia nei socialisti organizzati, non vuol dire dare un calcio al concetto dell’organizzazione e della lotta di classe (…)». Sono gli stessi concetti che troviamo ancora ribaditi pubblicamente un anno dopo, nel giugno 1914, sempre in polemica con Rodolfo Savelli, sulle pagine dell’«Unità»[6]. Era una definizione del socialismo, questa, che certo non coincideva con la più rigorosa dottrina marxiana, ma neppure ne contraddiceva il concetto ispiratore, e storicamente corrispondeva alla coscienza e alle idee comuni a gran parte del movimento socialista.
Il principio della lotta di classe, com’è noto, Salvemini l’aveva appreso dal Marx del Manifesto e degli scritti «storici», Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: opere che costituivano nel loro insieme un modello suggestivo d’interpretazione storiografica, sociologica e politica, in cui gli schieramenti fondamentali e le tendenze dei partiti si dispiegavano attraverso l’analisi concreta degli interessi materiali, delle mentalità e dei comportamenti delle classi, che determinano le condizioni e lo svolgersi della lotta politica. Un metodo, questo, che Salvemini applicò con rigore, talora perfino con eccessiva rigidità, nelle sue prime opere storiche[7], e influenzò la sua successiva attività storiografica – anche quando a Marx si sovrapposero Cattaneo, Tocqueville e Mosca – e che ispirò i suoi migliori saggi sulla società meridionale e le sue analisi sulla lotta sociale e politica in Italia.
Il concetto di lotta di classe non esaurisce certo il pensiero di Marx, ma ne costituisce uno dei cardini e fu indubbiamente il principio che ebbe maggiore efficacia pratica nella storia del movimento socialista, e anzi costituì nella fase delle origini il criterio discriminante, quello che per una intera generazione segnò il passaggio dalla democrazia radicale al socialismo. Questo è il punto essenziale per definire la scelta di campo, alla quale Salvemini rimase fedele ancora per qualche tempo dopo il distacco dal Partito socialista. È vero che nel suo pensiero, come vedremo meglio più avanti, il concetto di lotta di classe fu presto inteso in senso riduttivo, come criterio essenziale ma non esclusivo d’interpretazione storica e come metodo necessario all’individuazione dei soggetti sociali in funzione della politica. Ma ciò non autorizza a negare o svalutare l’influenza del marxismo. «Illuminismo, storicismo, marxismo: queste sono le basi del mio pensiero», affermava Salvemini nel 1922, in una famosa lettera a Piero Gobetti. Il marxismo, spiegava,
ha importato un canone, non nuovo, ma più consapevole: quello che la storia è lo studio dei rapporti fra le classi sociali, e che le classi sociali sono in funzione della organizzazione economica della società. Il marxismo, inteso non come dottrina filosofica ed economica apocalittica, ma come canone di interpretazione storica, ha avuto su di me una grande influenza: né i Magnati e Popolani, né La Rivoluzione francese si capirebbero senza la influenza marxista. Per me Marx è un grande storico, più che un economista o un filosofo[8].
E chi rammenti il nesso, strettissimo in Salvemini, tra pensiero storico e concezione politica, il suo modo di concepire e praticare la storiografia in funzione dei problemi del presente, intenderà nel suo giusto valore il significato di questa testimonianza autobiografica; la quale, come la successiva adesione al Partito socialista unitario, dopo il delitto Matteotti, attesta la persistenza d’un legame che non era soltanto sentimentale, ma anche ideale e politico.
