di Leo Valiani – In “Fra Croce e Omodeo. Storia e storiografia nella lotta per la libertà”, Le Monnier, Firenze 1984, pp. 86-90.


Trent’anni dopo la scomparsa di Benedetto Croce, la sua filosofia non raccoglie più, neppure lontanamente, le adesioni di un tempo. Questo è il destino di tutte le filosofie. In metafisica, ammoniva Kant, non v’ha autore classico. Ogni filosofia, spiegava Hegel, incontra il momento del suo superamento. Il pensiero, precisava Croce stesso, è sempre pensiero critico che volgendosi ai filosofi del passato, ha il compito di separare quel che di essi è rimasto vivo, da quel che è morto.
È caduta la negazione crociana del potere conoscitivo delle scienze, ch’egli, ovviamente senza ignorare il loro peso nel mondo contemporaneo, considerava come attività soltanto pratiche, non idonee al raggiungimento della verità immanente nell’attività teorica dello spirito. Si tenga, però, presente che Croce elaborò le sue dottrine in un periodo in cui gli scienziati medesimi sottolineavano la crisi delle premesse di oggettività, materialistica o positivistica, che avevano accompagnato per più d’un secolo gli sviluppi delle scienze della natura e constatavano come l’azione dell’osservatore dei fenomeni fisici sia suscettibile di modificare la percezione che ne possiamo avere.
È non meno criticabile Croce per la sua sottovalutazione dell’apporto che le scienze umane, sociali, possono dare alla storiografia stessa, nella quale, a suo meditato avviso, la filosofia deve risolversi. Occorre ricordare, in ogni modo, che per un altro verso Croce anticipò alcune delle esigenze del rinnovamento degli studi storici che si è verificato, in Occidente, e poi anche in Italia, negli ultimi decenni. Croce rifiutava la tradizionale preminenza della storiografia dei trattati e delle battaglie, dichiarando che bisognava scavare di più nelle menti e nei cuori; invitando gli storici a non limitarsi all’accertamento, certo indispensabile, dei fatti visibili, degli avvenimenti, ma a rintracciare i problemi che il processo storico pone e a riflettere sulla loro contemporaneità, vale a dire sulla concretezza e sull’attualità che possono venire soltanto dall’effettivo interesse che quei problemi suscitano nell’animo dello studioso.
A queste conclusioni, rese mature in seguito, Croce s’era avvicinato già nel primo decennio del Novecento. Le ritroviamo nei maggiori filosofi e storici occidentali che, più tardi, le elaboreranno autonomamente, nel quadro di orientamenti scientifici del tutto diversi dall’idealismo crociano.
Croce s’era formato nello studio, oltre che della letteratura, che lo ebbe sommo conoscitore ed intenditore, della filosofia idealistica italiana e tedesca. Non si può negare modernità alla sua interpretazione di Vico. Di Hegel apprezzò la dialettica, riformandola tuttavia, profondamente. Ne respinse il sistema e giunse fino a negare, giustamente, validità ad ogni filosofia della storia.
Le sue obiezioni alle teorie economiche di Marx, la sua riduzione del materialismo storico a mero canone empirico, sono ormai accettate anche da chi non ha mai letto i saggi di Croce, apparsi alla fine dell’800, sul marxismo. Rimane, invece, la valorizzazione che fece, nonostante queste sue critiche, del ringiovanimento, operato da Marx, ed in Italia da Antonio Labriola, del pensiero storico e politico corrente. Il paragone fra Machiavelli e Marx, che Croce fu forse il primo a stabilire, è ancora stimolante.
