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    Predefinito Gaetano Salvemini e il Partito socialista

    di Angelo Ventura – In Gaetano Cingari (a cura di), “Gaetano Salvemini tra politica e storia”, atti del Convegno internazionale di studi organizzato dall’Istituto di Studi Storici «Gaetano Salvemini», Sezione per la Sicilia e la Calabria dell’Istituto Socialista di Studi Storici (Messina, 3-5 ottobre 1985), Laterza, Roma-Bari 1986, pp. 45-88.


    1. Il socialismo di Salvemini

    L’azione svolta da Gaetano Salvemini nel Partito socialista, il suo ruolo di «riformista di complemento, - come scrive argutamente Arfè – aggregato, quale franco tiratore, al gruppo lombardo ed emiliano che costituisce lo stato maggiore del socialismo riformista»[1], il suo complicato e tormentato rapporto col movimento socialista, anche dopo il distacco dal partito, sono stati considerati, benché non sempre in modo puntuale e sereno, e spesso solo incidentalmente, da parte di molti studiosi. Ma Salvemini è un personaggio anche storiograficamente scomodo, troppo complesso e originale per prestarsi agli schemi consueti e a letture lineari. Si può comprendere quindi che della sua esperienza socialista offrano una valutazione sostanzialmente riduttiva sia il meritorio profilo biografico del Tagliacozzo, sia il saggio interpretativo che dell’opera complessiva del Salvemini ha abbozzato per grandi linee Massimo Salvadori, per non parlare della biografia di Gaspare De Caro, che ha pretese di maggiore impegno, ma si risolve in una sorta di requisitoria priva di senso storico[2].
    Tra i numerosi saggi parziali, e molti sono di alto livello, pochi quelli dedicati espressamente al problema specifico del Salvemini socialista. Tra questi i più notevoli mi sembrano quelli di Lelio Basso e di Armando Saitta (particolarmente penetrante quest’ultimo), ambedue del 1959, ai quali sono da aggiungere, a parte la breve ma densa Introduzione di Arfè al volume da lui curato nell’edizione delle Opere, un articolo di Valiani, come di consueto magistralmente limpido ed essenziale, e, infine, le belle pagine di Alessandro Galante Garrone nel suo recente Salvemini e Mazzini[3]. Un posto a sé occupa l’importante volume di Hugo Bütler, il primo studio biografico di solido impianto scientifico, fondato su una ricerca sistematica, che ci viene – fatto degno di riflessione – da uno studioso straniero[4]. Nondimeno anche il Bütler, esaminando il pensiero e l’azione di Salvemini nel contesto della politica italiana sino alla prima guerra mondiale, in una prospettiva che sottolinea il carattere sostanzialmente democratico della concezione salveminiana, pur riconoscendone la mai smentita adesione a un ideale di socialismo democratico, appare meno attento e sensibile al rapporto col Partito socialista.
    Non è mio proposito, né sarebbe certo possibile in questa sede, tentare un riesame sistematico della questione, e ripercorrere criticamente, dipanandone tutti i nodi, una vicenda quanto mai complessa, che investe la formazione intellettuale e politica di Salvemini e la sua evoluzione nel corso di oltre un ventennio – il periodo più inquieto e creativo della sua vita – intrecciantesi strettamente con la storia del movimento socialista e con quella complessiva del paese. Tuttavia non sembra inutile tornare con qualche riflessione su un problema ancora non bene approfondito. Tanto più che esso si colloca oggi in un diverso orizzonte, al compiersi d’una fase storica, forse a una svolta epocale, che sancisce il superamento, nei fatti e nelle coscienze, dei sistemi ideologici tradizionali e dei loro fondamenti dogmatici, smentiti dall’esperienza e travolti dal mutamento profondo degli stessi elementi costitutivi materiali e culturali – strutture economiche e sociali, istituzioni, mentalità – che avevano segnato la nascita e lo sviluppo nel corso di oltre un secolo, della società industriale e del movimento operaio e socialista.
    In questa prospettiva la figura di Salvemini nella storia del socialismo italiano, per quanto indubbiamente connotata da una spiccata originalità, ci appare meno isolata e meno anomala di quanto sia sembrato in genere alle più correnti interpretazioni. Le quali, per opposti motivi – in nome d’una presunta ortodossia marxista che pretende di espellere gli eretici dal socialismo, o per converso ispirandosi a una visione radical-democratica, in sintonia con le idee del secondo Salvemini – tendono a rimuovere la sua esperienza socialista o almeno ad appiattirla su una concezione genericamente democratica, liquidando l’adesione al socialismo come poco più d’un generoso inganno giovanile, oppure come espressione esemplare degli equivoci e delle insufficienze che avrebbero caratterizzato il socialismo riformista, rispetto ad un presunto modello scientifico, che altro non rappresenta in realtà se non una delle diverse forme storiche del movimento socialista.
    Ma ora che nessuno, in questo tornante della storia, saprebbe dire veramente cosa sia o cosa dovrebbe essere il socialismo – e meno che altri gli stessi intellettuali e politici che si dichiarano socialisti o comunisti – viene in mente la definizione che ne dava Salvemini in una lettera del luglio 1913[5]. Egli aveva rotto i ponti col Partito socialista ormai da due anni, e conduceva contro di esso un’aspra e perfino ingenerosa polemica: «sono uscito e non ci rientrerò più», proclamava in quella stessa lettera. E si era gettato a capofitto nell’impresa di raccogliere attorno all’«Unità» una nuova élite intellettuale, che sarebbe dovuta diventare nel giro di pochi anni il nucleo dirigente di un nuovo partito. Eppure affermava con vigore:

    Io continuo a dichiararmi socialista perché continuo a credere che «chi lavora ha diritto a godere intero il frutto del suo lavoro, e non può ottenere questo fine che con la organizzazione e con la lotta economica e politica di classe». Questo è il socialismo per me. Tutto il resto è appiccicature transitorie: è mito destinato a fallire. Il solo mito che non fallisce mai è il privilegio: e contro esso bisognerà sempre lottare.

    E più avanti, dopo aver ribadito il suo definitivo distacco dal partito: «avere poca fiducia nei socialisti organizzati, non vuol dire dare un calcio al concetto dell’organizzazione e della lotta di classe (…)». Sono gli stessi concetti che troviamo ancora ribaditi pubblicamente un anno dopo, nel giugno 1914, sempre in polemica con Rodolfo Savelli, sulle pagine dell’«Unità»[6]. Era una definizione del socialismo, questa, che certo non coincideva con la più rigorosa dottrina marxiana, ma neppure ne contraddiceva il concetto ispiratore, e storicamente corrispondeva alla coscienza e alle idee comuni a gran parte del movimento socialista.
    Il principio della lotta di classe, com’è noto, Salvemini l’aveva appreso dal Marx del Manifesto e degli scritti «storici», Le lotte di classe in Francia e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: opere che costituivano nel loro insieme un modello suggestivo d’interpretazione storiografica, sociologica e politica, in cui gli schieramenti fondamentali e le tendenze dei partiti si dispiegavano attraverso l’analisi concreta degli interessi materiali, delle mentalità e dei comportamenti delle classi, che determinano le condizioni e lo svolgersi della lotta politica. Un metodo, questo, che Salvemini applicò con rigore, talora perfino con eccessiva rigidità, nelle sue prime opere storiche[7], e influenzò la sua successiva attività storiografica – anche quando a Marx si sovrapposero Cattaneo, Tocqueville e Mosca – e che ispirò i suoi migliori saggi sulla società meridionale e le sue analisi sulla lotta sociale e politica in Italia.
    Il concetto di lotta di classe non esaurisce certo il pensiero di Marx, ma ne costituisce uno dei cardini e fu indubbiamente il principio che ebbe maggiore efficacia pratica nella storia del movimento socialista, e anzi costituì nella fase delle origini il criterio discriminante, quello che per una intera generazione segnò il passaggio dalla democrazia radicale al socialismo. Questo è il punto essenziale per definire la scelta di campo, alla quale Salvemini rimase fedele ancora per qualche tempo dopo il distacco dal Partito socialista. È vero che nel suo pensiero, come vedremo meglio più avanti, il concetto di lotta di classe fu presto inteso in senso riduttivo, come criterio essenziale ma non esclusivo d’interpretazione storica e come metodo necessario all’individuazione dei soggetti sociali in funzione della politica. Ma ciò non autorizza a negare o svalutare l’influenza del marxismo. «Illuminismo, storicismo, marxismo: queste sono le basi del mio pensiero», affermava Salvemini nel 1922, in una famosa lettera a Piero Gobetti. Il marxismo, spiegava,

    ha importato un canone, non nuovo, ma più consapevole: quello che la storia è lo studio dei rapporti fra le classi sociali, e che le classi sociali sono in funzione della organizzazione economica della società. Il marxismo, inteso non come dottrina filosofica ed economica apocalittica, ma come canone di interpretazione storica, ha avuto su di me una grande influenza: né i Magnati e Popolani, né La Rivoluzione francese si capirebbero senza la influenza marxista. Per me Marx è un grande storico, più che un economista o un filosofo[8].

    E chi rammenti il nesso, strettissimo in Salvemini, tra pensiero storico e concezione politica, il suo modo di concepire e praticare la storiografia in funzione dei problemi del presente, intenderà nel suo giusto valore il significato di questa testimonianza autobiografica; la quale, come la successiva adesione al Partito socialista unitario, dopo il delitto Matteotti, attesta la persistenza d’un legame che non era soltanto sentimentale, ma anche ideale e politico.
    In quanto s’è venuto dicendo sin qui è implicito che non si tratta tanto di stabilire in termini astrattamente dottrinari, e quindi storicamente arbitrari, se Salvemini si possa considerare o no marxista o socialista, quanto piuttosto di comprendere il suo dichiarato socialismo. In effetti egli non era un dottrinario e rifuggiva dalle astrattezze filosofiche. Come ha osservato Bobbio, anche negli anni giovanili, quelli della scoperta di Marx e della prima adesione al socialismo, «non prese alcuna parte alla disputa intorno al marxismo teorico, che scoppiò alla fine del secolo, e fu una disputa essenzialmente filosofica, di cui è difficile scorgere il nesso con il socialismo e con la storia del movimento operaio e delle lotte del lavoro»[9]. Questa disputa, che per la verità a me non sembra così irrilevante e priva di nessi con la storia del movimento operaio e socialista, non era certo sfuggita a Salvemini. Rispondendo all’amico Carlo Placci, che gli aveva chiesto cosa pensasse della cosiddetta «crisi del marxismo», affermava di vederla «con molta simpatia», ritenendo che ne sarebbe venuto

    grande utile al Partito socialista, perché lo renderà più pratico e meno apriorista. Del marxismo è avvenuto come di tutte le grandi teorie (…), così c’è un marxismo, diciam così puro, e un marxismo maccheronico. In Italia il marxismo maccheronico è rappresentato da troppa gente; e tutto il lavoro di critica che noi andiamo facendo delle nostre teorie, avrà l’utile effetto di obbligarci ad abbandonare tutte le esagerazioni, le ingenuità, le metafisicherie del bel tempo antico[10].

    Una risposta sbrigativa, che lascia bene trasparire un atteggiamento distaccato verso quel dibattito dottrinario, ma anche, nel contempo, il suo favore per le tendenze revisionistiche che, muovendo dall’esperienza, mettevano in crisi gli stessi fondamenti metodologici e filosofici sui quali si era andata costruendo la rigida architettura ideologica dell’ortodossia marxista.
    Non era però, la sua, indifferenza per la teoria, ma piuttosto appartenenza a una cultura positiva di ascendenza illuministica, cui era estranea, la matrice metafisica e hegeliana del marxismo. La lucida prolusione messinese del 1901, La storia considerata come scienza[11], costituisce una argomentata esposizione del suo pensiero storico, che consente anche di comprendere quali fossero i fondamenti teorici della concezione e dell’opera politica sua. Dalla cultura positivistica dominante negli anni della sua formazione intellettuale, e più tardi dall’incontro con le opere del Cattaneo, aveva tratto conferma e più chiara coscienza teorica di quella che sembra una disposizione costitutiva della sua intelligenza. Non una filosofia positivistica, ma una mentalità positiva, e un metodo empirico induttivo, che muove dall’osservazione dei fatti e affronta problemi concreti proponendo soluzioni precise e concrete (se sempre giuste e realistiche è ovviamente altra questione). Un metodo positivo che, come osserva ancora Bobbio, non esclude affatto le idee generali[12], ma anche, è necessario precisare, rifiuta l’esprit de système: e in ciò, e nella fiducia nella funzione rischiaratrice della ragione, poteva ben dirsi illuminista. Idee generali, però, che erano necessariamente racchiuse entro l’orizzonte del reale, e quindi rifiutavano il mito e l’utopia, come pure le superfetazioni dottrinarie costruite con astrazioni arbitrarie sulla realtà: le «appiccicature transitorie», appunto, il «mito destinato a fallire», di cui parlava nella citata lettera del 1913, per definire «tutto il resto» che si sovrappone all’organizzazione e alla lotta economica e politica di classe volta a superare i privilegi, affinché chi lavora goda intero il frutto del suo lavoro.
    Empirismo e concretismo sono congeniali a Salvemini sin nei suoi primi scritti militanti: basti pensare ai saggi su Molfetta e sui socialisti di Imola, del 1897. Anche Turati e i suoi compagni riformisti avevano un senso molto vivo della realtà e sapevano applicarsi ai problemi concreti. Per la loro originaria formazione positivistica, maturata nel clima culturale e politico della democrazia radicale lombarda, essi avevano in comune con Salvemini una mentalità positiva, e un metodo sostanzialmente empirico di affrontare i problemi, alieno dalle astrattezze e dalle rigidità dottrinarie. Attraverso questo filtro la recezione del marxismo si era tradotta in una concezione generale della società e della storia scevra di spirito dogmatico quanto poco incline al rigore teorico, alquanto schematica e approssimativa ma anche aperta a un atteggiamento pragmatico, duttile e realistico: una concezione intimamente democratica, e perciò riformistica e gradualistica, ostile a ogni forma di giacobinismo. Nel socialismo turatiano riconosciamo quel nesso tra mentalità positiva empirica e democrazia, che Bobbio ha colto acutamente in Salvemini. Ma se non avevano recepito le premesse filosofiche e tutto il complesso apparato analitico e dottrinario del pensiero marxiano, Turati e gli altri esponenti riformisti ne avevano accolto le categorie fondamentali della teoria storica e sociologica: il concetto che la storia è essenzialmente storia della lotta tra le classi, determinata dai rapporti di produzione; la visione del passato e il giudizio sulla società capitalistica, il ruolo storico del proletariato e la prospettiva del socialismo, d’una società collettivistica senza classi, e il mito del proletariato destinato a divenire classe dirigente, e ad abbattere il dominio della borghesia, come questa aveva abbattuto la società feudale, una volta pervenute a maturità le nuove forze produttive, secondo lo schema marxiano. Tutte queste idee appartenevano a pieno titolo al patrimonio culturale comune del socialismo marxista italiano. Su di esse, in particolare, i riformisti fondavano il proprio concetto di rivoluzione come processo di lungo periodo, che doveva realizzarsi non dall’alto, con una forzatura imposta mediante la conquista del potere, ma gradualmente, muovendo dalla società, a mano a mano che il proletariato, acquistando la cultura, la coscienza politica, le conoscenze tecniche necessarie, per mezzo dell’organizzazione e delle lotte nei sindacati, nelle leghe, nelle cooperative, nelle amministrazioni locali, nelle istituzioni politiche, divenisse di fatto la nuova classe dirigente[13].
    Il movimento operaio e socialista si muoveva dunque «nel senso della storia», benché questo non fosse inteso in senso rigidamente deterministico. A Turati, specie al Turati più maturo, il corso della storia appariva problematico e tortuoso, suscettibile di arretramenti e deviazioni: ma aveva pur sempre un senso e una direzione. Lo storicismo di Salvemini era ancor più problematico e aperto, scevro d’ogni implicazione deterministica e teleologica. Era paradigma d’interpretazione del passato storico, non canone di previsione del futuro. La prospettiva dell’immancabile avvento della società socialista, cui era legato il concetto della funzione storica del proletariato (e del movimento operaio e socialista che ne è espressione) nel processo dialettico della storia, benché vi alludesse negli anni della sua prima adesione al marxismo, restava sostanzialmente estranea al pensiero di Salvemini. Vi accenna bensì in alcuni scritti del 1898 e 1899[14]; e in una lettera a Francesco Papafava, pure del 1899, discutendo del Cours d’économie politique del Pareto, sostiene la superiorità di un’economia collettivistica, e la sua perfetta conciliabilità col liberismo, il quale anzi diverrebbe «scienza pratica solo in regime socialista»[15]. Ma di tali concetti non si troverà alcuna traccia negli scritti successivi, e si avverte chiaramente che essi non informano le idee di Salvemini.
    Nella citata polemica col Savelli sull’«Unità» del 1914, immaginava che il suo interlocutore gli obiettasse (ed era certo una dichiarazione dei propri convincimenti, in forma indiretta):

