di Leo Valiani – «Il Mondo», 8 ottobre 1963; poi in L. Valiani, “Fra Croce e Omodeo. Storia e storiografia nella lotta per la libertà”, Le Monnier, Firenze 1984, pp. 36-53. Saggio nato dalla ripubblicazione degli “Scritti e discorsi politici” che Croce aveva dato alle stampe o pronunciato fra il 1943 e il 1947.
La celebrazione appropriata che più si possa fare della resistenza al fascismo, e della Liberazione, è di riesaminare, criticamente, i vari aspetti di quel grande movimento storico, i complessi problemi che pose, i contrasti nei quali s’articolò. Se ne parla, fin troppo, come del «Secondo Risorgimento». Ma l’agiografia e la retorica non servirono la causa del fecondo sviluppo delle libere istituzioni che, nel Risorgimento, l’Italia s’era date. In molti, troppi italiani il culto delle oleografie attutì soltanto la sensibilità per i pericoli di corrosione ai quali le pubbliche libertà rimanevano esposte e rese più facili le tentazioni di follia nazionalistica, che si celavano dietro al continuo ingrossarsi dei fiumi di retorica.
In verità, il Risorgimento stesso vive oggi, nella nostra mente, grazie alle interpretazioni di coloro che già mentre esso combatteva ancora, su non metaforici campi di battaglia, e poi nei decenni del suo trionfo, e in ultimo in quelli della sua deformazione e della sua eclisse, cercarono di sceverare quel che nel suo pensiero, nelle sue aspirazioni, vi è di eterno, da quel che vi era di caduco. Il ripensamento di un periodo storico passa per sua natura attraverso la discussione del giudizio che ne hanno dato quegli spiriti adusi alla meditazione, alla filosofia, che lo vissero o rivissero con senso critico. Così, la storiografia del movimento di liberazione dal fascismo non può, a sua volta, non ridiscutere l’interpretazione che ne diede Benedetto Croce.
L’occasione di questo ragionamento ci è offerta dalla ripubblicazione degli Scritti e discorsi politici che Croce redasse o pronunciò fra il 1943 e il 1947. (Vol. XI e XII degli Scritti vari di Benedetto Croce, Laterza editori, Bari, 1963, pp. 364 e 475). Ma il rapporto fra Croce e il «Secondo Risorgimento» non ha nulla di occasionale.
All’opposizione aperta, intransigente, irrevocabile al fascismo, Croce si risolse, dopo le misure liberticide del 3 gennaio 1925, per fedeltà alla tradizione liberale del Risorgimento, in cui era cresciuto e vissuto con tale certezza della sua permanente validità, da stentare dapprima a credere ch’essa potesse essere seriamente minacciata. L’idea del «Secondo Risorgimento», ossia della riconquista della libertà politica, sentita come un dovere patriottico non meno alto, e non meno degno d’ogni sacrificio, della passione che animava il martirologio, il travaglio e l’epopea risorgimentali, è già in nuce nel manifesto degli intellettuali antifascisti, che Croce stese, e nell’opposizione di principio alla dittatura che, affiancandosi a Luigi Albertini e a Francesco Ruffini, condusse nel Senato. I limiti stessi del contributo di Croce alla lotta di liberazione sono i limiti di chi la concepiva come il puro ritorno al Risorgimento che aveva introdotto il regime liberale in Italia in termini che ne consentivano la pratica democratizzazione.
Sin dal 1924-25 s’era visto come la restaurazione delle libertà democratiche parlamentari fosse il solo programma politico accettabile da tutti i partiti e gruppi politici avversi al regime fascista. Le leggi eccezionali trasferirono però la questione sul terreno della violenza di parte, che può essere fronteggiata solo da una violenza non meno accanita.
Ma, come nella fase finale del Risorgimento s’era potuto dire che la monarchia univa, mentre la repubblica avrebbe diviso i patrioti, così, dopo un quindicennio di cospirazione, che ogni gruppo condusse secondo i propri particolari fini, metodi e speranze, il programma del ristabilimento preliminare delle libertà parlamentari rispuntò – per riconoscimento dello stesso partito comunista italiano – come la sola piattaforma suscettibile di unire tutto l’antifascismo, e anzi tutti gli avversari (molto più numerosi degli antifascisti veri e propri) dell’alleanza col nazismo, mentre ogni altro obiettivo, per quanto importante per la vitalità avvenire della democrazia che s’intendeva riconquistare, ne trovava divisi i fautori.