Non si può non condividere l’inserimento crociano della storia d’Italia nella storia europea. È stato molto discusso se la data da cui far partire la storia vera e propria d’Italia debba davvero essere, come in Croce, l’approdo del Risorgimento. I numerosi lavori storici che si sono poi avuti sul millennio precedente, visto in una prospettiva unitaria, hanno arricchito enormemente le nostre conoscenze, senza sboccare in una storia organica ed omogenea. Comunque, in proposito il dibattito è aperto. La valutazione crociana dell’Italia risorgimentale e post-risorgimentale ha sollevato, soprattutto, ma non solo da parte dei marxisti o gramsciani (si ricordi, peraltro, come Croce fosse, per Gramsci, l’interlocutore principale), aspre censure.
A conti fatti, i giudizi crociani su Mazzini, su Cavour, sulla Destra storica e sulla Sinistra che le succedette al governo nel 1876, su Giolitti e su Turati, hanno finito con l’essere accolti nella loro sostanza, anche se rettificati in molti particolari, dagli storici più maturi oggi sulla breccia. Quali che siano le loro filosofie, e quantunque riconoscano alle questioni economiche e sociali un’importanza molto più determinante di come Croce non riconoscesse, essi si muovono nell’ottica, da lui chiarita, della storia che non deve processare, condannare, giustiziare, bensì comprendere. Questo vale anche per Mussolini, sul quale Croce non avrebbe potuto scrivere liberamente, con l’ampiezza necessaria, durante la dittatura, e che pure qualificò con acume, sia per il suo esordio rivoluzionario volontarista, la cui incomprensione, da parte degli avversari, fu decisiva per il successo del futuro duce, sia per la traiettoria totalitaria finale del suo regime, fondato sul culto della potenza illimitata, che non escludeva singole realizzazioni, ma generava altresì – ancorché con ritardi – la resistenza delle forze di libertà, all’estero e in Italia stessa.
Non v’ha dubbio che Croce fu manchevole, da politico, nella percezione tempestiva della pericolosità dell’incipiente fascismo e, da storico, nella messa in luce delle sue radici nelle strutture della società. Ne vide, viceversa, lucidamente l’incubazione intellettuale, negli irrazionalismi e, in misura minore, nell’adorazione, che voleva invece essere realisticamente razionale, della pura imposizione della forza, incarnata già da Bismarck in Germania e assai più dai suoi velleitari imitatori ivi e in altri Paesi.
All’esaltazione della potenza, militare, industriale, politica in senso strettamente utilitario o di vitalità sfrenata, amorale, che beninteso sapeva connaturata agli esseri umani, Croce contrapponeva la rivalutazione dell’etica della libertà. Essa scaturiva dalla sua concezione del carattere pratico dell’errore. La verità, insisteva, non è inconoscibile. Ci fanno errare la debolezza della volontà etica, l’acquiescenza ad opportunismi, la vanità, i desideri di successi facili e rapidi, la stanchezza, la pigrizia, la pavidità. Siamo liberi di resistere alle tentazioni, di correggere gli errori, se abbiamo l’energia morale occorrente, la dura volontà di non lasciarci vincere o corrompere.
A garanzia della libertà della conoscenza e della purezza morale, Croce poneva la distinzione fra teoria e pratica. La loro fusione indistinta è seducente, sol che conduce all’asservimento del pensiero, e dell’etica, al potere praticamente più forte. Pensatori d’alto ingegno come Giovanni Gentile in Italia, e alcuni marxisti di fede comunista su scala internazionale, hanno documentato, involontariamente, la tragedia dei filosofi e dei moralisti che s’illudono di poter dominare il potere e ne vengono dominati.
Apparentato a una élite, fautore del rispetto delle élites, Croce scorgeva, ciò nondimeno, la necessità della diffusione la più larga possibile dell’ideale della libertà. Anche perciò, in opposizione ai totalitarismi di vari colori, di destra e di sinistra, oppure clericali, affermava che la libertà doveva essere servita, e vissuta, come una religione; come una fede laica, immanente, ma con intensità religiosa. La riscoperta della vitalità e della religiosità lo incitava a rivedere i propri punti di partenza. Non aveva più la freschezza e il tempo per una radicale revisione. Ne sentiva, qualche volta, l’assillo.


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