In quanto s’è venuto dicendo sin qui è implicito che non si tratta tanto di stabilire in termini astrattamente dottrinari, e quindi storicamente arbitrari, se Salvemini si possa considerare o no marxista o socialista, quanto piuttosto di comprendere il suo dichiarato socialismo. In effetti egli non era un dottrinario e rifuggiva dalle astrattezze filosofiche. Come ha osservato Bobbio, anche negli anni giovanili, quelli della scoperta di Marx e della prima adesione al socialismo, «non prese alcuna parte alla disputa intorno al marxismo teorico, che scoppiò alla fine del secolo, e fu una disputa essenzialmente filosofica, di cui è difficile scorgere il nesso con il socialismo e con la storia del movimento operaio e delle lotte del lavoro»[9]. Questa disputa, che per la verità a me non sembra così irrilevante e priva di nessi con la storia del movimento operaio e socialista, non era certo sfuggita a Salvemini. Rispondendo all’amico Carlo Placci, che gli aveva chiesto cosa pensasse della cosiddetta «crisi del marxismo», affermava di vederla «con molta simpatia», ritenendo che ne sarebbe venuto
grande utile al Partito socialista, perché lo renderà più pratico e meno apriorista. Del marxismo è avvenuto come di tutte le grandi teorie (…), così c’è un marxismo, diciam così puro, e un marxismo maccheronico. In Italia il marxismo maccheronico è rappresentato da troppa gente; e tutto il lavoro di critica che noi andiamo facendo delle nostre teorie, avrà l’utile effetto di obbligarci ad abbandonare tutte le esagerazioni, le ingenuità, le metafisicherie del bel tempo antico[10].
Una risposta sbrigativa, che lascia bene trasparire un atteggiamento distaccato verso quel dibattito dottrinario, ma anche, nel contempo, il suo favore per le tendenze revisionistiche che, muovendo dall’esperienza, mettevano in crisi gli stessi fondamenti metodologici e filosofici sui quali si era andata costruendo la rigida architettura ideologica dell’ortodossia marxista.
Non era però, la sua, indifferenza per la teoria, ma piuttosto appartenenza a una cultura positiva di ascendenza illuministica, cui era estranea, la matrice metafisica e hegeliana del marxismo. La lucida prolusione messinese del 1901, La storia considerata come scienza[11], costituisce una argomentata esposizione del suo pensiero storico, che consente anche di comprendere quali fossero i fondamenti teorici della concezione e dell’opera politica sua. Dalla cultura positivistica dominante negli anni della sua formazione intellettuale, e più tardi dall’incontro con le opere del Cattaneo, aveva tratto conferma e più chiara coscienza teorica di quella che sembra una disposizione costitutiva della sua intelligenza. Non una filosofia positivistica, ma una mentalità positiva, e un metodo empirico induttivo, che muove dall’osservazione dei fatti e affronta problemi concreti proponendo soluzioni precise e concrete (se sempre giuste e realistiche è ovviamente altra questione). Un metodo positivo che, come osserva ancora Bobbio, non esclude affatto le idee generali[12], ma anche, è necessario precisare, rifiuta l’esprit de système: e in ciò, e nella fiducia nella funzione rischiaratrice della ragione, poteva ben dirsi illuminista. Idee generali, però, che erano necessariamente racchiuse entro l’orizzonte del reale, e quindi rifiutavano il mito e l’utopia, come pure le superfetazioni dottrinarie costruite con astrazioni arbitrarie sulla realtà: le «appiccicature transitorie», appunto, il «mito destinato a fallire», di cui parlava nella citata lettera del 1913, per definire «tutto il resto» che si sovrappone all’organizzazione e alla lotta economica e politica di classe volta a superare i privilegi, affinché chi lavora goda intero il frutto del suo lavoro.
