di Leo Valiani – In «Nuova Antologia», fasc. 2145, gennaio-marzo 1983, Le Monnier, Firenze, pp. 168-170.


Al tempo della marcia su Roma, pur avendo solo 14 anni, ed appassionandomi maggiormente allo sport, leggevo già i giornali. L’interesse politico lo dovevo, oltre che a congenita precocità, agli eventi che toccavano da vicino la mia città natale: Fiume. La prima guerra mondiale, le rivoluzioni nazionali e sociali che, in concomitanza col trionfo delle armi italiane, misero termine all’esistenza dell’Austria-Ungheria, alla quale Fiume apparteneva finché, il 30 ottobre 1918, non se ne separò, per proclamare la propria volontà di unirsi all’Italia; l’arrivo di D’Annunzio, la Reggenza del Carnaro che instaurò per garantire l’italianità della città contesa, il drammatico Natale di sangue del 1920, e la conseguente partenza del comandante, mi svegliarono politicamente. Nonostante l’indubbio fascino che D’Annunzio esercitava, da grande poeta e più ancora da oratore ed attore di straordinaria efficacia, mi consideravo socialista. La rivoluzione russa del 1917 aveva reso popolarissimo il socialismo, in ispecie nell’Austria-Ungheria in dissoluzione e in Italia. Fra gli stessi legionari dannunziani non pochi si dicevano socialisti.
Il governo di Giolitti, dopo aver sloggiato D’Annunzio a colpi di cannone, lasciò che Fiume si costituisse in Stato libero. Più di due terzi dei fiumani erano italiani per madrelingua; poco più di un quarto croati. C’erano anche degli ungheresi, che si italianizzarono rapidamente. Le elezioni all’Assemblea Costituente fiumana diedero la prevalenza al partito autonomista di Riccardo Zanella, che nell’anteguerra sotto gli Asburgo aveva coraggiosamente difeso il carattere italiano dell’amministrazione civica, ma ora, desideroso di ristabilire stretti legami commerciali col retroterra mitteleuropeo, si pronunciava per lo Stato libero. Per Zanella votarono anche i croati, che in quel periodo non potevano sperare nell’annessione di Fiume alla Jugoslavia. Contro la tesi Zanelliana si schierarono tutti gli altri partiti italiani, ad eccezione dei socialisti e dei comunisti, che dichiararono di astenersi, ma i cui seguaci optarono per Zanella. Egli fu defenestrato il 3 marzo 1922 da un’insurrezione armata, promossa dai fascisti. La disperata resistenza di Zanella, asserragliato nel Palazzo del Governatore, fu piegata dalle cannonate di un «mas», comandato dal capo del fascio di Trieste, Francesco Giunta. Era, o sembrava, la rivincita per le cannonate con le quali Giolitti aveva costretto D’Annunzio a partire. Noi abitavamo proprio di fronte a quel Palazzo e così ebbi l’occasione di assistere ad ambo i cannoneggiamenti navali.
Da quel giorno i fascisti, rappresentati da personalità di rilievo, monopolizzarono la scena pubblica fiumana. La soluzione naturale era l’annessione all’Italia. I fiumani non tardarono a rendersene conto e quando, all’inizio del 1924, Mussolini diede il via all’annessione di Fiume, la grande maggioranza della cittadinanza accolse la lieta notizia con sincero giubilo.