    Tu non sei socialista, poiché tu non credi al plusvalore, né alla concentrazione capitalistica, né alla miseria crescente, né alla crisi finale rivoluzionaria. Ed io, di nuovo a rispondere: il socialismo non è in questi principi; il socialismo è nel fatto della classe proletaria che si organizza e lotta per la fine di ogni privilegio, creando teorie nuove via via che le antiche sono corrose dalle nuove esperienze, cadendo, rialzandosi, errando, correggendosi, provando, riprovando. Ecco il centro incrollabile della mia fede[16].

    Non si potrebbe definire meglio il socialismo empirico salveminiano. Il socialismo è nel fatto della classe proletaria che si organizza e lotta; le teorie non hanno valore fondante, non sono principi costitutivi, ma ipotesi provvisorie costruite induttivamente dal movimento sulla base dell’esperienza: «provando, riprovando». «Appiccicature provvisorie», aveva scritto nel 1913.
    Nel costume politico italiano – dal quale non si discostavano, nelle generalità, neppure i socialisti: «Socialismo bagolone» lo definiva Turati -, perennemente afflitto dalla verbosità retorica e dalle astrattezze dottrinarie, questo procedere aderendo ai fatti e ai problemi concreti, irrompe con forza innovatrice, educa a un metodo di lavoro e di riflessione più serio e rigoroso, suscita idee feconde, esercitando un’influenza più vasta, profonda e durevole di quanto possa apparire dai risultati immediati dell’azione salveminiana. Ma interpretato con tutta la puntigliosità e l’esclusivismo di cui la personalità a un tempo rigida e appassionata del Salvemini era capace, si traduce anche in atteggiamenti destinati ad appannare la pur straordinaria lucidità del suo pensiero, a limitarne l’ampiezza della visuale e a menomarne l’efficacia nell’azione politica.
    Perché il rifiuto dell’astrattezza dottrinaria, spinto talvolta all’estremo, la carenza di tensione sistemica (la quale altro non è che esigenza di coerenza logica interna a ogni pensiero nello sforzo di tenere insieme e dare un senso ai dati contraddittori dell’esperienza), il divieto impostosi di superare più che tanto l’orizzonte del presente immediato (che non comporta necessariamente la fuga nell’utopia) si traducono talvolta nella semplificazione unilaterale di una realtà complessa, nell’impazienza verso le contraddizioni reali e nell’insofferenza per le necessarie mediazioni politiche, insomma in una sorta di estremismo e rigidità intellettuale, che contraddice la logica e la necessità della politica. Un atteggiamento, questo, che spesso, a torto, viene tutto messo confusamente sul conto del moralismo, che pure è una componente del pensiero salveminiano.
    La rigidità e l’irruenza polemica di Salvemini erano il cruccio costante anche degli amici che concordavano con le sue posizioni.

    Sbagliate metodo – ammoniva Anna Kuliscioff nel febbraio 1910 -. È inutile assalire i socialisti, additandoli come carogne, camorristi ed affaristi, non risparmiando che poche persone, ed anche queste considerarle come deboli, inette ed ormai incapaci di lottare con fervore ed energia. In tutte le critiche le più acerbe, e le più esagerate ci può essere sempre un briciolo di vero, ma pensate, caro amico, se non sia più utile, più bello e più giusto di trarre a profitto piuttosto tutto il meglio che possono dare le nostre limitate forze, anziché demolirle senza avere neppure intraviste forze nuove per sostituirle[17].

    «Che cosa ti proponi? – indicava Oddino Morgari -. Di mandare avanti l’agitazione per suffragio? E allora facciamo fulcro su coloro che la sentono e non disprezziamo – pure qualificandoli coll’aggettivo che loro spetta – gli elementi che, nei vari gruppi, consentono sia pur debolmente»[18]. S’ingannava però chi credeva di ridurre questi atteggiamenti di Salvemini a una questione di opportunità tattica. In realtà le polemiche dure e intransigenti, talora anche ingiuste, esprimevano con coerenza una posizione politica rigida ed esclusiva, che alcune volte, come in questo caso, si fondava su un giudizio reciso e unilaterale sullo stato del movimento socialista e operaio e della società italiana.

    (...)


    [1] Gaetano Arfè, Storia del socialismo italiano (1892-1926), Einaudi, Torino 1965, p. 129.
    [2] Enzo Tagliacozzo, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale, La Nuova Italia, Firenze 1959, e, dello stesso, Nota biografica, nel vol. di autori vari Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959; Massimo L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1963; Gaspare De Caro, Gaetano Salvemini, Utet, Torino 1970, che giudica e manda secondo gli schemi del marxismo operaista e neoleninista di Potere Operaio. Alla stessa originaria impronta ideologica è in parte da ricondursi nella sostanza, anche se depurato dall’animosità polemica del De Caro, il profilo salveminiano di Alberto Asor Rosa (La cultura, in Storia d’Italia, IV-2, Einaudi, Torino 1975, pp. 1194-210), che, assumendo a criterio storiografico un infelice giudizio polemico di Gramsci del 1919, parla di «un caso di giacobinismo professorale».
    [3] Lelio Basso, Gaetano Salvemini socialista e meridionalista, Lacaita, Manduria 1959; Armando Saitta, L’ideologia e la politica, nel volume di autori vari Gaetano Salvemini cit.; Gaetano Salvemini, Movimento socialista e questione meridionale (Opere, IV-2), a cura di Gaetano Arfè, Feltrinelli, Milano 1963 (d’ora in poi: MSQM), Prefazione; Leo Valiani, Salvemini e il socialismo, in Gaetano Salvemini nella cultura e nella politica italiana, Edizioni della Voce, Roma 1968; Alessandro Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, D’Anna, Messina-Firenze 1981, pp. 201-33.
    [4] Ugo Bütler, Gaetano Salvemini und die italienische Politik vor dem ersten Weltkrieg, Max Niemeyer Verlag, Tübingen 1978, sul quale cfr. la recensione di Roberto Vivarelli in «The Journal of Modern History», LII, 3 (September 1980), pp. 539-42.
    [5] La pubblicazione del carteggio salveminiano, cominciata nelle Opere (XI-1) col volume Carteggi, I. 1895-1911, a cura di Elvira Gencarelli, Feltrinelli, Milano 1968 (qui citato: Carteggi, I), è continuata per cura di Enzo Tagliacozzo nella nuova serie della «Collezione di Studi meridionali» dell’editore Laterza (Roma-Bari 1984-1985), con i tre volumi: Gaetano Salvemini, Carteggio 1912-1914; Carteggio 1914-1920; Carteggio 1921-1926, che citerò col semplice titolo. La lettera qui citata, del 26 luglio 1913, è in Carteggio 1912-1914, pp. 357-8.
    [6] Postilla a un articolo del Savelli su «L’Unità», 19 giugno 1914, ora in MSQM, pp. 560-4. Cfr. anche Galante Garrone, Salvemini e Mazzini cit., pp. 207-11: e Bütler, Gaetano Salvemini cit., p. 226, dove lo studioso tedesco, rilevando giustamente che tale concetto di lotta di classe si allontana da quello marxista (e a maggior ragione da quello leninista), ricava da questo documento conferma del carattere essenzialmente democratico della posizione salveminiana, mentre a me pare di dovervi leggere piuttosto il persistere d’una concezione socialista democratica, non marxista, anche se è evidente la traccia originaria del marxismo. Nondimeno nell’interpretazione generale che il Bütler sostiene nel corso dell’opera non si manifesta su questo punto essenziale un vero contrasto di giudizio, sibbene, a me pare, una diversità di accenti che consiste in una minore valutazione dell’esperienza e dell’ispirazione socialista in Salvemini.
    [7] Cfr. in particolare i saggi di Ernesto Sestan, Salvemini storico del Medioevo e di Marino Berengo, Salvemini storico e la reazione del ’98, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini, a cura di E. Sestan, Il Saggiatore, Milano 1977.
    [8] Carteggio 1921-1926, pp. 60-1. Il corsivo, qui come nei passi citati in seguito, salvo diverso avviso, è nel testo originale. In questa lettera, dell’11 agosto 1922, Salvemini commentava l’articolo di Natalino Sapegno, Notizie sugli studi storici. Salvemini, di cui evidentemente Gobetti gli aveva inviato il manoscritto, e che sarà pubblicato su «La Rivoluzione liberale», 12 ottobre 1922.
    [9] Norberto Bobbio, La non-filosofia di Salvemini, in Maestri e compagni, Passigli, Firenze 1984, p. 34. A questo articolo, e all’altro, Salvemini e la democrazia, ripubblicato nello stesso volume (edito già negli Atti del Convegno su Gaetano Salvemini cit.), pur non consentendo in tutto, sono largamente debitore. Al marxismo di Salvemini pagine molto accurate ed utili, anche se non sempre esaurienti e convincenti, ha dedicato Bütler, Gaetano Salvemini cit., specie pp. 39-54.
    [10] Carteggi, I, p. 94, 5 giugno 1899.
    [11] Il testo della prolusione, nella redazione rielaborata edita nella «Rivista italiana di Sociologia» del 1902, è ora in Scritti vari (Opere, VIII), a cura di Giorgio Agosti e Alessandro Galante Garrone, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 107-35.
    [12] Bobbio, La non-filosofia di Salvemini cit., p. 37.
    [13] Tralasciando gli ovvi riferimenti bibliografici relativi a Turati e al socialismo riformista, mi limito a citare il recentissimo contributo di Lorenzo Strik Lievers, Turati, Jaurès e il senso della storia, nel vol. di autori vari Filippo Turati e il socialismo europeo, a cura di M. Degl’Innocenti, Guida, Napoli 1985, che esamina con finezza un aspetto del pensiero di Turati considerato nel nostro discorso.
    [14] MSQM, pp. 54-5, 98.
    [15] Carteggi, I, pp. 105-6, 20 settembre 1899.
    [16] MSQM, p. 563.
    [17] Carteggi, I, p. 428, 5 febbraio 1910.
    [18] Ivi, pp. 444-5, 28 maggio 1910.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini e il Partito socialista

    2. Nord e Sud, riforme sociali e riforme politiche

    Così la tenace battaglia meridionalista e per il suffragio universale, di cui era il grande protagonista, si trasmutava infine nell’aspra e indiscriminata campagna contro quella che gli appariva una degenerazione corporativa e ministerialista, dalla quale nulla e nessuno sembrava salvarsi nel Partito socialista e nel movimento operaio. Partito e gruppo parlamentare socialista gli sembravano succubi degli interessi particolaristici delle «oligarchie operaie» formatesi nelle regioni più progredite del Nord, attorno alle cooperative di lavoro e produzione e nelle industrie protette. I deputati socialisti si ritenevano in dovere di chiedere al governo favori per le cooperative e protezione doganale per le industrie che davano lavoro agli operai del proprio collegio – tanto più che molti di questi godevano del diritto elettorale – e quindi non potevano svolgere nel contempo un’opposizione decisa e combattiva contro il ministero. «Un governo che dia lavori e sussidi a queste cooperative, o che istituisca per esse una Banca del lavoro [allusione al programma del ministero Luzzatti, contro il quale si appuntavano gli strali di Salvemini] potrà poi compiere ogni sorta di bricconate in altri campi, senza che nessuno abbia il coraggio di protestare». Le spese di tutti i lavori concessi alle cooperative e del protezionismo industriale cadevano naturalmente «sulle spalle della grande maggioranza dei lavoratori, specialmente dei contadini e di quelli del Mezzogiorno in prima linea». Il giudizio di Salvemini era drastico: «Questi gruppi operai privilegiati vanno diventando i succhioni del proletariato e la guardia del corpo del parassitismo italiano contro la intera classe lavoratrice e contro il paese»[1]. Qui stavano le radici del ministerialismo socialista e della strategia riformista volta principalmente alla legislazione sociale – che secondo Salvemini andava a vantaggio soltanto del proletariato industriale del Nord – mentre il partito non dimostrava alcuna volontà e capacità d’impegnarsi in battaglie di ampio respiro per le riforme «politiche» - prima fra tutte quella del suffragio universale – che erano invece nell’interesse generale del proletariato, specie di quello meridionale, e del paese.
    Le critiche di Salvemini non erano prive di fondamento. Egli coglieva un problema reale, come riconosceva anche Anna Kuliscioff, prendendo le sue difese di fronte alle sdegnate reazioni di Turati e degli altri leader socialisti[2]. Ma, pur facendo la tara dell’intemperanza polemica, era evidente che sfuggiva a Salvemini l’importanza vitale che l’organizzazione economica, e in ispecie quella cooperativistica, e la legislazione sociale avevano per l’esistenza e l’elevazione del proletariato industriale e agricolo più avanzato del Centro-Nord, e quindi il ruolo strategico determinante di queste istituzioni di classe nello sviluppo dell’intero movimento socialista. Si trattava di conquiste recenti tutt’altro che consolidate, strappate nell’ultimo decennio al prezzo di dure lotte e sacrifici, e comunque ancora limitate, come agevolmente si comprende appena si considerino le condizioni del proletariato industriale e agricolo nell’età giolittiana, anche nelle regioni più progredite. Aveva buon gioco l’«Avanti!» nel ricordare che le cooperative socialiste erano collegate all’organizzazione di resistenza e ai municipi socialisti, «vale a dire col movimento generale del proletariato»; e che la legislazione sociale non era ad esclusivo beneficio dei lavoratori del Nord, anche se per le oggettive condizioni dello sviluppo economico-sociale del paese erano questi a trarne i maggiori vantaggi immediati; e infine che se allora si poneva la questione della riforma elettorale, «avviamento al suffragio universale», ciò era dovuto principalmente al gruppo parlamentare socialista, che riceveva la maggioranza dei mandati dai collegi del Nord, dove appunto si erano formate le cooperative[3].
    Sviluppate in quei termini estremi e unilaterali, le critiche di Salvemini si distaccavano dalla complessa realtà del movimento operaio e socialista, apparivano inattendibili e perdevano ogni efficacia pratica[4]. La crescente divaricazione tra la prospettiva salveminiana e quella del Partito socialista era ormai giunta al punto di rottura.