La successiva prevalenza, dopo la vittoria insurrezionale della guerra partigiana, e nonostante le caratteristiche rivoluzionarie che questa ha avuto, della restaurazione parlamentare pura e semplice sulla rivoluzione dello Stato (autonomista o marxista che si profilasse), trae la sua origine prima dal fatto che su quella nessun antifascista poteva rifiutare l’unione, e su questa sì.
La guerra mondiale, nella quale il fascismo aveva gettato il Paese, contro i più elementari interessi della nazione italiana, che in ogni caso – di vittoria o di sconfitta militare – ne sarebbe stata la vittima, chiariva le cose nel modo peculiare alle guerre, che rivoluzioni sono, ma solo assai raramente nei termini sperati dai rivoluzionari. Il successo delle armi delle potenze che s’erano alleate contro le aggressioni hitleriane, avrebbe abbattuto anche, e anzi per primo, il fascismo mussoliniano. Il problema degli oppositori non era più di come trovare il modo di affrontare il fascismo sul terreno della violenza (o, inversamente, di come fare l’economia della violenza alla quale le loro frazioni più moderate erano riluttanti), ma diventava quello d’inserire i loro sforzi, le loro audacie, i loro sacrifici, anche i loro accorgimenti, nella guerra, e nella politica di guerra, delle potenze che combattevano l’Asse Berlino-Roma e segnatamente in quella delle nazioni (l’inglese e l’americana) i cui eserciti sarebbero sbarcati sul suolo italiano.
La situazione internazionale portava così tutti i partiti dell’antifascismo italiano, anche quelli che avrebbero desiderato una soluzione rivoluzionaria socialmente molto più avanzata, verso la loro unione nella richiesta comune del ripristino delle libertà parlamentari, come corollario di politica interna dell’esigenza preliminare del distacco dell’Italia dalla Germania nazista, e del suo passaggio dalla parte dei paesi che a questa avrebbero continuato a far guerra, fino alla distruzione totale della potenza hitleriana.
L’idea della restaurazione del vecchio regime parlamentare – nei paesi che avevano già fatto l’esperienza delle sue debolezze – non soddisfaceva invero i gruppi più ardimentosi della Resistenza, alcuni dei quali, per esempio in Francia, lo criticavano da un punto di vista opposto a quello costituito dalle critiche tradizionali del libertarismo autonomistico, federalistico, o del marxismo.
La liberazione di questi paesi era tuttavia, per ragioni storiche e geografiche, inscindibile dallo sbarco sul loro territorio delle forze armate delle nazioni nelle quali il principio democratico parlamentare, inteso secondo le tradizioni locali (in realtà molto più autonomistiche di quelle di quasi tutti gli Stati del continente europeo), aveva conservato la sua vitalità, ma le cui classi dirigenti (e non soltanto quelle borghesi, sebbene anche le operaie, laburiste) ritenevano necessario cautelarsi contro l’eventuale diffusione del comunismo, dopo la vittoria sulle potenze totalitarie d’estrema destra, col ripristino dei regimi preesistenti ai fascismi, quanto meno nell’Europa occidentale.
Col duro e anche cinico realismo che gli veniva dall’abbandono delle sue primitive illusioni di rivoluzione proletaria mondiale, il comunismo internazionale – e in particolare il partito comunista italiano – se n’era reso conto per primo. Non era certo da pensare per questo che quel concetto di restaurazione parlamentare avrebbe esaurito le finalità anche immediate dei partiti comunisti. Per ragioni diverse, per le preoccupazioni, cioè, che nutrivano circa la capacità dei Parlamenti di votare e di far eseguire grandi riforme nella struttura burocratica dello Stato tradizionalmente accentrato, esso non avrebbe completamente soddisfatto neppure le altre correnti, socialiste o libertarie, dell’antifascismo militante, rivoluzionario. Il concetto di restaurazione della legalità soppressa dal fascismo copriva invece, per intiero, quel che Croce s’attendeva, politicamente, dalla Liberazione.