Empirismo e concretismo sono congeniali a Salvemini sin nei suoi primi scritti militanti: basti pensare ai saggi su Molfetta e sui socialisti di Imola, del 1897. Anche Turati e i suoi compagni riformisti avevano un senso molto vivo della realtà e sapevano applicarsi ai problemi concreti. Per la loro originaria formazione positivistica, maturata nel clima culturale e politico della democrazia radicale lombarda, essi avevano in comune con Salvemini una mentalità positiva, e un metodo sostanzialmente empirico di affrontare i problemi, alieno dalle astrattezze e dalle rigidità dottrinarie. Attraverso questo filtro la recezione del marxismo si era tradotta in una concezione generale della società e della storia scevra di spirito dogmatico quanto poco incline al rigore teorico, alquanto schematica e approssimativa ma anche aperta a un atteggiamento pragmatico, duttile e realistico: una concezione intimamente democratica, e perciò riformistica e gradualistica, ostile a ogni forma di giacobinismo. Nel socialismo turatiano riconosciamo quel nesso tra mentalità positiva empirica e democrazia, che Bobbio ha colto acutamente in Salvemini. Ma se non avevano recepito le premesse filosofiche e tutto il complesso apparato analitico e dottrinario del pensiero marxiano, Turati e gli altri esponenti riformisti ne avevano accolto le categorie fondamentali della teoria storica e sociologica: il concetto che la storia è essenzialmente storia della lotta tra le classi, determinata dai rapporti di produzione; la visione del passato e il giudizio sulla società capitalistica, il ruolo storico del proletariato e la prospettiva del socialismo, d’una società collettivistica senza classi, e il mito del proletariato destinato a divenire classe dirigente, e ad abbattere il dominio della borghesia, come questa aveva abbattuto la società feudale, una volta pervenute a maturità le nuove forze produttive, secondo lo schema marxiano. Tutte queste idee appartenevano a pieno titolo al patrimonio culturale comune del socialismo marxista italiano. Su di esse, in particolare, i riformisti fondavano il proprio concetto di rivoluzione come processo di lungo periodo, che doveva realizzarsi non dall’alto, con una forzatura imposta mediante la conquista del potere, ma gradualmente, muovendo dalla società, a mano a mano che il proletariato, acquistando la cultura, la coscienza politica, le conoscenze tecniche necessarie, per mezzo dell’organizzazione e delle lotte nei sindacati, nelle leghe, nelle cooperative, nelle amministrazioni locali, nelle istituzioni politiche, divenisse di fatto la nuova classe dirigente[13].
Il movimento operaio e socialista si muoveva dunque «nel senso della storia», benché questo non fosse inteso in senso rigidamente deterministico. A Turati, specie al Turati più maturo, il corso della storia appariva problematico e tortuoso, suscettibile di arretramenti e deviazioni: ma aveva pur sempre un senso e una direzione. Lo storicismo di Salvemini era ancor più problematico e aperto, scevro d’ogni implicazione deterministica e teleologica. Era paradigma d’interpretazione del passato storico, non canone di previsione del futuro. La prospettiva dell’immancabile avvento della società socialista, cui era legato il concetto della funzione storica del proletariato (e del movimento operaio e socialista che ne è espressione) nel processo dialettico della storia, benché vi alludesse negli anni della sua prima adesione al marxismo, restava sostanzialmente estranea al pensiero di Salvemini. Vi accenna bensì in alcuni scritti del 1898 e 1899[14]; e in una lettera a Francesco Papafava, pure del 1899, discutendo del Cours d’économie politique del Pareto, sostiene la superiorità di un’economia collettivistica, e la sua perfetta conciliabilità col liberismo, il quale anzi diverrebbe «scienza pratica solo in regime socialista»[15]. Ma di tali concetti non si troverà alcuna traccia negli scritti successivi, e si avverte chiaramente che essi non informano le idee di Salvemini.
Nella citata polemica col Savelli sull’«Unità» del 1914, immaginava che il suo interlocutore gli obiettasse (ed era certo una dichiarazione dei propri convincimenti, in forma indiretta):
Tu non sei socialista, poiché tu non credi al plusvalore, né alla concentrazione capitalistica, né alla miseria crescente, né alla crisi finale rivoluzionaria. Ed io, di nuovo a rispondere: il socialismo non è in questi principi; il socialismo è nel fatto della classe proletaria che si organizza e lotta per la fine di ogni privilegio, creando teorie nuove via via che le antiche sono corrose dalle nuove esperienze, cadendo, rialzandosi, errando, correggendosi, provando, riprovando. Ecco il centro incrollabile della mia fede[16].
Non si potrebbe definire meglio il socialismo empirico salveminiano. Il socialismo è nel fatto della classe proletaria che si organizza e lotta; le teorie non hanno valore fondante, non sono principi costitutivi, ma ipotesi provvisorie costruite induttivamente dal movimento sulla base dell’esperienza: «provando, riprovando». «Appiccicature provvisorie», aveva scritto nel 1913.
Nel costume politico italiano – dal quale non si discostavano, nelle generalità, neppure i socialisti: «Socialismo bagolone» lo definiva Turati -, perennemente afflitto dalla verbosità retorica e dalle astrattezze dottrinarie, questo procedere aderendo ai fatti e ai problemi concreti, irrompe con forza innovatrice, educa a un metodo di lavoro e di riflessione più serio e rigoroso, suscita idee feconde, esercitando un’influenza più vasta, profonda e durevole di quanto possa apparire dai risultati immediati dell’azione salveminiana. Ma interpretato con tutta la puntigliosità e l’esclusivismo di cui la personalità a un tempo rigida e appassionata del Salvemini era capace, si traduce anche in atteggiamenti destinati ad appannare la pur straordinaria lucidità del suo pensiero, a limitarne l’ampiezza della visuale e a menomarne l’efficacia nell’azione politica.