    Io attraverso un periodo di profonda e dolorosa crisi interiore – scriveva il 16 marzo 1911 ad Alessandro Schiavi -. Non ho più fiducia negli uomini, coi quali ho sempre sognato di lavorare. Vedo la classe lavoratrice settentrionale divisa in una minoranza organizzata e [potente?] e sprofondata in un egoismo sempre più grossolano e più vile, e in una maggioranza che è adatta a sentire la forza delle nostre idee e a scuotere il giogo della minoranza parassita, ma sulla quale io non ho presa (…). L’atteggiamento di indifferenza e di ostilità di questa oligarchia pseudo-socialista verso il suffragio universale, è la prova più evidente della impossibilità di un’azione comune fra la oligarchia e noi. Molte volte mi domando se non farei bene ad uscire dal Partito socialista[5].


    Nulla di buono, ribadirà nel 1912, dopo la scissione di Reggio Emilia, neppure poteva uscire dal riformismo di destra, che gli appariva «il riformismo delle cooperative e delle amministrazioni comunali»[6]. Si svolgeva così sino alle estreme conseguenze una intuizione che Salvemini aveva lucidamente esposto nel 1902, per la prima volta in forma sistematica, nell’articolo Nord e Sud nel Partito socialista italiano[7].


    Queste sono le due sole, le due vere tendenze del socialismo italiano – argomentava Salvemini commentando il congresso di Imola -: la tendenza prevalentemente economica nel Nord, la tendenza prevalentemente politica nel Sud. Esse si confonderanno nei periodi di reazione, quando il Nord sarà respinto indietro sulla via del progresso civile e andrà a ritrovare il Sud nella mancanza di libertà politica e nelle impossibilità di lotta economica. Ritorneranno a dividersi e a battagliarsi fieramente non appena la libertà politica dia ai socialisti del Nord il mezzo di secondare le tendenze incoercibili del proletariato settentrionale.


    Perciò il Partito socialista del Nord più progredito si volgeva alle lotte economiche per l’aumento dei salari e la riduzione dell’orario di lavoro e per la legislazione sociale: obiettivi che «con le necessità del Mezzogiorno, non hanno nulla in comune». Al contrario nel Mezzogiorno non solo la libertà politica continuava ad essere di fatto conculcata dal governo, ma quand’anche fosse stata realmente instaurata, il Partito socialista del Sud «non potendo fare agitazione economica, salvo che non voglia spinger i contadini affamati ad assalire i proprietari più affamati ancora, deve sempre fare azione politica». Deve essere antiministeriale, e battersi per la riforma tributaria, per quella doganale in senso antiprotezionista, per la campagna antimilitarista, per il suffragio universale almeno amministrativo. Era certo una prospettiva di «democrazia piccolo-borghese», ma «uscita dai fianchi del socialismo», un’applicazione della lotta di classe «nel solo modo che dalle condizioni locali è consentito». Muovendo da questa acuta intuizione, sviluppata però con evidenti semplificazioni spinte talvolta sino al limite del paradosso, attraverso il dibattito seguito a quell’articolo, la visione e la proposta politica si erano meglio precisate. «L’Italia oggi non è matura a un’azione schiettamente proletaria». I socialisti


    devono guardare una carta geografica dell’Italia, osservare che le zone abitate da un proletario progredito non sono oggi che una minima parte della superficie italiana; devono ricordarsi che l’uomo di stato ha il dovere di tener conto di tutti gli elementi, che costituiscono la vita del paese su cui vuol operare, e non poggiare la sua azione su una parte sola – e non la più estesa – di questi elementi. E da queste considerazioni devono ricavare la conseguenza che oggi in Italia il riformismo socialista, cioè il socialismo pratico e non dottrinario, deve essere riformismo prevalentemente politico.


    «I socialisti riformisti, (…) devono capire che dalla loro teoria generale non deriva oggi in Italia il riformismo sociale, ma il riformismo politico»[8].
    Il punto nodale della strategia salveminiana sta nella considerazione che la lotta per le riforme politiche può essere imperniata sull’accordo «fra proletariato e borghesia industriale moderna contro la reazione clerico-fondiaria-feudale»; mentre al contrario «le riforme sociali dannose alla borghesia industriale non potrebbero essere ottenute oggi che dalla cooperazione del proletariato con la reazione clerico-fondiaria-feudale, la quale sarebbe ben lieta di mollare la borghesia industriale per salvare i propri privilegi»[9]. Questa prospettiva non era priva di fondamento e di forza suggestiva, ma precorreva i tempi. Essa presupponeva una società industriale più matura e un movimento operaio e socialista ben più forte ed evoluto, e di questo misconosceva in ultima analisi i caratteri originari e la funzione storica. Come osservava Turati, «se – dove il proletariato non esiste, benché esista feroce la miseria – è impossibile, per definizione, la politica del proletariato; non è questa ragione sufficiente per sostituire a cotesta politica la politica democratica, filantropica o piccolo-borghese laddove il proletariato non ha ormai più da nascere, e ha bisogno invece di vivere e di progredire»[10]. Né d’altra parta era realistico immaginare che una borghesia industriale ancora debole, e per tanti fili intimamente legata alla proprietà fondiaria, e sviluppatasi in solidarietà con questa all’ombra del protezionismo doganale, fosse disponibile a un’alleanza col proletariato contro le forze «clerico-fondiarie-feudali». Una contraddizione di fondo, questa, che emergerà chiaramente negli equivoci e nell’impotenza della campagna anti-protezionistica condotta attorno all’«Unità» da Salvemini e dai suoi amici, riprendendo con rinnovato vigore quella battaglia liberista, la cui sostanza, come acutamente ha rilevato Roberto Vivarelli, non era economica, ma politica, investendo principalmente il problema dello Stato e della sua riforma in senso liberale e democratico[11].
    Questa linea che privilegiava le «riforme politiche» contrapponendole agli obiettivi che il movimento operaio e socialista perseguiva sul terreno economico e sociale, aveva radici e motivazioni complesse. Veniva naturalmente, innanzi tutto, dalle influenze culturali e politiche che avevano segnato la formazione intellettuale di Salvemini; ma esprimeva anche in particolare la sua diretta esperienza delle condizioni di arretratezza, di oppressione e di arbitrio in cui si svolgeva la lotta sociale e politica nel Meridione. D’altra parte rifletteva la difficoltà del concretismo salveminiano a cogliere nella sua complessità il problema dello sviluppo di una moderna società industriale e del movimento socialista in Italia. Nondimeno si deve sottolineare che egli poneva chiaramente l’affrancamento delle masse contadine meridionali nella prospettiva dell’interesse generale di tutto il movimento operaio e socialista italiano, come passaggio strategico obbligato per allargare, specie mediante la conquista del suffragio universale, le basi sociali e politiche del riformismo. Al proletariato del Nord e al Partito socialista, anzi, Salvemini assegnava, almeno sino a quando cominciarono a maturare le condizioni del suo personale distacco, il compito decisivo di fungere da guida politica del proletariato meridionale, e di operarne il riscatto, strappando alle classi dirigenti il suffragio universale[12].
    Ma non riusciva a comprendere che la mobilitazione del proletariato settentrionale su obiettivi politici non poteva andare disgiunta dall’azione per il suo progresso economico e sociale.
    L’importanza centrale del Meridione nel pensiero e nell’opera di Salvemini non ha bisogno di essere sottolineata. A lui, com’è noto, spetta il merito di aver posto per primo, con grande chiarezza e vigore, la questione meridionale nei termini di una questione nazionale, come il nodo principale che doveva essere sciolto, per consentire lo sviluppo civile ed economico della società e della democrazia in Italia. È però necessario rilevare che l’immagine alquanto diffusa di un Salvemini essenzialmente e, direi, angustamente e ossessivamente meridionalista, rappresenta una distorsione riduttiva. Se è vero che l’esperienza meridionalistica contribuisce a indurre, come si è osservato, un’ottica unilaterale, essa è anche fonte di intuizioni acute e feconde. Nulla giustifica, se non un preconcetto ideologico, l’affermazione secondo cui Salvemini avrebbe avuto un rapporto sostanzialmente strumentale col socialismo[13], come se la sua milizia socialista rappresentasse soltanto una fase strategica del suo meridionalismo democratico. Al contrario, la sua adesione al Partito socialista non aveva originariamente una specifica motivazione meridionalistica, e precedette il suo impegno nella battaglia per il riscatto del Mezzogiorno, che si svilupperà anzi nell’ambito della concezione e della milizia socialista[14], anche se l’istanza meridionalistica andrà poi assumendo un’importanza via via più marcata, e alla fine predominante.

    (...)



    [1] Intervista al «Giornale d’Italia», 10 giugno 1910, in MSQM, pp. 354-8; cfr. anche Cooperative di lavoro e movimento socialista, ivi, pp. 359-384 (pubblicato in tre puntante sull’«Avanti!», nel giugno-luglio 1910). Questa critica contro le «oligarchie operaie» diverrà da allora uno dei motivi ricorrenti della polemica salveminiana.
    [2] Filippo Turati – Anna Kuliscioff, Carteggio, III Einaudi, Torino 1977, pp. 228-34: Turati alla Kuliscioff, risposta della Kuliscioff e replica di Turati, 10, 11, 12 giugno 1910; e ancora ivi, p. 266, Kuliscioff a Turati, 29 giugno. Cfr. anche le lettere di Fausto Pagliari, Costantino Lazzari e (con una riserva critica per le «espressioni poco opportune») di Ugo Guido Mondolfo a Salvemini, nel giugno 1910, in Carteggi, I, pp. 446-52.
    [3] Cfr. i commenti redazionali, attribuibili a Bissolati, agli articoli pubblicati da Salvemini sull’«Avanti!», su Cooperative di lavoro e movimento socialista, in MSQM, pp. 384-90. Un giudizio storico più sicuro e documentato sulla questione è ora possibile grazie alla recente fioritura di studi sul movimento cooperativo, molti dei quali dedicano anche ampia attenzione al rapporto col Partito socialista, con riferimento alla polemica salveminiana. Si vedano in particolare le monografie di Maurizio Degl’Innocenti, Storia della cooperazione in Italia, 1886-1925, Editori Riuniti, Roma 1977, pp. 155-302; e Geografia e istituzioni del socialismo italiano, 1892-1914, Guida, Napoli 1983, pp. 138-59; e, dello stesso, Cooperazione e movimento socialista (1886-1900), nel vol. di autori vari, Il movimento cooperativo nella storia d’Italia, 1854-1975, a cura di F. Fabbri, Feltrinelli, Milano 1979. Tra i numerosi saggi di questo volume cfr. ancora quello di Adolfo Pepe, La cooperazione in età giolittiana (1900-1914). Infine nel volume di autori vari, Il movimento cooperativo in Italia. Storia e problemi, a cura di Giulio Sapelli, Einaudi, Torino 1981, di particolare interesse per il problema qui esaminato, assieme a un altro contributo di M. Degl’Innocenti, è il saggio di Zeffiro Ciuffoletti, Dirigenti e ideologie del movimento cooperativo, specie pp. 138-156.
    [4] «Mi sforzai di fargli capire – scriveva la Kuliscioff a Turati, riferendo di un colloquio con Salvemini – che le sue critiche, giuste in molte cose, perdevano efficacia dall’irruenza e dalla violenza del linguaggio, cagionando un doppio danno: di non riuscire a far discutere gli uomini che stimiamo ed amiamo, e d’altra parte d’incoraggiare la risurrezione del vecchio rivoluzionarismo alla Zerbini, oppure del Lazzarismo mummificato da poche formule vuote e sterili dell’intransigenza» (Turati-Kuliscioff, Carteggio, III cit., pp. 286-7, 6 luglio 1910: correggo la datazione giugno, evidente errore materiale, forse tipografico, come sembra indicare la corretta collocazione della lettera secondo l’ordine cronologico).
    [5] Carteggi, I, pp. 478-81. «Io ormai ho perduto ogni fiducia negli uomini che dominano oggi nel Partito», scriveva già il 28 settembre 1910 a Rodolfo Savelli. «Il Partito non è più che una camorra unita alle vecchie camorre. I rivoluzionari (…) sono fuori della realtà. I riformisti sono fuori del socialismo. In un Partito siffatto non c’è posto per noi» (ivi, p. 467).
    [6] Carteggio 1912-1914, p. 185, 27 luglio 1912.
    [7] «Critica sociale», 16 dicembre 1902, ora in MSQM, pp. 239-48. Un lucido ed equilibrato inquadramento della questione in Leo Valiani, Il problema delle «grandi riforme» fra i socialisti italiani dal 1900 al 1914, in Questioni di storia del socialismo, Einaudi, Torino 1958, pp. 402-12.
    [8] MSQM, pp. 308-9 (Riforme sociali e riforme politiche, pubblicato su «La battaglia» di Palermo, aprile-maggio 1904).
    [9] MSQM, p. 318 (I socialisti meridionali, «La battaglia», maggio 1904).
    [10] Rispondendo al sopra citato articolo di Salvemini, sul «Tempo» di Milano (MSQM, p. 321). Ho corretto un evidente errore dell’edizione delle Opere, riscontrando il testo sull’edizione einaudiana degli Scritti sulla questione meridionale, Torino 1955, p. 228.
    [11] Roberto Vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo. Per la storia e il significato di un trascurato giudizio di Luigi Einaudi sulle origini del fascismo, in Il fallimento del liberalismo, Il Mulino, Bologna 1981, pp. 163-252. Per un esame critico del programma liberista sotto il profilo economico è da vedere Giuseppe Are, Economia e politica nell’Italia liberale (1890-1915), Il Mulino, Bologna, specie pp. 63-119; tenendo conto delle osservazioni del Vivarelli, anche per quanto riguarda la inefficacia pratica della battaglia liberista rispetto al modo di sviluppo dell’economia italiana.
    [12] Rinvio in particolare ai discorsi di Salvemini nei congressi nazionali del Partito socialista di Firenze (1908) e Milano (1910), in MSQM, pp. 331-352, 391-435, 445-55, oltre che, naturalmente, al saggio La questione meridionale, pubblicato a puntate tra il dicembre 1898 e il marzo 1899, ed ora pure in MSQM, pp. 71-89. Cfr. in proposito, anche per quanto segue, gli acuti saggi: di Rosario Villari, Il meridionalista, nel vol. di autori vari, Gaetano Salvemini cit.; e di Giuseppe Galasso, Il meridionalismo di Salvemini, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini cit.; inoltre il capito dedicato a Salvemini in Massimo L. Salvadori, Il mito del buongoverno. La questione meridionale da Cavour a Gramsci, nuova ed., Einaudi, Torino 1963.
    [13] Così ad es. Asor Rosa, La cultura cit.
    [14] Il rapporto tra socialismo e meridionalismo in Salvemini è colto lucidamente, oltre che nei saggi cit. del Villari e del Galasso, da Arfè, Prefazione, in MSQM, pp. XII-XVIII.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini e il Partito socialista