Con la sincerità propria del vero storico, Croce non si nascondeva, e lo scrisse in una delle più luminose pagine di questi volumi, che la guerra in atto era una guerra civile internazionale, una guerra politica ad oltranza, fra fautori irriconciliabili della libertà e della tirannide, che si trovavano di fronte, ideologicamente, all’interno di ogni paese, quale che ne fosse la collocazione nello schieramento delle alleanze militari. Perciò, gli antifascisti tutti, e via via strati crescenti del popolo italiano – che non tardarono molto a rappresentare la grande maggioranza – parteggiavano per le nazioni aggredite dal governo fascista e desideravano (Croce lo sottolineava senza paura) la disfatta di quest’ultimo, come il solo mezzo di liberare la propria patria da un’alleanza criminale, e da una dittatura faziosa e abietta, e di finire la guerra al fianco di coloro che combattevano il nazismo e i suoi vassalli fascisti.
Il riconoscimento dell’esistenza di una guerra civile politica, ideologica, in seno alla guerra fra blocchi contrapposti di potenze, non era peraltro gradito a tutti, nel campo stesso delle nazioni democratiche, man mano che la loro vittoria militare si faceva sicura. Non mancava, nei governi di queste nazioni, la tendenza, che Churchill espresse schiettamente e rudemente, di considerare nociva, vuoi per gli interessi strategici, presenti e futuri, vuoi per gli interessi di conservazione sociale dei vincitori, l’eventualità di una lotta politica ideologicamente intransigente, che mirasse alla liquidazione non solo del fascismo, ma anche delle forze che l’avevano aiutato ad instaurare la sua dominazione, nei paesi vinti, e specificamente in Italia, dal momento che l’obiettivo del defenestramento di Mussolini e della resa agli anglo-americani era stato raggiunto. S’intende che questa tendenza, che potremmo dire churchilliana, benché non fosse affatto una posizione personale, era contraddetta, non solo fra gli americani, fra i quali, sotto Roosevelt, si trovava comunque in subordine, ma anche fra gli inglesi, governati da una coalizione nella quale i conservatori dovevano dividere le redini coi laburisti e coi liberali, dalla decisione degli Alleati, presa sin dallo sbarco in Sicilia, e rafforzatasi nei mesi successivi, d’introdurre nell’Italia da essi amministrata una legislazione avente lo scopo di epurare i fascisti dagli impieghi pubblici di qualche rilevanza politica.
In particolare, si trattava così – oltre che della tacita protezione d’un certo numero di dignitari delle vecchie forze armate, e dell’alta burocrazia, legati al re – della difesa, fatta da Churchill, del diritto di Vittorio Emanuele III a rimanere sul trono finché il popolo italiano, liberamente consultato al termine della guerra sulla forma del suo futuro governo (questa condizione era stata posta dagli americani, ma la maggioranza dello stesso gabinetto inglese la condivideva), non ne avesse disposto diversamente.
Da un’interpretazione puramente formale del concetto di restaurazione parlamentare, si sarebbe anche potuto ricavare un avallo a siffatta conclusione. Se l’impegno democratico fosse stato soltanto quello di riportare l’Italia al regime liberale prefascista, rimettendo ogni altro problema ai deliberati del futuro Parlamento, non si sarebbe potuto negare che Vittorio Emanuele III era sovrano d’Italia non giù in virtù del fascismo (al cui duce egli aveva affidato il governo il 28 ottobre, ma con la condizione, puntualmente verificatasi, che questi avrebbe ottenuto la maggioranza al Parlamento, e che aveva d’altra parte licenziato il 25 luglio, quando l’aveva visto in minoranza nell’organo politico costituzionale di quel tempo), bensì in virtù dell’assetto istituzionale ad esso preesistente.