Perché il rifiuto dell’astrattezza dottrinaria, spinto talvolta all’estremo, la carenza di tensione sistemica (la quale altro non è che esigenza di coerenza logica interna a ogni pensiero nello sforzo di tenere insieme e dare un senso ai dati contraddittori dell’esperienza), il divieto impostosi di superare più che tanto l’orizzonte del presente immediato (che non comporta necessariamente la fuga nell’utopia) si traducono talvolta nella semplificazione unilaterale di una realtà complessa, nell’impazienza verso le contraddizioni reali e nell’insofferenza per le necessarie mediazioni politiche, insomma in una sorta di estremismo e rigidità intellettuale, che contraddice la logica e la necessità della politica. Un atteggiamento, questo, che spesso, a torto, viene tutto messo confusamente sul conto del moralismo, che pure è una componente del pensiero salveminiano.
La rigidità e l’irruenza polemica di Salvemini erano il cruccio costante anche degli amici che concordavano con le sue posizioni.
Sbagliate metodo – ammoniva Anna Kuliscioff nel febbraio 1910 -. È inutile assalire i socialisti, additandoli come carogne, camorristi ed affaristi, non risparmiando che poche persone, ed anche queste considerarle come deboli, inette ed ormai incapaci di lottare con fervore ed energia. In tutte le critiche le più acerbe, e le più esagerate ci può essere sempre un briciolo di vero, ma pensate, caro amico, se non sia più utile, più bello e più giusto di trarre a profitto piuttosto tutto il meglio che possono dare le nostre limitate forze, anziché demolirle senza avere neppure intraviste forze nuove per sostituirle[17].
«Che cosa ti proponi? – indicava Oddino Morgari -. Di mandare avanti l’agitazione per suffragio? E allora facciamo fulcro su coloro che la sentono e non disprezziamo – pure qualificandoli coll’aggettivo che loro spetta – gli elementi che, nei vari gruppi, consentono sia pur debolmente»[18]. S’ingannava però chi credeva di ridurre questi atteggiamenti di Salvemini a una questione di opportunità tattica. In realtà le polemiche dure e intransigenti, talora anche ingiuste, esprimevano con coerenza una posizione politica rigida ed esclusiva, che alcune volte, come in questo caso, si fondava su un giudizio reciso e unilaterale sullo stato del movimento socialista e operaio e della società italiana.
(...)
[1] Gaetano Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965, p. 129.
[2] Enzo Tagliacozzo, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale, La Nuova Italia, Firenze 1959, e, dello stesso, Nota biografica, nel vol. di autori vari Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959; Massimo L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1963; Gaspare De Caro, Gaetano Salvemini, Utet, Torino 1970, che giudica e manda secondo gli schemi del marxismo operaista e neoleninista di Potere Operaio. Alla stessa originaria impronta ideologica è in parte da ricondursi nella sostanza, anche se depurato dall’animosità polemica del De Caro, il profilo salveminiano di Alberto Asor Rosa (La cultura, in Storia d’Italia, IV-2, Einaudi, Torino 1975, pp. 1194-210), che, assumendo a criterio storiografico un infelice giudizio polemico di Gramsci del 1919, parla di «un caso di giacobinismo professorale».
[3] Lelio Basso, Gaetano Salvemini socialista e meridionalista, Lacaita, Manduria 1959; Armando Saitta, L’ideologia e la politica, nel volume di autori vari Gaetano Salvemini cit.; Gaetano Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale (Opere, IV-2), a cura di Gaetano Arfè, Feltrinelli, Milano 1963 (d’ora in poi: MSQM), Prefazione; Leo Valiani, Salvemini e il socialismo, in Gaetano Salvemini nella cultura e nella politica italiana, Edizioni della Voce, Roma 1968; Alessandro Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, D’Anna, Messina-Firenze 1981, pp. 201-33.