    3. Nazione, democrazia, socialismo. Lotta di classe e primato della politica


    Ma si deve pure aggiungere – ed è singolare che questo aspetto sia solitamente trascurato o appena accennato (e tra le poche eccezioni si segnala l’ampio e approfondito esame dedicatogli dal Bütler nell’ultimo capitolo della sua monografia) – che la visione del Salvemini si allarga a un orizzonte internazionale, con una complessità, un’ampiezza e una penetrazione, che non trovano riscontro in alcun altro tra i leader socialisti, i quali, com’è noto, con l’eccezione parziale di Leonida Bissolati e di Claudio Treves, dei problemi di politica estera non s’interessavano affatto. La sua sensibilità e competenza si fondavano su uno studio rigoroso e approfondito delle questioni, e su una conoscenza diretta, soprattutto del mondo francese e inglese, grazie anche a una fitta rete di rapporti personali. In breve, sin dai suoi primi soggiorni fiorentini egli si muoveva e pensava con naturalezza in una dimensione internazionale, o meglio europea. Salvemini concepiva la sua battaglia democratica e antiprotezionista non come un fatto puramente nazionale, o peggio regionale, ma nel quadro del grande confronto tra i due sistemi che si contendevano la supremazia nel mondo: il sistema liberista e democratico, che faceva capo all’Inghilterra, e il sistema tedesco, protezionista e autoritario. È evidente, sin dal primo manifestarsi nel 1900 di questa sua visione, la diretta influenza delle idee, ben note a Salvemini, che il Pareto e i radicali liberisti andavano sostenendo ormai da un decennio. Logica conseguenza era la sua netta posizione, sostenuta col consueto vigore polemico e in perfetta concordia di vedute con i liberisti, per il distacco dell’Italia dalla Triplice Alleanza e per una politica d’intesa con l’Inghilterra e la Francia.
    Salvemini delineava con grande lucidità il suo pensiero sin dal primo scritto di politica estera, pubblicato sulla «Critica sociale» del I maggio 1900, e lo veniva via via precisando e accentuando nei successivi interventi, in occasione della conferenza di Algesiras (1906) e dell’annessione della Bosnia ed Erzegovina da parte dell’Austria-Ungheria (ottobre 1908)[1]. È anzi proprio sul terreno della politica estera, dove naturalmente le ragioni della politica prevalgono su quelle della lotta sociale, che si manifesta prima e più nettamente il distacco di Salvemini dalle posizioni ideologiche e politiche del socialismo italiano e internazionale.


    Noi, oggi, - scriveva nel 1908 sulla «Critica sociale» - non solo nell’interesse dell’Italia, ma nell’interesse del proletariato internazionale, dobbiamo desiderare la guerra, se altra via non esiste per tutelare i nostri interessi e la nostra dignità. Perché la guerra significherebbe oggi la vittoria dell’Inghilterra sulla Germania: cioè 1) l’obbligo imposto alla Germania dall’Inghilterra di accettare il principio del libero scambio; 2) l’obbligo imposto dall’Inghilterra alla Germania di non oltrepassare più una data misura di spese militari; 3) il fallimento del cesarismo e del militarismo in Germania e il trionfo in questo paese di un regime francamente democratico. La guerra d’oggi riparerebbe ai nefasti effetti militaristi, protezionisti, antidemocratici della vittoria tedesca del 1870. Non mai come in questo momento l’Inghilterra è stata, come l’antica Roma, portatrice al mondo intero di feconda civiltà. Non mai come in questo momento la democrazia ha dalla guerra tutto da guadagnare[2].


    E criticando, in polemica col socialista triestino Angelo Vivante, l’acquiescenza dei socialisti austriaci di fronte all’annessione della Bosnia ed Erzegovina, estendeva a un ambito internazionale la sua critica al corporativismo dei gruppi privilegiati operai:


    Le classi proletarie degli stati (…) proletari, devono tenere bene aperti gli occhi dinanzi all’internazionalismo dei proletari più evoluti e più potenti; affinché non avvenga ad esse quel che avvenne ai selvaggi dell’America, che credettero all’internazionalismo degli amici di Cristoforo Colombo, i quali dicevano: «Viva la libertà, semo fratelli», e davano vetri rotti in compenso di oro (…). Una Internazionale, in cui tutti non fossero uguali, sarebbe una Internazionale di gruppi oppressori – anche se operai – e di gruppi oppressi[3].


    Neppure Leonida Bissolati, il più vicino tra i riformisti, su questo terreno, alle idee di Salvemini, si spingeva allora tanto innanzi, almeno quanto alle conseguenze pratiche da trarne sul piano della politica estera, nel coniugare il socialismo con l’idea di nazione, beninteso nell’originario concetto democratico, assolutamente scevro d’ogni inflessione nazionalistica[4]. La lotta di classe del proletariato confluiva e finiva per identificarsi, nel pensiero di Salvemini, con la lotta per il progresso economico e civile del paese, e per l’affermazione degli interessi generali e della posizione dell’Italia nel concerto degli Stati più evoluti: certo nel pieno rispetto del principio di nazionalità, ma anche secondo il classico criterio dell’equilibrio tra le potenze, come apparirà più chiaramente, dopo la rottura col Partito socialista, in occasione dell’impresa libica e dell’intervento nella guerra mondiale.
    Su questo orizzonte internazionale si staglia più nitidamente il contrasto di idee tra Salvemini e il riformismo turatiano. Anche nella concezione di Turati, e di quei socialisti che con lui formavano quello che si potrebbe già definire il riformismo di sinistra, la lotta di classe si stempera in una dialettica di lungo periodo, che si svolge senza antagonismi radicali, in una linea di sostanziale continuità con la tradizione nazional-democratica del Risorgimento, e tende a ricomporsi nella visione dell’interesse generale del paese. Ma la lotta di classe resta pur sempre il principio fondamentale al quale ogni valutazione e ogni prospettiva d’azione politica va rigorosamente riferita. La logica dell’opera di Turati è tutta interna all’esperienza del movimento operaio, agli interessi del proletariato e della sua ascesa, ed è calata principalmente nella lotta sociale, di cui la politica è funzione. Da ciò derivano il suo diffidente disinteresse per la politica estera, intesa nei termini tradizionali dei rapporti tra le potenze, il convinto internazionalismo, l’opposizione all’impresa libica e all’intervento nella guerra mondiale, l’acuta e immediata percezione – che a Salvemini era negata – delle conseguenze catastrofiche che ne sarebbero venute per il movimento operaio e socialista e per le sorti della democrazia in Italia.
    In Salvemini invece, anche negli anni della sua prima e più convinta adesione al socialismo marxista, il materialismo storico e il principio della lotta di classe si integrano in una cultura di forte spessore illuministico e democratico, assai più incline di quanto non fosse la cultura media dei socialisti a cogliere il valore autonomo della politica, l’importanza delle istituzioni, l’efficacia determinante delle idee e la funzione degli intellettuali (e a questo proposito è significativa la profonda suggestione che esercitavano su Salvemini il Tocqueville de L’ancien régime et la révolution e il Taine delle Origines de la France contemporaine).
    È ben vero che alcuni primi scritti, come il saggio su Molfetta (1897), e lo stesso Magnati e Popolani, s’ispiravano ad una visione essenzialmente classista, ma già in quello stesso torno di tempo, nel 1898, di fronte ai moti sociali per il carovita e alla dura reazione del governo Di Rudinì, propugnava un’azione rivoluzionaria che, volgendo a un fine politico l’«istinto rivoluzionario» delle masse, doveva mirare all’abbattimento della monarchia e all’instaurazione della repubblica[5]. «Se i repubblicani ci fossero, – gli obiettava Turati – certo la massa operaia e noi tutti li aiuteremmo. Ma non possiamo né crearli né prendere il loro posto»[6]. Il contrasto rivela nitidamente la diversa concezione del ruolo e delle prospettive del movimento operaio e socialista.


    Io non credo – commentava Salvemini – che in Italia oggi sia il caso di parlare di socialismo; bisogna contentarsi di sbarazzarsi della monarchia, del militarismo, della corruzione burocratica e parlamentare, del dominio dei latifondisti. In Italia oggi un partito socialista è inutile; in Italia oggi ci vuole un partito rivoluzionario serio e risoluto, cui unico scopo sia la distruzione della monarchia. Io credo che questo partito presto si formerà[7].


    A questo scopo, in segreta intesa con Arcangelo Ghisleri, iniziava un’intensa attività pubblicistica, e a tessere le file, seguendo una tattica che oggi definiremmo «entrista», per spostare il Partito socialista e il Partito repubblicano su una linea rivoluzionaria intransigente, avente per obiettivo la repubblica democratica, e giungeva sin a tracciare nel gennaio del 1900 un piano insurrezionale alquanto fantasioso, completo di programma per il costituendo governo provvisorio, la cui presidenza – proponeva Salvemini – doveva essere offerta a Maffeo Pantaleoni![8]. Il vero pericolo – ammoniva Salvemini nella primavera del 1899 – era che si rinnovassero «gli errori del 1848 francese», quando «il proletariato si ubriacò della vittoria di un giorno, pretese da un momento all’altro la repubblica sociale e spaventò col suo incoerente socialismo la stessa media e piccola borghesia, che da radicale diventò reazionaria (…)». Ad evitare tale pericolo occorreva «insistere sempre sull’idea che in Italia in questo momento non si tratta di risolvere la questione sociale generale, ma una questione politica speciale». Altrimenti, senza questa preparazione psicologica, se il proletariato si trovasse improvvisamente «preso» da una crisi politica, «rimarrebbe disorientato, e avvezzo a non occuparsi che della questione sociale, si butterebbe a far scioperi, domanderebbe le otto ore, il diritto al lavoro, la socializzazione della terra e tutte quelle altre belle cose, di cui tanto si dilettano i nostri dottrinari; e trasformerebbe la crisi politica in una deplorevole crisi sociale»[9].
    La prospettiva di Salvemini è qui tutta volta e uno sbocco rivoluzionario della crisi di fine secolo, che egli ritiene possibile e imminente. Ma essa rivela il fondo del suo pensiero. Come egli stesso avvertiva lucidamente, per il riformismo turatiano la rivoluzione deve considerarsi «un fatto economico», per Salvemini è invece «un fatto politico, il quale sostituisce un nuovo ordinamento giuridico all’ordinamento vecchio, che era in contrasto con i bisogni economici del paese»[10]. Il problema, osservava nel 1903,


    è di sapere su quali riforme dobbiamo oggi concentrare le nostre forze. Ora il Turati raccoglie tutte le sue forze, per dottrinarismo socialista, sulle leggi sociali (contratto di lavoro, lavoro delle donne e dei fanciulli, probiviri, ecc.); le quali leggi sociali possono essere un lusso dei paesi molto evoluti nella vita industriale e ivi sono sentite e richieste dalla classe operaia; in Italia, invece, i novantotto centesimi della classe operaia non sente la necessità delle leggi sociali, che la difendano dallo sfruttamento, ma sarebbe ben lieta di lasciarsi sfruttare lavorando e guadagnandosi quel tanto che è necessario per non esser costretta ad emigrare o a morir di fame.


    Turati, generalizzando le condizioni degli operai milanesi, è destinato a un terribile insuccesso. «Le riforme oggi necessarie in Italia son le riforme doganali, tributarie, amministrative, ecc.»[11]. E naturalmente il suffragio universale, chiave di volta del riscatto del Meridione.
    Il primato della politica, la priorità, quasi una contrapposizione, degli obiettivi politici rispetto a quelli sociali, delle riforme «politiche» volte all’interesse generale del paese (naturalmente in primo luogo delle classi popolari ma nell’ambito del progresso economico e civile della nazione nel suo complesso) sulle riforme sociali e sull’azione volta a elevare le condizioni materiali e l’organizzazione di classe del proletariato (e si pensi alla polemica contro le «oligarchie operaie»), ritorna sempre come un filo conduttore del pensiero e dell’opera di Salvemini. V’è una coerenza logica tra questa impostazione e il suo empirismo. Perseguire mutamenti radicali immediati a breve scadenza, restando aderenti alle condizioni fattuali, significa porsi nella dimensione della politica, nella quale soltanto è possibile forzare il processo storico, usando le leve del potere. La sfera dell’azione economica e sociale è invece quella propria di un processo graduale, che si svolge nei tempi lunghi, attraverso contraddizioni, deviazioni, pause e anche regressi all’interno di una tendenza evolutiva generale. La dimensione privilegiata di Salvemini è dunque quella della politica sensibile naturalmente alla sociologia del Pareto e aperta a recepire la teoria della «classe politica» di Gaetano Mosca[12], il concetto insomma che non tanto nei rapporti di produzione e nella lotta tra le classi sociali, ma piuttosto nelle idee e nei comportamenti nelle élites dirigenti va ricercata la chiave principale delle vicende politiche e del processo storico. A questo suo orientamento di pensiero si connette chiaramente il tentativo di costituire, prima attorno alla «Voce», poi con «L’Unità», una nuova élite, designata a formare il nucleo di un nuovo partito e a preparare i quadri dirigenti che nel giro di un decennio avrebbero dovuto inserirsi in tutti i posti chiave del paese[13].
    Il concetto originario di lotta di classe si andava così scolorando nel suo pensiero, ed era inteso in un significato sostanzialmente diverso da quello marxista. Ciò che per Marx e il socialismo marxista costituiva il principio informatore di tutta una concezione della società e della storia, la quale postulava l’idea della funzione storica liberatrice del proletariato, e doveva quindi ispirare la teoria e la prassi del movimento operaio, si riduceva a criterio discriminante di una scelta di campo sociale e assumeva un valore essenzialmente strumentale. La lotta di classe si configurava sempre più chiaramente in Salvemini come un metodo, che doveva guidare il calcolo e la ricerca delle forze sociali potenzialmente disponibili per attuare, contro la resistenza dei ceti privilegiati (e anche contro le «oligarchie operaie») le riforme «politiche» del suo programma democratico e liberista.