La sostanza delle cose, se è lecito dir così, parlava però un linguaggio diverso e più vero. Il vecchio re – e Croce lo ricordava con un’asprezza che rende altamente drammatico il primo di questi suoi volumi, che contiene, fra l’altro, il diario crociano del periodo in cui «l’Italia era tagliata in due» - aveva tradito lo Statuto al quale doveva il suo trono, aveva consegnato l’Italia, in violazione delle garanzie statutarie che gli spettava di difendere, ad una banda d’avventurieri, e ne aveva avallato l’operato criminale, consistente nella distruzione delle pubbliche libertà, nell’imprigionamento o nell’uccisione degli oppositori, nella liquidazione dell’elettività della Camera dei deputati e, con le leggi razziali, nell’abolizione dei principi del diritto civile. Con la firma della dichiarazione di guerra del 1940, Vittorio Emanuele III aveva infine schierato lo Stato italiano contro la sua stessa storia risorgimentale. Per di più, nell’ora del disastro, il re fuggiasco non pensò al suo popolo, ma solo alla propria salvezza personale e politica, pronto a tal fine a calunniare il Paese, cercando di dar da intendere ai vincitori che l’unanimità d’esso gli aveva imposto il fascismo, mentre dietro le quinte egli s’industriava tuttavia – cosa che un uomo della moderazione di Croce sentì il dovere di denunciare – a riportare nel regio governo, e nell’amministrazione che ne dipendeva, i relitti più insidiosi del regime fascista.
Analoga o ancor vibrata requisitoria contro Vittorio Emanuele III, veniva elevata dalla grande maggioranza degli antifascisti, sia nel Sud, che nell’Italia occupata dai tedeschi. Ma che le pronunciasse una personalità del grandissimo prestigio intellettuale di Croce, del quale era altresì nota la devozione alla dinastia, alle cui fortune riteneva legato – da storico e da figlio della seconda generazione risorgimentale – il compimento dell’unità d’Italia, era un fatto di vasta risonanza. E lo era, forse più ancora che in patria, nel mondo anglo-sassone, che riveriva in Croce non solo il maggior pensatore italiano, ma egualmente l’unico antifascista vivente, non fuoruscito, di cui fosse nota l’attività di oppositore, da sempre, del totalitarismo.
Non sembra dubbio che se gli stessi militari inglesi investiti di responsabilità politiche in Italia, così il maresciallo Wilson e il generale Mac Farlane, si persuasero, contro alle direttive del loro primo ministro, che la richiesta antifascista della rimozione di Vittorio Emanuele III era giustificata, lo si dovette in primo luogo all’eco destata dall’identificarsi di Croce con questa richiesta.
Il processo alle responsabilità del re aveva tuttavia la sua origine non nella determinazione di Croce d’aprirlo – ché anzi egli vi s’associò solo dopo l’8 settembre – sibbene nelle idee repubblicane dei partiti antifascisti più combattivi, e soprattutto nella precisa pregiudiziale di un mutamento istituzionale che il più giovane d’essi, il partito d’azione, aveva sollevato, coi punti programmatici che si diede, costituendosi nel 1942, e che rese noti ancora nella clandestinità.
Era logico che così fosse, poiché la tradizione consacrata da lunga data, che voleva il sovrano non responsabile per gli atti dei suoi governi, non poteva essere infranta per prima se non da una forza politica che, riallacciandosi ad un’altra tradizione, quella del repubblicanesimo risorgimentale, mazziniano, non si sentiva vincolata da alcun dovere di fedeltà alla monarchia e poteva coerentemente contestarne il diritto a sopravvivere alla catastrofe in cui aveva piombato il Paese. Naturalmente, una volta che l’incantesimo della maestà sovrana era rotto, e il re s’era rivelato nudo, ossia, nella fattispecie, colpevole, e caparbiamente ostinato, malgrado ciò, nel rifiuto dell’ammissione di qualsiasi suo errore e di qualsiasi manifestazione di pentimento, un uomo dell’alta coscienza morale di Croce non poteva tacere.
Anzi, siccome del novero di coloro che, essendo stati ingannati in passato (sin da quando, rammentava Croce, il re s’era rifiutato di firmare lo stato d’assedio col quale l’ultimo governo prefascista avrebbe voluto impedire la marcia su Roma), avevano l’obbligo di opporsi ad ogni nuovo inganno, doveva farsi lui, per primo, pubblico accusatore, anche per avere – egli non lo nascondeva punto – il diritto di tenere il processo stesso sul terreno delle responsabilità personali di un monarca, senza coinvolgervi l’istituto monarchico. Per quanto comprensibile, l’intenzione di salvare la dinastia, sacrificando chi l’aveva compromessa, doveva però naufragare sulla riluttanza di Vittorio Emanuele III ad abdicare finché proprio non vi fosse stato costretto, sull’identità delle opinioni di suo figlio (fustigate, non a caso, da non altri che da Croce, quando furono espresse la prima volta, nel ’44) con quelle paterne, circa la corresponsabilità non di chi chiamò e mantenne Mussolini al governo, ma del popolo, per i misfatti della dittatura, e in definitiva sulle convinzioni fattesi saldamente e accesamente repubblicane della grande maggioranza di coloro che combattevano l’ultimo fascismo con le armi della Resistenza, della guerra partigiana, così come sull’intransigenza antimonarchica che soprattutto uno dei partiti del Comitato di Liberazione Nazionale, quello d’azione, non tralasciava l’occasione di manifestare.