Si può discutere se, il 28 ottobre 1922, il fascismo godesse di vasti consensi di massa in tutta l’Italia. La mia impressione è che ne avesse in abbondanza, anche se la proclamazione dello stato d’assedio, tardivamente proposta dal debole governo di Facta e rifiutata da Vittorio Emanuele III, avrebbe potuto capovolgere la situazione. Il primo anno e mezzo del governo di Mussolini accrebbe di molto le adesioni che andavano ad esso. Dopo anni di tumulti, e di scioperi, la gente desiderava ordine e tranquillità. Le spedizioni punitive fasciste venivano accettate dal momento che erano coronate da successo e che Mussolini appariva come il solo capace di farle cessare. Alle elezioni generali del 6 aprile 1924, le liste dei fascisti, e dei loro fiancheggiatori, ottennero la maggioranza assoluta dei voti, dappertutto, fuor che nel Veneto, in Lombardia, nel Piemonte e in Liguria. L’assassinio di Matteotti, che aveva denunciato nella nuova Camera le violenze commesse durante la campagna elettorale, suscitò vivissime simpatie per le opposizioni, perlomeno nelle grandi città alquanto politicizzate. Il mutamento dell’opinione pubblica fu, però, di breve durata. Il sostegno accordatogli dal re faceva sì che Mussolini disponesse senza limiti delle forze armate e di tutto l’apparato dello Stato. In più, poteva sempre contare sugli squadristi, inquadrati nella milizia nazionale. In Parlamento, malgrado qualche defezione, il governo continuava ad avere la maggioranza. Le opposizioni persero tempo nell’inazione e finirono col perdere seguito nel paese.
A Milano, ove uscivano i giornali dell’opposizione socialista, le cui tirature erano molto cresciute dopo il sacrificio di Matteotti, ma declinavano già l’anno dopo, mi recai nel 1926. Volevo chiedere ai redattori del quotidiano e delle riviste che leggevo appassionatamente (l’«Avanti!», la «Critica sociale», il «Quarto stato») che cosa poteva fare un giovane antifascista. Li trovai convinti che il fascismo sarebbe rimasto al potere a lungo. Ne era persuaso anche Carlo Rosselli, ma si sottraeva al pessimismo, propugnando l’iniziativa ad ogni costo, da sviluppare con mezzi illegali. Così la pensavano anche Buozzi e Pertini, e fra i liberali, Bauer, Parri, Rossi. Sul terreno dell’organizzazione clandestina furono preceduti, peraltro, dal partito comunista, che sin dalla sua nascita si era attrezzato all’uopo. I comunisti li conobbi più tardi, al confino e in carcere ove mi legai di profonda amicizia a Pietro Secchia. Non prevedevo allora il patto Hitler-Stalin.
L’azione clandestina, lungi dal poter rovesciare il regime, fattosi totalitario, non era neppure in grado di scalfirne la solidità. Non esisteva, comunque, altro modo di preparare la riscossa, lontana o vicina che fosse, se non attraverso il reclutamento e l’educazione di alcune centinaia o migliaia di antifascisti. I libri di Benedetto Croce erano fonti di sapere e di coscienza etica, ma non potevano bastare ai giovani. Le carceri del Tribunale speciale e le isole del confino di polizia diventarono scuole dell’antifascismo militante che prenderà, allorché i tempi saranno maturi, la direzione politica della Resistenza, generata spontaneamente dalla guerra perduta e dall’occupazione hitleriana della penisola.
La crisi economica mondiale del 1929-33 fu superata dalla dittatura fascista meglio del previsto. La deflazione era stata anticipata dall’artificiosa rivalutazione della lira, imposta da Mussolini. Il duce seppe, tuttavia, correggerla con una serie di sforzi volti a contenere la crescita della disoccupazione. L’impresa etiopica gli procurò uno spettacolare trionfo militare e politico, ma stremò le pubbliche finanze. Invece di pensare a riassestarle, come, con l’immensa popolarità che lo circondava, avrebbe potuto fare, Mussolini s’imbarcò nell’intervento in Spagna. Non v’ha dubbio che ciò contribuì in misura decisiva alla vittoria del generale Franco. Per conseguirla, ci vollero egualmente due anni e mezzo di guerra, condotta sotto bandiere ideologiche. Proprio dai giornali fascistizzati, i lettori italiani appresero via via che gli antifascisti, dati per spacciati da un pezzo, combattevano strenuamente in terra spagnola. Fu l’inizio, ancorché lento, d’un nuovo risveglio, accentuato dalle leggi razziali che ripugnavano alle coscienze, cristiane e laiche, e dall’alleanza con la Germania nazista, foriera d’una nuova guerra, contraria ai sentimenti e agli interessi dell’Italia.


Leo Valiani