    (...)



    [1] Tutti questi articoli si possono leggere in Gaetano Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915, a cura di Augusto Torre (Opere, III-1), Feltrinelli, Milano 1963, pp. 17-20, 25-90. Sulla concezione liberista in una prospettiva europea di ampio respiro, cfr. le dense e penetranti pagine di Vivarelli, Liberismo, protezionismo, fascismo cit., specie pp. 180-7, 192-4, 199-205.
    [2] Salvemini, Come siamo andati in Libia cit., p. 42.
    [3] Ivi, pp. 87-90.
    [4] È significativo che gli scritti e discorsi di Bissolati sulla politica estera fossero raccolti e pubblicati a cura di Salvemini, come risulta dal suo carteggio (ma il nome scomodo del curatore fu allora omesso dall’editore): Leonida Bissolati, La politica estera dell’Italia dal 1897 al 1920, Treves, Milano 1923. Per le posizioni di Bissolati sulla politica estera cfr. Ivanoe Bonomi, Leonida Bissolati e il movimento socialista in Italia, Sestante, Roma 1945 (I ed. Cogliati, Roma 1929), pp. 105-17; e Leo Valiani, La dissoluzione dell’Austria-Ungheria, Il Saggiatore, Milano, nuova ed. 1985, passim. Dell’atteggiamento dei socialisti verso la politica estera un quadro lucido e informato è tracciato da Enrico Decleva, Anna Kuliscioff, Turati e la ricerca di una politica estera socialista (1900-1915), nel volume di autori vari, Anna Kuliscioff e l’età del riformismo, Mondo Operaio-Ed. Avanti!, Roma 1978, pp. 202-29.
    [5] Carteggi, I, pp. 71-7, Salvemini a Carlo Placci, 27 maggio, 15 giugno e 28 agosto 1898. Per quanto segue cfr. Bütler, Gaetano Salvemini cit., pp. 90-118.
    [6] Carteggi, I, pp. 70-1, 4 maggio 1898.
    [7] Ivi, p. 77, Salvemini a Carlo Placci, 28 agosto 1898.
    [8] Ivi, carteggio tra Salvemini e Ghisleri negli anni 1898-1901, ad indicem; il piano insurrezionale è nella lettera a Ghisleri del 30 gennaio 1900, ivi, pp. 135-8; cfr. inoltre le due lettere, molto importanti, di Salvemini a Napoleone Colajanni del 7 ottobre 1898 e 15 agosto 1899, in S. Massimo Ganci, Tre lettere inedite di Gaetano Salvemini a Napoleone Colajanni, in «Archivio storico per la Sicilia orientale», LXIV (1968), fasc. 3, pp. 312-9.
    [9] Mentre la reazione «va perdendo fiato» («Avanti!», 27 marzo e 15 aprile 1899), in MSQM, specie pp. 118-9.
    [10] Commenti forse inutili alle «dichiarazioni necessarie» («Critica sociale», 16 febbraio 1900), in MSQM, p.147 nota (correggendo sull’originale un errore introdotto nel testo dell’edizione delle Opere).
    [11] Carteggi, I, p. 282, Salvemini a Carlo Placci, 21 agosto 1903. Appare qui evidente l’originaria influenza di Arturo Labriola su queste posizioni, che Salvemini andò poi sviluppando in forma più ampia e articolata in numerosi scritti degli anni successivi al congresso di Imola: cfr. in particolare Nord e Sud nel Partito socialista italiano (1902), e Riforme sociali e riforme politiche (1904), in MSQM. Sulle idee del Labriola mi limito a rinviare a Dora Marucco, Arturo Labriola e il sindacalismo rivoluzionario in Italia, Fondazione L. Einaudi, Torino 1970, specie pp. 130-42.
    [12] Bobbio, Maestri e compagni cit., pp. 35-7, 64-8.
    [13] Il disegno di Salvemini, che emerge chiaramente dai suoi scritti e dalle pagine dell’«Unità», è esposto esplicitamente in alcune lettere. Cfr. in particolare la lettera dell’estate 1911 a Giuseppe Lombardo Radice, pubblicata da Lucio Lombardo Radice, Incontri con Gaetano Salvemini, «Il Contemporaneo», IV, ser. II, 17, 14 settembre 1957 (cit. in Villari, Il meridionalista cit., p. 142, e in Francesco Golzio e Augusto Guerra, Introduzione a La cultura italiana del ‘900 attraverso le riviste, V, «L’Unità», «La Voce politica», Einaudi, Torino 1962, p. 49); Salvemini a G. Lombardo Radice, 20 maggio 1910, e a Prezzolini, 20 settembre 1911, in Carteggio, I, pp. 441-2, 501-2; Salvemini a Rodolfo Savelli, 23 maggio 1912, in Carteggio 1912-1914, pp. 27-8.
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    4. Salvemini impolitico: il distacco dal Partito socialista e l’astrattezza del concretismo



    In questa progressiva divaricazione di idee e di programmi maturava il suo distacco dal Partito socialista. L’interpretazione postuma di Salvemini, che collega la sua decisione col raggiungimento del suffragio quasi universale, offerto inaspettatamente da Giolitti nel 1911, non trova conferma nei documenti.


    Da ora in poi, - scrisse nel 1955 – non avevo più bisogno di domandare ai socialisti del Nord che conquistassero quanto ci era caduto sulla testa come un bolide dal cielo. In questa nuova fase della vita nazionale, i socialisti meridionali dovevano far tutto da sé e non impetrare nessuna elemosina di benevolenza dai socialisti settentrionali. D’altra parte, io avevo perduto ogni speranza di interessare i socialisti del Nord a nessun problema di giustizia che interessasse le classi lavoratrici meridionali[1].


    Prescindendo da questi giudizi drasticamente negativi sul ruolo del Partito socialista nella conquista del suffragio universale e rispetto al Meridione, che sono quanto meno storicamente inesatti, si deve rilevare che nelle lettere e negli scritti del 1911-1912, posteriori all’impegno di Giolitti per la riforma elettorale, in cui Salvemini manifesta il proposito e poi spiega la decisione di uscire dal partito, tra le motivazioni non vi è alcun riferimento al suffragio universale. Altre sono le ragioni sostanziali: il contrasto, come si è visto, con il «riformismo delle cooperative e delle amministrazioni comunali» e delle «oligarchie operaie»; la convinzione che ormai nulla più ci si potesse attendere dal gruppo dirigente riformista, e da un partito, che sembrava aver esaurito la sua funzione storica e perduta l’originaria vitalità, e da ultimo, il diverso atteggiamento di fronte all’impresa libica, che non è di per sé determinante, ma sopravviene – a rottura di fatto già decisa – a rendere più evidente e più profondo un contrasto insanabile di concezioni e di prospettive politiche.
    Ma se dunque la conquista del suffragio universale non determina la decisione di Salvemini, è vero per converso che tra il suo distacco dal Partito socialista, e la realizzazione, proprio in quel momento, finalmente, della grande riforma alla quale aveva legato principalmente la sua tenace battaglia politica e che apriva una fase storica nuova, a lungo attesa con impazienza, si configura un nesso di segno per così dire, negativo, denso di significato. In questo nesso negativo si misura tutta la distanza che intercorre tra il prodigioso fervore morale e intellettuale e la lungimiranza che ispirano il suo disegno ideale di riforma della società, dello Stato, e l’incapacità di tradurlo sul terreno della politica mediante il calcolo delle forze reali e le necessarie mediazioni; e si rivela, in ultima analisi, quanto vi sia di astratto nel concretismo salveminiano.
    Con l’uscita dal Partito socialista Salvemini rinunciava di fatto ad utilizzare il solo strumento politico, che gli avrebbe consentito di raccogliere i frutti del successo, che veniva a coronare una lunga battaglia condotta all’interno del partito e sul terreno della questione meridionale. Nonostante i suoi attacchi polemici, aspri e intemperanti – culminati nella famosa intervista al «Giornale d’Italia» del 10 giugno 1910[2] - proprio a lui era stata affidata la relazione sul suffragio universale, punto principale in discussione, dopo la relazione politica generale, al congresso nazionale di Milano del Partito socialista (ottobre 1910)[3]. Certo egli non poteva attendersi un consenso totale e convinto a tutte le sue argomentazioni, da parte di un’assemblea che rispecchiava una realtà politica e sociale così composita, qual era il movimento socialista. Ma sul punto essenziale le sue idee si erano imposte, ed il congresso era stato praticamente unanime nel deliberare che il suffragio universale dovesse costituire il primo e principale impegno programmatico nell’azione del partito[4].
    Questa posizione dei socialisti ebbe certo un peso decisivo nel provocare prima la caduta del ministero Luzzatti, proprio sulla questione della riforma elettorale, e quindi nell’indurre Giolitti ad impegnarsi per un allargamento del diritto di voto che veniva quasi a coincidere con il suffragio universale[5]. Per quanto in passato il partito si fosse mostrato alquanto incerto e tiepido su tale problema, per ragioni complesse, non infondate né futili, restava pur vero il fatto che per il suffragio universale, che sin dalle origini figurava tra i suoi principi programmatici, si era impegnato con crescente convinzione, a partire dal congresso di Firenze del 1908 e dalle elezioni politiche del 1909. In tale occasione il Partito socialista aveva posto il suffragio universale al primo punto del programma elettorale, principalmente per iniziativa della Confederazione Generale del Lavoro[6], vale a dire dei rappresentanti di quei gruppi operai organizzati soprattutto nel Nord, ai quali Salvemini guardava con tanta diffidenza. Salvemini era l’indiscusso protagonista della battaglia per il suffragio universale, e a questo suo ruolo preminente Turati aveva tributato larghi riconoscimenti[7]. Mai come in quel momento il suo prestigio era stato così alto e la sua influenza così efficace nel partito, e, per mezzo di esso, nella politica italiana. Per quanto profonde fossero le sue divergenze col gruppo dirigente riformista, esse non giustificano il senso acuto di frustrazione, di sfiducia e di isolamento nei confronti del partito, la decisione di uscirne che proprio allora andava maturando nel suo animo[8], mentre la spiegazione va ricercata in ragioni soggettive profonde, di carattere ideologico e psicologico, - diverse se non estranee alla logica politica.
    Il fatto che il suffragio universale fosse giunto inaspettato, come «un pranzo abbondantissimo che ci sia offerto alle otto del mattino», e proprio dalle mani di Giolitti, non come risultato di una lotta condotta attraverso una vasta mobilitazione popolare[9], era certo motivo di rammarico e di recriminazione da parte di Salvemini, ma sarebbe stato ragione ben futile per giustificare una reazione di rigetto e di sdegnoso disimpegno. È vero che Salvemini, pochi mesi avanti, nell’ottobre 1910, intervenendo al congresso di Milano sulla relazione politica di Turati, se n’era uscito con l’affermazione:


    Ci sono necessità morali superiori alle stesse riforme generali. Se il suffragio universale ci fosse offerto dall’onorevole Giolitti, ma l’onorevole Giolitti ponesse la questione di fiducia sul suffragio universale, io negherei la fiducia e respingerei il suffragio universale perché il suffragio universale concesso a quel patto e da quelle mani nascerebbe disonorato[10].


    Ma era un argomento politicamente futile, o meglio, come ribatteva Turati, una dichiarazione ispirata da amore di paradosso[11]. E infatti lo stesso Salvemini, dopo la famosa metafora del «pranzo offerto alle otto del mattino», precisava:


    Ad ogni modo, anche così anticipato e direi quasi violentato, il suffragio universale è una così importante riforma, contiene in sé una somma così grande di benefiche possibilità, che sarebbe errore enorme, sarebbe delitto respingerlo e disinteressarsene sol perché non è più precisamente quello che avevamo desiderato. Comunque ottenuto, il diritto elettorale è un grande strumento di educazione politica (…). Ma io non sento nessuna voglia di disperarmi, se le cose minacciano di andare più lisce e più alla svelta. Il lavoro che non abbiamo saputo o voluto fare per spingere le masse a conquistare il diritto elettorale, saremo costretti a farlo per educarle ad adoperarlo.


    D’altra parte la riforma non era ancora approvata, e molto aveva da temere dagli avversari e più dagli amici improvvisati[12].
    Nondimeno proprio a questo punto del ragionamento, contraddittoriamente, riproponeva la sua intransigente pregiudiziale antigiolittiana e meridionalistica, che è alla radice di quello che sarebbe soltanto un formidabile errore di prospettiva politica, se non fosse anche ed essenzialmente l’espressione del suo distacco dal movimento operaio e socialista. «Concludendo, mentre la strada di noi socialisti antigiolittiani e specialmente meridionali non può essere oggi in nessun modo quella della fiducia nell’on. Giolitti, questa fiducia è logica, è doverosa oggi in quei socialisti del Nord, che non sono mai stati convintamente antigiolittiani, e specialmente nei loro deputati. È un dissidio, allo stato presente delle cose, inconciliabile». Ai socialisti del Nord, e specie a Bissolati diceva: «Lasciate noi soli laggiù allo sbaraglio di una lotta senza quartiere, che ci è necessaria per promuovere la resurrezione morale della terra nostra. Voi fate pure quest’altra prova di ministerialismo, per conquistare più a noi che a voi il suffragio universale»[13].
    Era una conclusione paradossale e contraddittoria, che denunciava un frantumarsi della visione politica di Salvemini e la sua astrattezza[14]. Questa sorta di gioco delle parti ricorda quello che un decennio più tardi sarà vagheggiato da massimalisti e comunisti, che in buona sostanza dicevano ai riformisti: voi opportunisti fate la vostra parte, andate al governo e avrete fatto il vostro dovere salvandoci dal fascismo; e lasciate che noi, incontaminati, combattendovi, denunciando il vostro tradimento e screditandovi presso la classe operaia, prepariamo la rivoluzione. Nella realtà la divisione delle parti era una divisione delle forze in opposti schieramenti, dalla quale tutti uscivano perdenti o quanto meno indeboliti. Così Salvemini rompeva col Partito socialista proprio nel momento in cui con maggiore efficacia avrebbe potuto operare nelle sue file; quando era finalmente giunto il tempo di scendere in campo con lena rinnovata facendo leva – questo era il principio chiave della sua strategia – sulle masse meridionali, le quali riscattate dalle camorre use a spadroneggiare con la violenza dei mazzieri e la complicità dei prefetti, si accingevano ad entrare con tutto il loro peso nella vita politica del paese grazie al suffragio universale. Non era forse questa la condizione che avrebbe consentito alle classi contadine meridionali di controbilanciare nel partito l’influenza fino allora prevalente delle «oligarchie operaie» privilegiate del Nord, e di modificare gli equilibri politici nel paese e nel Parlamento, consentendo l’attuazione delle riforme generali? Con l’uscita dal Partito socialista andava invece smarrita la visione complessiva, nazionale, del movimento democratico delle classi lavoratrici, la prospettiva di uno sbocco politico positivo, necessariamente unitario. L’azione di Salvemini sospingeva piuttosto le masse meridionali nell’isolamento e introduceva elementi di divisione e di confusione, anche tra i contadini della sua Puglia che pure amava e conosceva, ma dei quali ormai non condivideva più la concreta esperienza e non comprendeva i sentimenti politici più autentici. Questa incomprensione doveva toccarla con mano Gino Luzzatto, andando a Bitonto e Terlizzi a preparare la candidatura di Salvemini in quel collegio elettorale: una candidatura formalmente proposta dalla federazione dei contadini di Bitonto, e che le sezioni socialiste si impegnavano a non ostacolare, rinunciando a presentare una candidatura socialista, e anzi a non intervenire nella lotta elettorale, condizione questa posta dallo stesso Salvemini, che non voleva in alcun modo apparire candidato del Partito socialista.