L’avversione di Croce al partito d’azione, sì frequentemente ricorrente in questi scritti, era anteriore al pieno dispiegarsi della lotta repubblicana, che abbisognava, ovviamente, della situazione creata dal 25 luglio e dall’8 settembre per poter passare dalla fase delle dichiarazioni programmatiche a quella dell’attualità politica.
La stessa avversione Croce l’aveva già espressa nei confronti del programma del predecessore del partito d’azione, «Giustizia e Libertà», e anzi nei confronti della denominazione stessa (la diade) di quel movimento del quale pure stimava, siccome assai valorosi, i capi. L’obiezione che in sede filosofica Croce muoveva alla diade, di essere contraddittoria e superflua, la libertà essendo il concetto più alto e sufficiente, che include sempre quel tanto di giustizia che nelle circostanze storiche concrete è realizzabile, ha indubbiamente grande peso, ancorché si possa osservare – da storici – che la lotta dei pratici ideali, delle passioni, degli interessi etici e politico-sociali, ossia dei partiti che, secondo la filosofia crociana medesima formano l’incessante travaglio della libertà, verte con frequenza crescente sull’argomento o meno della sfera in cui la giustizia è ritenuta, di volta in volta, possibile e doverosa.
Ma «Giustizia e Libertà» e il partito d’azione non erano sorti con intenti di riforma della filosofia, sibbene di rivoluzione politica, di violento ed integrale abbattimento del fascismo, e delle sue basi istituzionali (non escluse quelle economiche), e di fusione, per la formazione del partito che avrebbe dovuto pilotare il governo democratico antifascista futuro, dei gruppi di liberalismo radicale coi gruppi di socialisti non marxisti che, sul modello delle democrazie occidentali più progredite, speravano maturassero anche in Italia.
Che il fascismo, regime di violenza, dovesse essere abbattuto dalla violenza, il filosofo non lo escludeva, benché non ritenesse suo ufficio incitare altri a scendere su quel terreno. Croce temeva tuttavia che il disegno di fare dell’abbattimento del regime tirannico che s’odiava (e anch’egli l’odiava, al punto che anni dopo diceva ancora, in una di queste pagine, di non sentirsi capace di scriverne, con serenità di storico, le vicende) la leva per una rivoluzione istituzionale, sociale potesse essere foriero di una nuova dittatura, di una dittatura che, dati i rapporti di forza, più che giacobina (quale, a suo avvito, alcuni degli estremisti del partito d’azione sognavano) sarebbe stata comunistica, leninista o staliniana, con risultati molto peggiori di quelli avutisi in Russia, ove il bolscevismo aveva preso il potere dopo secoli di autocrazia, mentre in Italia esso avrebbe dovuto soffocare una civiltà liberale che il fascismo stesso non aveva saputo spegnere. Certo, Croce non ignorava che i fondatori del partito d’azione, che conosceva da vicino, non erano affatto comunisti, né affascinati dal comunismo, ma democratici sinceri, personalmente ostili a qualsiasi dittatura. Egli pensava però che la rivoluzione – se mai fossero riusciti (cosa che riteneva assai poco verosimile) a scatenarla – li avrebbe travolti a vantaggio dei comunisti. Quel che lo radicava nella sua avversione ad ogni discorso di rivoluzione sociale, era d’altra parte la sua convinzione dell’inesistenza delle pretese basi economiche capitalistico-borghesi del fascismo, nella teorizzazione delle quali gli sembrava di poter scorgere un errore che rischiava di condurre chi se ne lasciava fuorviare, alla giustificazione di un’altra dittatura, con segno di classe opposto.
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