[4] Ugo Bütler, Gaetano Salvemini und die italienische Politik vor dem ersten Weltkrieg, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1978, sul quale cfr. la recensione di Roberto Vivarelli in «The Journal of Modern History», LII, 3 (September 1980), pp. 539-42.
[5] La pubblicazione del carteggio salveminiano, cominciata nelle Opere (XI-1) col volume Carteggi, I. 1895-1911, a cura di Elvira Gencarelli, Feltrinelli, Milano 1968 (qui citato: Carteggi, I), è continuata per cura di Enzo Tagliacozzo nella nuova serie della «Collezione di Studi meridionali» dell’editore Laterza (Roma-Bari 1984-1985), con i tre volumi: Gaetano Salvemini, Carteggio 1912-1914; Carteggio 1914-1920; Carteggio 1921-1926, che citerò col semplice titolo. La lettera qui citata, del 26 luglio 1913, è in Carteggio 1912-1914, pp. 357-8.
[6] Postilla a un articolo del Savelli su «L’Unità», 19 giugno 1914, ora in MSQM, pp. 560-4. Cfr. anche Galante Garrone, Salvemini e Mazzini cit., pp. 207-11: e Bütler, Gaetano Salvemini cit., p. 226, dove lo studioso tedesco, rilevando giustamente che tale concetto di lotta di classe si allontana da quello marxista (e a maggior ragione da quello leninista), ricava da questo documento conferma del carattere essenzialmente democratico della posizione salveminiana, mentre a me pare di dovervi leggere piuttosto il persistere d’una concezione socialista democratica, non marxista, anche se è evidente la traccia originaria del marxismo. Nondimeno nell’interpretazione generale che il Bütler sostiene nel corso dell’opera non si manifesta su questo punto essenziale un vero contrasto di giudizio, sibbene, a me pare, una diversità di accenti che consiste in una minore valutazione dell’esperienza e dell’ispirazione socialista in Salvemini.
[7] Cfr. in particolare i saggi di Ernesto Sestan, Salvemini storico del Medioevo e di Marino Berengo, Salvemini storico e la reazione del ’98, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini, a cura di E. Sestan, Il Saggiatore, Milano 1977.
[8] Carteggio 1921-1926, pp. 60-1. Il corsivo, qui come nei passi citati in seguito, salvo diverso avviso, è nel testo originale. In questa lettera, dell’11 agosto 1922, Salvemini commentava l’articolo di Natalino Sapegno, Notizie sugli studi storici. Salvemini, di cui evidentemente Gobetti gli aveva inviato il manoscritto, e che sarà pubblicato su «La Rivoluzione liberale», 12 ottobre 1922.
[9] Norberto Bobbio, La non-filosofia di Salvemini, in Maestri e compagni, Passigli, Firenze 1984, p. 34. A questo articolo, e all’altro, Salvemini e la democrazia, ripubblicato nello stesso volume (edito già negli Atti del Convegno su Gaetano Salvemini cit.), pur non consentendo in tutto, sono largamente debitore. Al marxismo di Salvemini pagine molto accurate ed utili, anche se non sempre esaurienti e convincenti, ha dedicato Bütler, Gaetano Salvemini cit., specie pp. 39-54.
[10] Carteggi, I, p. 94, 5 giugno 1899.
[11] Il testo della prolusione, nella redazione rielaborata edita nella «Rivista italiana di Sociologia» del 1902, è ora in Scritti vari (Opere, VIII), a cura di Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 107-35.
[12] Bobbio, La non-filosofia di Salvemini cit., p. 37.
[13] Tralasciando gli ovvi riferimenti bibliografici relativi a Turati e al socialismo riformista, mi limito a citare il recentissimo contributo di Lorenzo Strik Lievers, Turati, Jaurès e il senso della storia, nel vol. di autori vari Filippo Turati e il socialismo europeo, a cura di M. Degl’Innocenti, Guida, Napoli 1985, che esamina con finezza un aspetto del pensiero di Turati considerato nel nostro discorso.
[14] MSQM, pp. 54-5, 98.
[15] Carteggi, I, pp. 105-6, 20 settembre 1899.
[16] MSQM, p. 563.
[17] Carteggi, I, p. 428, 5 febbraio 1910.
[18] Ivi, pp. 444-5, 28 maggio 1910.