    Capisco che a te piacerebbe una lotta aperta contro il Partito socialista ufficiale e contro l’«Avanti!», - osservava Luzzatto col suo pacato equilibrio pieno di realistico buonsenso – e che forse da questa lotta non ti verrebbe alcun danno elettorale. Ma devi anche preoccuparti dello stato d’animo di questi contadini, che han sentito parlare per la prima volta di politica da socialisti, per i quali organizzazione e socialismo son la tessa cosa. Per questa gente semplice e semplicista un conflitto col Partito socialista, una candidatura socialista contrapposta alla tua porterebbero una tale confusione d’idee, da cui difficilmente riuscirebbero ad uscire ed a trovare la strada per una attività politica efficace. Non ti domandiamo dunque nessuna rinuncia: ma cerchiamo soltanto, con l’astensione silenziosa delle sezioni ufficiali, di evitare un conflitto inutile e dannoso[15].


    Di fatto poi, nel corso della dura lotta elettorale nei due collegi di Bitonto e Molfetta, caratterizzata da violenze e brogli d’ogni sorta che ottennero lo scopo di impedire la sua elezione, Salvemini dovette cercare e ricevere l’appoggio dei socialisti e dell’«Avanti!», che del resto si era già manifestato in partenza nel modo più esplicito ed efficace, con la rinuncia a contrapporgli candidati socialisti. Una soluzione alquanto bizantina e non priva di ambiguità, che testimonia di per sé in quali difficoltà e contraddizioni insolubili andasse a cacciarsi Salvemini, imboccando una strada, che non conduceva all’unità tra proletariato del Nord e contadini del Sud (che pure per primo acutamente aveva indicato) e neppure all’unità di tutte le forze democratiche del Mezzogiorno, ma piuttosto la strada della separatezza delle masse meridionali, della sfida orgogliosa e solitaria e della polemica intransigente contro tutti.
    Coglieva certo nel segno, ma solo in parte, Giuseppe Prezzolini, quando gli scriveva, nell’ottobre 1911: «La politica è raggiungimento di fini: e il tuo (come il nostro) moralismo è un impaccio alla politica. Se tu volessi davvero il suffragio saresti giolittiano; non lo sei, perché più della politica senti la vita morale»[16]. Di non esser tagliato per la politica Salvemini si renderà meglio conto attraverso le delusioni e le sconfitte degli anni successivi e la frustrante esperienza parlamentare del 1919-1921. Ne uscirà con un disgusto insuperabile e definitivo per la politica attiva, appartandosi per quattro lunghi anni cruciali, nei quali si decidevano le sorti del paese, chiuso in un corrucciato isolamento, dal quale valse alfine a trarlo, dopo il delitto Matteotti, un impulso irrefrenabile, morale prima che politico, di ribellione contro l’oppressione e la violenza della dittatura fascista.
    Salvemini impolitico, dunque, per la sua intransigenza morale e intellettuale, e anche, occorre aggiungere, per quel suo carattere egocentrico, ombroso e intollerante, che era il risvolto di un animo generoso e appassionato, e che contribuiva non poco ad offuscare la lucidità e l’equità del suo giudizio sugli uomini e sulle cose, e a seminare d’incomprensioni e di ostilità i suoi rapporti umani e politici. Ma quell’intelligenza unilaterale e consequenziaria e quella rigidità morale, che non gli consentivano di dominare la trama complessa dei problemi e delle forze reali e di destreggiarsi nella lotta politica, erano strumenti penetranti e sensibilissimi di analisi spregiudicate e originali, di intuizioni profonde e lungimiranti, che non si fermavano alla superficie, non erano condizionate da preoccupazioni di opportunità, non soggiacevano ai miti e agli schemi ideologici, al peso delle opinioni comuni consolidate, ma illuminavano della luce più cruda i comportamenti politici, gli interessi concreti, il tono morale che ispiravano l’azione degli uomini, dei gruppi sociali, dei movimenti politici.

    (...)



    [1] MSQM, p. 677.
    [2] Ivi, pp. 354-8.
    [3] La decisione di porre in primo piano, al Congresso di Milano, la questione del suffragio universale, affidandone la relazione a Salvemini, rientrava nel disegno di svolta politica, perseguito da Turati, come vedremo, sin dalla primavera del 1910. Il gruppo dirigente turatiano contava sull’appoggio della sinistra riformista di Salvemini e Modigliani per contrastare la dissidenza della destra di Bissolati e Bonomi e la sinistra rivoluzionaria e integralista: una situazione che rafforzava il ruolo politico di Salvemini. Cfr. le lettere della Kuliscioff a Salvemini, del 28 gennaio, 5 febbraio, 17 maggio, 8 agosto, 16 settembre 1910; e di Salvemini a G. Lombardo Radice, 7 luglio 1910, in Carteggi, I, passim; e Turati-Kuliscioff, Carteggio, III, pp. 284, 286-7, 291 (5-7 luglio 1910).
    [4] Per il dibattito e i documenti approvati al congresso di Milano cfr. Luigi Cortesi, Il socialismo italiano tra riforme e rivoluzione. Dibattiti congressuali del Psi. 1892-1921, Laterza, Bari 1969, pp. 337-402; e Filippo Turati, Le vie maestre del socialismo, a cura di Rodolfo Mondolfo, II, ed. riveduta e ampliata da Gaetano Arfè, Morano, Napoli 1966, pp. 163-99; la relazione e l’intervento di Salvemini in MSQM, pp. 391-435 e 445-55.
    [5] Su queste vicende cfr. la dettagliata ricostruzione di Hartmut Ullrich, La classe politica nella crisi di partecipazione dell’Italia giolittiana. Liberali e radicali alla Camera dei Deputati, 1909-1913, Roma, Camera dei Deputati, 1979, II, in particolare pp. 782-5, per quanto riguarda le motivazioni dell’iniziativa di Giolitti, pur nell’ambito d’una impostazione che, non proponendosi di considerare specificamente il Partito socialista, ne sottovaluta il ruolo. L’azione, le idee e gli umori dei socialisti sono attentamente analizzati, sulla scorta del carteggio Turali-Kuliscioff, da Brunello Vigezzi, Giolitti e Turati. Un incontro mancato, Ricciardi, Milano-Napoli 1976, parte I, che mette acutamente in luce e il graduale convergere del partito sulla rivendicazione immediata del suffragio universale, per superare l’impasse politico e rilanciare la politica delle «grandi riforme»; e il ruolo decisivo dei socialisti, in particolare di Turati, nella battaglia parlamentare per la riforma elettorale, che determinò la caduta del ministero Luzzatti.
    [6] La Confederazione Generale del Lavoro negli atti, nei documenti, nei congressi, 1906-1926, a cura di Luciana Marchetti, Milano, Ed. Avanti!, 1962, p. 91 (Consiglio direttivo e Consiglio nazionale, 21-22 febbraio 1909).
    [7] Turati, Le vie maestre del socialismo cit., pp. 153, 185; e l’editoriale attribuibile allo stesso Turati, Primo maggio di rinnovamento, in «Critica sociale», XX, 9, 1 maggio 1910, che annuncia la svolta politica del riformismo turatiano.
    [8] Stato d’animo e propositi che manifesta ripetutamente nelle lettere del 1910 (cfr. Carteggi, I, passim), anche mentre si accinge a svolgere la relazione sul suffragio universale al congresso di Milano.
    [9] Gaetano Salvemini, Il discorso del primo maggio, «La Voce», 27 aprile 1911, ripubblicano in Il ministro della mala vita e altri scritti sull’Italia giolittiana, a cura di Elio Apih (Opere, VI-1), Feltrinelli, Milano 1962, p. 236.
    [10] MSQM, p. 452.
    [11] Turati, Le vie maestre del socialismo cit., p. 187.
    [12] Salvemini, Il ministro della mala vita cit., pp. 236-8.
    [13] Ivi, pp. 238-42.
    [14] Cfr. le acute osservazioni di Arfè, Storia del socialismo cit., pp. 142-3, 160; e di Garin, Gaetano Salvemini nella società italiana del tempo suo, in AA. VV., Gaetano Salvemini, Laterza, Bari 1959, pp. 180-1.
    [15] Carteggio 1912-1914, pp. 275-7, 2 dicembre 1912; e cfr. pure lettera di Giovanni Modugno, 3 dicembre 1912, ivi, pp. 277-80. Ancora dieci anni più tardi, annunciandogli la decisione degli amici di Molfetta di rinunziare alla lotta elettorale sul nome di Salvemini, se avesse insistito a non inquadrarsi in una lista socialista, il fedelissimo Giacinto Panunzio osservava: «Voi siete, ripeto, adorato come e forse più che nel ’13 (…) ma non riuscite a prendere atto che, salvo pochissimi che siamo all’altezza di comprendere le nuances del vostro pensiero critico, il grosso vi conosce, vi ama e vi vota come: Gaetano Salvemini e come socialista. E questo è lo stato d’animo della massa. Non dunque come Gaetano Salvemini soltanto» (Carteggio 1921-1926, pp. 220-1, 6 luglio 1923). Sulle candidature e sulla campagna elettorale di Salvemini del 1913, di cui il carteggio e gli scritti suoi recano ampia e vivida testimonianza, cfr. Tagliacozzo, Gaetano Salvemini cit., pp. 125-36; e Bütler, Gaetano Salvemini cit., pp. 375-86, anche una precisa ricostruzione del famoso episodio della candidatura proposta a Salvemini nel 1914 dalla sezione socialista di Torino, per iniziativa di Angelo Tasca e Ottavio Pastore.
    [16] Carteggi, I, p. 539.
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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini e il Partito socialista

    5. La crisi del socialismo democratico


    I suoi giudizi sul movimento socialista possono anche essere troppo drastici e persino tendenziosi sino al paradosso, ma colgono nel fondo l’impasse cui era giunto il riformismo turatiano. Nella crisi politica, che segna il distacco di Salvemini dal Partito socialista, si riflette la crisi epocale del socialismo democratico in Italia, all’aprirsi d’un lungo periodo storico in cui i termini della lotta sociale e politica e la temperie culturale apparivano profondamente mutati, e tramontava la prospettiva di una graduale elevazione economica e civile delle classi lavoratrici, attraverso lotte anche aspre, ma entro il quadro d’un progressivo allargamento della democrazia. La guerra di Libia era l’episodio che faceva precipitare una crisi che andava maturando da qualche anno. Col congresso di Reggio Emilia il gruppo dirigente riformista si disgregava. Bissolati e Bonomi si separavano per dar vita a un partito di democrazia sociale; Salvemini se n’era già andato per la sua strada; Turati, rimasto in minoranza, perdeva per sempre la leadership del partito, e nonostante il suo grande prestigio personale verrà progressivamente emarginato. Mentre irrompevano nel paese e prendevano il sopravvento nelle classi dirigenti e tra i ceti medi le tendenze autoritarie e aggressive del nazionalismo e dell’imperialismo, la guida del movimento socialista passava nelle mani delle correnti rivoluzionarie e del sovversivismo mussoliniano. Nel dopoguerra sarà l’ora dell’estremismo massimalista e comunista, dell’esaltazione della violenza rivoluzionaria e della «dittatura del proletariato», e quando poi la dura lezione dei fatti indurrà una graduale inversione di tendenza, i segni di incipiente ripresa del socialismo democratico saranno spazzati via dal fascismo. Dall’esperienza della lotta antifascista condotta nella clandestinità, nell’esilio e nella resistenza armata, attraverso i complessi condizionamenti interni e internazionali di uno scontro radicale prolungato, il movimento socialista uscirà indebolito e diviso, succube dell’ideologia leninista-stalinista e subalterno al Partito comunista. Né si può dire che il successivo processo autonomistico del Partito socialista sia valso a recuperare l’originaria ispirazione e il patrimonio storico e ideale del socialismo riformista, nonostante i richiami nominalistici, presto smentiti del resto dalle infatuazioni proudhoniane e dalla demagogia libertaria – non meno estrinseca e strumentale – con le sue immancabili venature nazional-populistiche e autoritarie, che conducono il più recente corso socialista su una rotta antitetica a quella del riformismo turatiano.
    La coscienza d’una crisi profonda, di cui non era dato intravedere vie d’uscita, era avvertita acutamente, con vera angoscia, dal gruppo dirigente riformista[1]. Una nuova fase storica si apriva per il movimento socialista, più ardua e intricata. La fede elementare, le illusioni e gli entusiasmi delle origini s’erano ormai esauriti. «Noi non siamo più dei credenti, - esclamava Turati al congresso di Milano – la nostra, questo è vero, non è più una religione». E una volta conquistate le libertà democratiche essenziali e gettate le fondamenta dell’organizzazione economica e politica, era venuta meno l’idea unica animatrice che conferiva unità ed entusiasmo all’azione socialista, né questa idea unica, questo «unico obiettivo» era possibile crearlo ad arte, mobilitando il partito su una sola grande riforma, fosse pure il suffragio universale, come proponeva Salvemini, o nell’opposizione sistematica al governo. «Noi abbiamo ormai davanti a noi un lavoro di formazione profonda di coscienze, d’istituti, difficile, complesso, lento, molteplice; è perciò che siamo riformisti!»
    Oggi, proseguiva Turati,


    il lavoro del partito impone maggiori fatiche, il metodo è ben altrimenti complesso, e da quando il cosiddetto socialismo utopistico sognava la vittoria della giustizia sociale per decreto di filantropi al governo, e anche da quando il socialismo marxista della prima maniera prometteva ancora esso il paradiso sulla terra mercè quel processo automatico di cose, traboccante rapidamente alla necessaria catastrofe. Ma a tutto questo i fatti hanno recato il loro errata-corrige, e se Marx fosse vivo, Marx che dei fatti era osservatore acutissimo, farebbe egli, ben più ponderosamente che noi non facciamo, il revisionismo di se stesso – egli che si vantava di non saper essere marxista! Così noi non possiamo più promettere il paradiso a breve scadenza, conquistato con un colpo di mano o mediante una rapida evoluzione fatale, mentre tutti sentiamo che la via è lunga, intricata, anzi, che non v’è più una sola via, ma son molti e varii i sentieri dell’esperienza, ai quali ci è giocoforza lasciare talvolta brandelli dei nostri abiti, non solo, ma anche del nostro pensiero e del nostro cuore! Da queste crescenti difficoltà, da questa inevitabile divisione del lavoro nasce la crisi che ci tormenta, nasce il rallentamento della foga, la dispersione delle schiere[2].


    Già all’indomani del congresso di Firenze, Turati aveva denunciato la gravità della crisi. Era necessario restituire all’azione socialista più ampio respiro e unità d’indirizzo, colmare lo iato tra il gruppo parlamentare e le masse, suscitando nuove forze e infondendo rinnovato vigore all’azione del proletariato e del partito. Si dovevano superare le tendenze corporative e particolaristiche, emerse nel movimento operaio e socialista, che ne svilivano l’originaria spinta ideale e la capacità d’iniziativa politica. Respingendo sia l’intransigenza sistematica del «tutto o nulla», sia «la preoccupazione micromane del meno peggio», che diventava «abdicazione e liquidazione di un partito», Turati indicava la strada della mobilitazione delle masse e del partito nella lotta per le grandi riforme, in prima linea il suffragio universale[3], e faceva proprie, nella sostanza, le critiche e le proposte programmatiche e strategiche della sinistra riformista di Salvemini e Modigliani, pur non accogliendo quanto v’era di eccessivo e di ingiusto nella polemica salveminiana contro le «riforme sociali» e le «oligarchie operaie»[4]. Questa posizione riproposta con maggiore lucidità e in forma più organica e incisiva al congresso di Milano, nell’ottobre 1910, non derivava affatto da preoccupazioni tattiche, come qualcuno ha inteso, ma esprimeva un intimo convincimento e scaturiva da un travaglio politico, che di fronte alla crisi di identità e di prospettive e alla caduta di tensione morale, ricercava una via di rigenerazione e di riscossa ispirandosi a quella coerenza con i principi, a quel dovere di rigore e di verità, cui mai Turati verrà meno, senza indulgere a calcoli di opportunità contingente, anche a costo di andare controcorrente e di sacrificare la propria popolarità e il proprio ruolo dirigente nel partito.
    Certo, la tribuna pubblica, e a maggior ragione quella congressuale, non fosse altro che per la sua responsabilità di leader del partito, non gli consentiva di svelare sino in fondo il suo pensiero, e gli dettava necessariamente parole di certezza e di fiducia. Ma quanto fossero profondi il pessimismo, il disorientamento e il senso d’impotenza di Turati e dei suoi più intimi collaboratori lo rivelano i carteggi privati.


    Traversiamo un periodo di vero ribasso del socialismo – scriveva Anna Kuliscioff a Turati[5] - ed avrei desiderato il suo rinascere e fiorire, e di veder ancora prima di morire, che i nostri sforzi pur servirono a qualche cosa. Ma lo vedremo poi? I giovani non vengono, ed i vecchi, non sono più convinti della parte che recitano più o meno bene. Lasciamo un po’ liberi tutti i nostri Mazzoni, Storchi, Pagliari, Salvemini ed altri, i quali, nella loro sincera intransigenza, forse daranno un po’ di ossigeno al partito moribondo, e, chi sa? riesciranno fors’anche di salvarlo da una morte sicura per anemia perniciosa, dovuta all’assenza del proletariato e d’aversi troppo a lungo nutrito di popolarismo vacuo ed asfissiante.


    Il guaio è – osservava per parte sua Turati[6] - che non c’è più barba di socialista che possa ormai, io credo, ricondurci all’entusiasmo delle origini. È un’analisi che si è fatta cento volte e le cause del nostro marasma sono complesse e invincibili. Si fa quello che si può fare, e non è inutile farlo, e nell’avvenire nasceranno chissà quali imprevisti, e avremo fors’anche delle insperate reviviscenze; ma non si vince il destino. Le cose hanno sempre ragione. E la vita si nutre di se stessa, indipendentemente dai risultati sperati, che hanno sempre deluso e deluderanno sempre.


    Ad Anna dopo una conversazione con Treves sembrava di essere rimasta come sotto un brutto segno. «La sua conclusione è che tutto crolla del nostro edificio e che noi rimarremo sepolti sotto le macerie»[7]. Filippo, rispondendole, non si abbandonava «del tutto» al pessimismo di Treves. «Ma quel che egli sente, io lo sento da un pezzo. È proprio così. Il nostro socialismo non può più sostenere la tesi del vecchio marxismo; si sarebbe salvato se il proletariato potesse seguirci nella via del riformismo, ma questo non lo capisce, e ci lascia soli»[8]. «Il tuo gran errore, - ribatteva Anna – e l’errore di tutti quelli che nel socialismo non ci credono più, o non ne sono più convinti, è che il marxismo sia liquidato, e ci manchi la base per ricostruire un Partito socialista coi criteri e coll’ideazione su cui si basano i Partiti socialisti di tutta l’Europa»[9].
    La coscienza d’una crisi irreversibile del socialismo democratico e riformista, del fatale esaurirsi della sua funzione storica, vissuta con la stessa intensità, come una «profonda e dolorosa crisi interiore»[10], maturando attraverso una diversa esperienza di pensiero e di azione politica, conduce Salvemini al definitivo distacco dal partito. Smarrita l’ispirazione ideale originaria e la visione politica unitaria, il partito, alla luce della sua impostazione «concretistica», appariva ormai un aggregato incoerente di tendenze e di gruppi d’interesse diversi e contraddittori. Non cogito, ergo sum, era il titolo d’un articolo che meditava di scrivere. «Cioè se si discutono questioni concrete, appare che il riformismo non esiste o almeno esistono due riformismi inconciliabili l’uno con l’altro, e inconciliabili entrambi col rivoluzionarismo. E allora addio Partito! Messici a discutere di quel che dobbiamo fare, l’unità non è più possibile (…)». Il Partito, che in realtà non esiste – scriveva Turati nell’agosto 1911 – era tenuto insieme soltanto da preoccupazioni elettoralistiche e dal fatto che erano molto più facili le discussioni astratte, che consentivano a «qualunque bestione, con quattro formulette» di imbastire un discorso riformista o rivoluzionario, mentre discutere di questioni concrete richiedeva «studio e conoscenze estese».


    Non cogito, ergo sum. Il giorno in cui ci decidessimo a pensare, dovremmo riconoscere che non esistiamo più. Ma io forse pretendo troppo. I partiti non si suicidano. Nati in un determinato clima storico, tendono a perpetuarsi anche fuori del loro ambiente naturale. In questo sforzo si esauriscono sempre più. Ma è una lenta agonia. Il Partito socialista è entrato in agonia, come vent’anni fa entrò in agonia il Partito repubblicano. È inutile perder tempo a curare i morti. Bisogna creare qualcosa di nuovo, fuori dei vecchi partiti. Che cosa? Non lo sa nessuno. Se lo sapessi, a quest’ora il partito nuovo già esisterebbe. Ma bisogna cercare. Cercando si troverà. Quel che importa per trovare è avere perduta ogni illusione sulla capacità di vita del Partito antico[11].


    La sua percezione della crisi era acuta, ma il giudizio sulle ragioni di essa era unilaterale e riduttivo, rispetto alla complessità e allo spessore del problema. Cercando il partito nuovo nell’approccio empirico ai problemi concreti, fuori però della concreta esperienza del movimento operaio e socialista e della lotta politica organizzata, la sua visione politica si frammentava e si sviava in un’astratta dimensione intellettualistica, senza più riuscire a ricomporsi in una sintesi complessiva, che fosse sicuro orientamento all’azione, e all’intelligenza degli uomini e delle cose. La difficoltà a valutare tutte le implicazioni e le conseguenze dell’impresa libica, l’abbaglio preso nei confronti del torbido demagogismo rivoluzionario del Mussolini socialista, gli equivoci in cui cadde il suo interventismo democratico, il giudizio sommario e liquidatorio, nel quale finirà per accomunare indistintamente, e direi confusamente, i partiti e gli uomini tutti, che erano protagonisti della drammatica crisi del dopoguerra (e un confronto con Turati, che viene spontaneo, offre un efficace termine di paragone) dimostrano quasi un graduale ripiegarsi del suo pensiero, una crescente incapacità a cogliere il significato reale degli eventi e le tendenze di fondo che andavano maturando nel paese. Il tentativo salveminiano per la ricerca di un «partito nuovo» si svolge così con «L’Unità» sul piano della elaborazione e del dibattito delle idee, fecondo di analisi e di proposte, severa palestra di rigore morale e intellettuale, ma sterile ai fini immediati della lotta politica; e approda infine all’esperienza velleitaria e frustrante della Lega democratica e del movimento dei combattenti.

    (...)



    [1] Sulla crisi del socialismo riformista cfr. Arfè, Storia del socialismo italiano cit., pp. 136-62; e Vigezzi, Giolitti e Turati cit.; Spencer Di Scala, Dilemmas of Italian Socialismo: the Politics of Filippo Turati, Amherst, The University of Massachusetts Press, 1980, pp. 103-24.
    [2] Turati, Le vie maestre del socialismo cit., pp. 186-9.
    [3] Il ministero e i socialisti, editoriale attribuibile a Turati in «Critica sociale», XX, 3, 1 febbraio 1910, pp. 33-4; cfr. anche l’editoriale Il nuovo ministero, ivi, XX, 6-7, 16 marzo – 1 aprile 1910, pp. 81-2.
    [4] Primo Maggio di rinnovamento, editoriale cit., in «Critica sociale», 1 maggio 1910.
    [5] Turati-Kuliscioff, Carteggio, III, p. 372, 4 febbraio 1911.
    [6] Ivi, p. 398, 12 febbraio 1911.
    [7] Ivi, pp. 438-9, 25 febbraio 1911.
    [8] Ivi, p. 444, 26 febbraio 1911.
    [9] Ivi, p. 445, 27 febbraio 1911.
    [10] Carteggi, I, pp. 478-81, Salvemini ad Alessandro Schiavi, 16 marzo 1911.
    [11] Ivi, pp. 495-7, 6 agosto 1911. Non erano idee nuove. Salvemini le aveva già esposte col consueto vigore polemico nel 1907. «Il Partito socialista non è ammalato: è morto; e ora non è che uno spettro (…)». Tra il 1892 e il 1901 era stato «uno strumento di lotte specialmente politiche per la conquista delle libertà elementari e del diritto di organizzazione per le classi lavoratrici». Era questa una lotta che coinvolgeva anche gli interessi delle altre classi della società moderna. Allora il Partito socialista «non fu un partito socialista, ma un partito d’azione liberale con bandiera socialista (…). Dopo la vittoria era naturale che questo partito si sfasciasse», e che i socialisti proletari, conseguita la libertà, non si occupassero più di fatto del partito, per dedicarsi alle organizzazioni economiche e alle amministrazioni locali. Così nel partito e nel gruppo parlamentare gli interessi particolari «delle organizzazioni reggiane e genovesi» e degli altri gruppi più forti e organizzati hanno fatto perdere di vista «gli interessi generali permanenti del paese». Il Partito socialista gli sembrava ormai irrecuperabile. «Volere raddrizzare le gambe a questa razza di cani, è un perder tempo e fatica, e – peggio ancora – ritardare le nuove formazioni che, in luogo delle antiche, la società va esprimendo faticosamente dal suo seno». La via indicata da Salvemini, - la costituzione di libere associazioni speciali di studio e di propaganda per i diversi problemi politici e sociali d’ordine generale, riunite in una confederazione nazionale – prefigura l’esperienza dell’«Unità» (Spettri e realtà. La malattia del partito, «Critica sociale», 1 marzo 1907, ora in MSQM, pp. 322-30, con la postilla redazionale).
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Gaetano Salvemini e il Partito socialista

    6. Un atto di presenza in un momento pericoloso


    Nondimeno riesce difficile comprendere l’atteggiamento oscillante e contraddittorio di Salvemini dal dopoguerra al delitto Matteotti. Di fronte ai gravi problemi posti dalla crisi sociale, all’irruzione dell’estremismo massimalista e comunista e della reazione fascista, le sue posizioni politiche erano sostanzialmente affini a quelle di Turati. Sta di fatto che nell’aprile del 1921 si dichiarava disposto a entrare nella lista socialista per le elezioni politiche, mentre respingeva l’idea d’una sua candidatura isolata, che sarebbe stata «uno sproposito e una cattiva azione», perché avrebbe indebolito i socialisti e rafforzato Salandra e compagni. «E mentre i socialisti sono battuti, come eravamo battuti noi nel 1913, dobbiamo stare con i socialisti»[1]. Più volte consiglierà i suoi seguaci pugliesi ad aderire al Partito socialista per sostenere Turati, e poi, dopo la scissione dell’ottobre 1922, ad entrare nel nuovo Partito socialista unitario[2]. Egli stesso si chiedeva se dovesse rientrare nelle file socialiste. Ma sempre lo tratteneva una sorta di rigetto psicologico, in cui un senso di profonda stanchezza e di disgusto per la politica si mischiava a una radicata sfiducia e incompatibilità personale verso il gruppo dirigente riformista. Riemergeva insistente la drastica condanna della degenerazione corporativa del riformismo delle cooperative, che suonava stonata e davvero priva di senso, mentre si andava consumando la tragica disfatta del movimento operaio e socialista, e la violenza fascista aveva ormai travolto cooperative e camere del lavoro in una scia di distruzione e di morte. Sono atteggiamenti e sentimenti che lasciano intendere quanto distaccato dalla realtà e, bisogna pur confessare, immeschinito in tenaci preconcetti e risentimenti personali fosse allora, talvolta, l’animo amareggiato e inasprito di Salvemini. «Al prossimo congresso socialista, - scriveva alla moglie il 6 settembre 1922 – i socialisti si divideranno fra seguaci di Turati (cioè cooperative camorriste) e seguaci di Serrati (cioè scimmie urlatrici). Che cosa vuoi aver da fare con quella gente là»[3]. E il 24 settembre, scrivendo a Ernesto Rossi: «Non possono e non vogliono capire: è un gruppo di interessi consolidati, che non si lascia penetrare che dalle bastonate. I fascisti, sfasciando quella organizzazione, accelerano un’opera di decomposizione, che doveva avvenire, e in cui io non potevo fare nulla di utile. Però si potrebbe stare, non dentro, ma accanto al Partito, cercando di orientare gli elementi nuovi»[4]. Ma poi, una volta formatosi, con la scissione, il Partito socialista unitario, questo atteggiamento di recisa chiusura si incrinava, e si apriva al bisogno di discutere seriamente con gli amici sul da farsi. «Disinteressarmene? Entrarvi? Il programma – scriveva a Umberto Zanotti-Bianco, con nitida coscienza delle contraddizioni in cui si dibatteva e dei propri limiti politici – è tale che posso sottoscriverlo tutto dalla prima all’ultima parola: l’ultima parte di esso contiene il frutto di tutto il lavoro mio di venti anni», riassunto proprio allora nel volume Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio italiano. «Ma gli uomini sono sempre i vecchi uomini in cui non ho fiducia. Se me ne sto in disparte, mi interdico ogni via per far penetrare nella realtà quel tanto del mio spirito che è possibile. Se entro nel partito, è una nuova via crucis che mi si presenta»: l’orribile incubo di essere candidato e deputato, e di dover abbandonare nuovamente gli studi; «e soprattutto la lotta di ogni giorno coi compagni di partito per ottenere che restino fedeli al loro stesso programma. Se avessi un temperamento più souple, questo lavoro per far penetrare le mie idee nella realtà sarebbe più facile: ma con la mia pazzesca smania di chiarezza, di logica, di lealtà, io sono fatto per sollevare difficoltà, non per superarle, in un ambiente di mezze coscienze, com’è l’Italia»[5].
    Rimasto come inchiodato agli schemi concettuali elaborati nell’età giolittiana e nella crisi del socialismo riformista, gli sfuggivano i termini reali, profondamente mutati, della lotta politica nel dopoguerra. Da questa incomprensione di fondo, oltre che da risentiti preconcetti personali, potevano derivare i suoi sconcertanti giudizi sul fascismo, che egli, beninteso, condannava aspramente e senza esitazioni, ma nel quale al tempo stesso vedeva una forza che avrebbe adempiuto alla funzione storica di far piazza pulita della vecchia classe dirigente liberale giolittiana e socialista, che gli appariva degenerata e incapace, sicché gli sembrava preferibile che Mussolini conservasse per un certo tempo il potere. Il pericolo maggiore, scriveva il 2 maggio 1923 a Giacomo Panunzio, «è una combinazione parlamentare a base dei soliti vecchi uomini Giolitti, Orlando, Turati, Bonomi, Nitti, Facta ecc. Il paese non tollererebbe quella gente là due settimane: io, per conto mio, domanderei a Mussolini una nuova marcia su Roma e vi prenderei parte»[6]. «Se Mussolini venisse a morire, - annotava nel suo diario il 21 aprile – e avessimo un ministero Turati, ritorneremmo pari pari all’antico. Motivo per cui bisogna augurarsi che Mussolini goda di una salute di ferro, fino a quando non muoiano tutti i Turati, e non si faccia avanti una nuova generazione liberatasi dalle superstizioni antiche»[7]. Affermazioni paradossali certo, come i giudizi su Turati, carichi di rabbia e di disprezzo, che anche l’amico Ugo Guido Mondolfo, confutandoli, giudicava francamente iniqui, e privi di fondamento[8], e che del resto vanno correttamente interpretati all’interno di un contesto nel quale la nota dominante è rappresentata, contraddittoriamente, dalla condanna del fascismo e del nazionalismo, oltre che del comunismo, da una sorta di cupa e impotente disperazione per la crisi della democrazia e l’instaurarsi d’un regime di violenza e di oppressione. Nondimeno, pur respingendo le invocazioni perfino commoventi del fedele Panunzio a scendere in campo nella lotta elettorale in una lista socialista[9], già nel gennaio 1924 consigliava ai seguaci pugliesi di entrare nel Partito socialista unitario. «Se la politica non mi facesse schifo, io farei così. Ma c’è in me una forza feroce che mi dice sempre di no». E un mese più tardi scriveva: «Ti confesso che da alcuni mesi in qua sono continuamente a domandarmi se ho il diritto di starmene sotto la tenda, se non ho il dovere di aderire al Partito unitario, dovendo questa indicazione a molti giovani, che aspettano che io mi decida per decidersi loro». Ma accampava altre ragioni che lo inducevano ancora a protrarre la decisione[10]. Soltanto il delitto Matteotti, com’è noto, lo convinse infine a rompere questa sua angosciosa inerzia.
    Il suo riavvicinamento al Partito socialista unitario non significava però un ritorno alla militanza politica attiva nelle sue file, e tanto meno una riconversione alle ideologie socialistiche, dalle quali il suo pensiero si andava sempre più allontanando. Lo ispiravano piuttosto l’esigenza di adempiere ad un dovere morale, che naturalmente lo riconciliava nell’ora del pericolo e del sacrificio con gli antichi compagni di lotta, col partito di Matteotti e la coscienza che la sola forza democratica e progressista organizzata, che avesse un seguito tra le masse, e nella quale fosse possibile riporre le residue speranze di riscossa contro la reazione fascista, era costituita dal socialismo democratico e riformista. Vi era in questa decisione il riconoscimento, sia pure tardivo, che non era più lecito, di fronte alla dittatura fascista e dopo il delitto Matteotti, «rimanere isolati ed inerti per eccessivo attaccamento a raffinate distinzioni teoriche e per diffidenza verso vecchie situazioni», che andavano rapidamente mutando; e che «ogni sforzo di azione costruttiva compiuto all’infuori degli ideali politici tradizionali» si era rivelato «sterile», quando anche non avesse favorito, «come nel caso del fascismo e dell’Associazione Nazionale dei Combattenti le speculazioni meno scrupolose». Con questa riflessione autocritica, lucida e coraggiosa, si apriva una dichiarazione elaborata da Salvemini, Gino Luzzatto, Ernesto Rossi e forse qualche altro, e destinata a raccogliere l’adesione di altri amici, con la quale i firmatari avrebbero dovuto annunciare l’iscrizione al Partito socialista unitario, considerando che questo, «mentre afferma la necessità e l’utilità della lotta di classe, ne rifiuta le forme sempliciste e violente, e si fa assertore dei principi di libertà e di democrazia tanto contro i comunisti quanto contro i fascisti». Il documento si diffondeva anche in una valutazione positiva del programma e degli orientamenti pratici del partito, alla luce delle posizioni proprie di Salvemini e del gruppo unitario, puntigliosamente ribadite: dalle critiche verso le «degenerazioni statolatre e burocratiche» del passato e i condizionamenti dei gruppi corporativi, alla lotta contro il protezionismo, sino alla rivendicazione di legittimità dell’interventismo democratico di coloro «che durante la guerra europea seguirono la pratica di Leonida Bissolati»[11].
    Ma questa iniziativa, non si sa per quali ragioni, non ebbe alcun seguito pratico. Quanto a Salvemini, ancora il 12 settembre 1924 scriveva a Ernesto Rossi: «(…) fra alcuni giorni domanderò l’iscrizione al PSU, non per ritornare nella vita pubblica, come tu dici, ma solo per fare atto di presenza in un momento pericoloso»[12]. Dubbi ed esitazioni evidentemente non erano ancora superati, né di una sua successiva adesione formale vi è sicura testimonianza. La sua fu probabilmente una adesione di fatto (ma la distinzione ormai, in quei momenti tragici e turbinosi di dissolvimento dei partiti democratici non aveva poi soverchia importanza), di cui sono indizio alcune lettere rimasteci a lui indirizzate da Filippo Turati nell’ottobre 1925, che dimostrano, se non proprio l’impegno effettivo, almeno la disponibilità di Salvemini, ormai riparato all’estero, a fungere da tramite, per conto di Turati, tra il Partito socialista unitario e i partiti dell’Internazionale socialista, e a sollecitarne il sostegno politico e organizzativo[13].
    Si trattò comunque d’un episodio contingente. Poi alla fine del 1926 anche Turati passò all’estero. Salvemini, nel suo inquieto peregrinare di quegli anni, rimase in rapporto con Turati e collaborò attivamente con lui ad alcune iniziative, ma in una posizione autonoma, e nel quadro della lotta contro la dittatura, che univa i gruppi democratici antifascisti, restando estraneo all’azione e alle vicende interne del Partito socialista e del suo gruppo dirigente. Ma a quell’ideale di libertà, di redenzione sociale, di rigore morale che ispirava il socialismo delle origini e dal quale era venuto il primo impulso a gettarsi nella lotta politica, rimase ancora fedele, e sino alla fine della sua vita continuerà a considerarsi, a suo modo, socialista[14].

    https://musicaestoria.wordpress.com/...to-socialista/



    [1] Carteggio 1921-1926, p. 18, 20 aprile 1921.
    [2] «Se nel congresso socialista i comunisti rimarranno in minoranza o ne usciranno, occorre che voi facciate il salto per rafforzare Turati. Se prevalgono i comunisti, e Turati si ritira a vita privata, noi dovremo ritirarci a casa e lasciare che le masse vadano al comunismo. La porca borghesia dei nostri paesi non merita che lavoriamo per salvarla», scriveva a Giacinto Panunzio il 22 ottobre 1920 (Carteggio 1914-1920, p. 554). Agli inizi di aprile 1922 si accingeva a rientrare nel Partito socialista, come si deduce da una lettera allo stesso Panunzio (ivi, p. 53, 4 aprile 1922), ma poi «profondamente turbato» dalla notizia del colloquio Baldesi-D’Annunzio, aveva deciso di far sospendere la pratica: «Non vorrei davvero rientrare nel Partito socialista proprio nel momento, in cui questo partito dimostrerebbe definitivamente di essere diretto da gente senza intelligenza e senza decoro, che ci mette ai piedi di D’Annunzio». Cfr. anche le lettere allo stesso del 22 novembre 1922 e del 18 gennaio 1924 (ivi, pp. 149-52 e 285-6).
    [3] Ivi, pp. 72-3.
    [4] Ivi, p. 83.

    [5] Ivi, pp. 93-4, 16 ottobre 1922; e di analogo tenore la lettera a Elsa Dallolio, 17 ottobre 1922, ivi, pp. 95-6.
    [6] Ivi, pp. 195-7.
    [7] Gaetano Salvemini, Memorie e soliloqui, in Scritti sul fascismo, II, a cura di Nino Valeri e Alberto Merola (Opere, VI-2), Feltrinelli, Milano 1966, p. 191. La posizione di Salvemini è esposta in forma più organica e meditata nella sua risposta all’inchiesta Dove va il mondo, del giugno 1923 (ora in Salvemini, Scritti vari cit., pp. 659-61), sulla quale cfr. Marina Tesoro, Salvemini nel 1923 e l’inchiesta «Dove va il mondo?», in «Archivio trimestrale», VIII (1982), pp. 763-764. Per una valutazione di questi giudizi, e più in generale dell’atteggiamento di Salvemini in questo periodo, cfr. Roberto Vivarelli, Salvemini e il fascismo, in Atti del Convegno su Gaetano Salvemini cit., specie pp. 140-4; e la Prefazione di Alessandro Galante Garrone al volume Scritti vari, sopra cit., pp. 30-1; e, dello stesso, Zanotti-Bianco e Salvemini. Carteggio, Guida, Napoli 1983, specie pp. 42-4.
    [8] «Il discorso di Turati è stato abbietto» - scriveva il 22 novembre 1922 allo sbigottito Giacinto Panunzio, che invano invocava dal maestro un chiaro orientamento sul dovere dell’ora -, «quello di D’Aragona anche peggiore. Quella gente non domanda che di vendersi a Mussolini, come si era venduta a Giolitti. Si duole di essere stata bastonata, ma è pronta a dimenticare le bastonate, non appena Mussolini offra un po’ di lavori pubblici ai disoccupati, cioè alle cooperative. Che cosa mai sperare da quella gente là». Ci sarebbe da entrare nel Partito socialista unitario a combattere Turati e D’Aragona. «Mussolini li ha demoliti tutti per metà dalla destra, demolire l’altra metà dalla sinistra». Ma egli non se la sentiva. «Lasciamo che, nell’ora della crisi, l’ufficio di spazzar via Turati e D’Aragona lo compia Serrati. L’ora nostra verrà dopo». Per conto suo preferiva ora «tacere e aspettare». «Quanto a te e agli altri amici, entrate, se ne avete lo stomaco», nel partito, a fare l’opposizione a Turati e D’Aragona» (Carteggio 1921-1926, pp. 149-52; la lettera di Panunzio, cui risponde Salvemini, Ivi, pp. 139-40, 16 novembre 1922). Salvemini si riferiva al discorso di Turati pronunciato alla Camera il 17 novembre, in risposta al famoso discorso con cui Mussolini aveva presentato il nuovo governo, costituito in seguito alla marcia su Roma («potevo fare di quest’aula sorda e grigia un bivacco di manipoli…»). Con espressioni analoghe («Il discorso pronunciato ieri da Turati alla Camera è uno dei più spaventevoli documenti della abiezione morale, a cui sono discesi i nostri uomini politici») lo commentava anche in Memorie e soliloqui cit., pp. 3-4. Nello stesso senso doveva aver scritto a Ugo Guido Mondolfo, che gli dava una severa risposta con la cit. lettera del 6 gennaio 1923 (Carteggio 1921-1926, pp. 166-7).
    [9] Ivi, pp. 220-2, Giacinto Panunzio a Salvemini, 6 luglio 1923, e risposta di Salvemini, 9 luglio 1923.
    [10] Ivi, pp. 285-6, Salvemini a Giacinto Panunzio, 18 gennaio 1924; e pp. 290-3, lo stesso allo stesso, 17 febbraio 1924.
    [11] Il documento, allegato alla lettera di Salvemini a Gino Luzzatto, 5 luglio 1924, in Carteggio 1921-1926, pp. 300-1. Sugli equivoci e sull’esito politico dell’Associazione nazionale dei combattenti, e sulla contrastata e fallimentare esperienza compiuta in essa da Salvemini cfr. Giovanni Sabbatucci, I combattenti nel primo dopoguerra, Laterza, Roma-Bari 1974.
    [12] Ivi, pp. 312-3.
    [13] Ivi, pp. 435-6, 445-7, 457-8.
    [14] Mi limito a ricordare le belle pagine sull’ultimo Salvemini, che sono anche una commossa testimonianza di Galante Garrone, Salvemini e Mazzini cit., specie pp. 340-1, 364-7.
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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