Ormai le elezioni di mid-term negli Stati Uniti si avvicinano, ed è tempo di bilancio per l’Amministrazione Obama. In particolare l’Heritage Foundation, prestigioso think thank conservatore americano, ha pubblicato nelle scorse settimane un’analisi di Kim R. Holmes e James Jay Carafano della “Obama Doctrine”, la dottrina del presidente riguardo alla politica estera. Lo studio, intitolato “Defining the Obama Doctrine, Its Pitfalls, and How to Avoid Them” (Definire la Dottrina Obama, le sue trappole e come evitarle) cerca di far luce sul modo in cui il Presidente Obama intende la politica estera e, soprattutto, sul ruolo che la sua amministrazione sta ritagliando agli Stati Uniti nello scacchiere geopolitico mondiale.

Per Holmes e Carafano la frase che più di tutte caratterizza la dottrina Obama è stata coniata durante il discorso di Trinidad e Tobago, durante il Summit delle Americhe, nell’aprile 2009. In quell’occasione il presidente definì gli Stati Uniti un “equal partner” cancellando con un tratto di penna il concetto di “exceptional nation” iscritto da sempre nel DNA degli americani. Il concetto fu ribadito durante la sua prima riunione del G20, durante la quale affermò di “credere nell’eccezionalità americana come un inglese crede in quella inglese ed un greco in quella greca”. Il concetto venne esteso ulteriormente nel famoso discorso del Cairo, nel giugno 2009: “Vista l’interconnessione tra tutti i paesi del mondo, ogni ordine mondiale che pretenda di elevare una nazione o un gruppo di persone al disopra degli altri è inevitabilmente destinato a fallire”. Certo, si potrebbe pensare che in fondo sono solo parole, magari dettate dalla volontà di marcare una netta differenza con la precedente amministrazione di George W. Bush. Ma anche le parole hanno un peso, e non vi è dubbio che quelle del presidente americano hanno un impatto enorme su una grossa parte della popolazione mondiale.

Come spesso accade, purtroppo, le peggiori cose sono fatte con le migliori intenzioni e non c’è dubbio che questo è il caso. Perché al di là delle buone intenzioni, i nemici dell’Occidente non interpretano tali parole come una saggia apertura al dialogo, che per noi potrebbe rappresentare un elemento di forza, ma come un segnale di debolezza, una resa, e le sfruttano per la loro propaganda contro i partner che sono al nostro fianco in questa difficile guerra. Il tutto contribuisce soltanto a rendere il mondo più insicuro, perché affermare che il mondo non ha più bisogno di un’America “faro” dell’Occidente significa lasciare le navi in balìa della tempesta. Basta chiedersi cosa sarebbe successo ai dissidenti tedeschi, polacchi, ungheresi se, anziché avere gli Stati Uniti al proprio fianco, fossero stati lasciati soli a combattere contro la tirannia sovietica. La risposta è semplice, non sarebbero mai riusciti ad abbattere il muro che separava non solo Berlino Est da Berlino Ovest, ma milioni di persone dalla libertà. Era questa consapevolezza che faceva affermare al Presidente Reagan “nessun arsenale, né alcuna arma in alcun arsenale del mondo è così formidabile come la volontà ed il coraggio delle donne e degli uomini liberi. Questa è un’arma che i nostri avversari oggi non hanno ma che noi, come americani, invece abbiamo”, una convinzione che aveva guidato l’azione di altri grandi presidenti prima di lui, da George Washington a James Monroe, ad Harry Truman solo per citarne alcuni.

La Dottrina Obama, invece, assomiglia più a quella di Woodrow Wilson od a quella disastrosa di Jimmy Carter, che puntarono più su una diplomazia neutrale, e sulle relazioni economiche per creare un “concerto di nazioni” che insieme potesse portare la pace, con conseguenze disastrose. Anche Obama ha in diverse occasioni chiarito che intende puntare su un sistema di condivisione internazionale per la risoluzione delle criticità e delle minacce, ma in questo sistema il presidente intende gli Stati Uniti come una nazione tra le nazioni, non come una guida. Il metodo del bastone e della carota è stato usato in modo quasi perverso, perché la carota è stata usata con i nemici ed il bastone con gli amici. Così si è cercato di addolcire gli ayatollah iraniani con continue aperture da un lato mentre dall’altro venivano abbandonati al proprio destino gli oppositori del regime khomeinista che rischiavano la propria vita manifestando per le strade delle principali città del paese.Non solo quindi le parole hanno un peso, ma a dimostrare che non si tratta solo di una tattica, di pura retorica, ci sono, purtroppo, i fatti. Non è un caso che Obama sia stato il primo presidente dal 1991 a non accogliere nel 2009 il Dalai Lama durante il suo viaggio a Washington, per evitare di irritare la Cina, così come non è un caso che sempre nel 2009, durante il Summit delle Americhe, sia stato il primo presidente americano a stringere (peraltro visibilmente soddisfatto) la mano al dittatore venezuelano Hugo Chavez, od ad inchinarsi a re Abdullah Bin Saud, regnante dell’Arabia Saudita.

Un altro caso emblematico è quello relativo alla trattativa per bloccare lo sviluppo del programma nucleare di Teheran. La scelta di adottare una strategia basata sul dialogo e sul soft power era destinata al fallimento perché dall'orizzonte è stata del tutto eliminato l'ipotesi dell'intervento militare. Machiavelli diceva “è molto più sicuro essere temuti che amati”, la massima forse è un po’ esagerata, ma se non altro i nostri nemici dovrebbero sapere non solo che esiste sempre un’estrema opzione ma anche che vi è la forza politica di ricorrervi, altrimenti saranno invitati ad alzare sempre di più l’asticella delle loro richieste. Come osservano Holmes e Carafano, “l’Iran non vuole dotarsi di un’arma nucleare per contrastare l’arroganza degli Stati Uniti, ma perché vuole affermare la propria leadership nella regione, e, tramite la deterrenza nucleare, prevenire qualsiasi ingerenza statunitense”. Per non parlare della volontà espressa più volte di distruggere Israele. Abbandonare il governo di Gerusalemme per tendere una mano agli ayatollah non ha reso in alcun modo il mondo più sicuro, ma in compenso ha costretto gli alleati a cercare altrove l’aiuto di cui hanno bisogno, o, peggio ancora, a preparasi ad agire da soli. Le conseguenze di una politica del genere si faranno sentire ancora per molti anni. Sarebbe ora che il Presidente Obama aprisse gli occhi ed imparasse che, per citare il grande filosofo Karl Popper, “è un comportamento arrogante tentare di portare il paradiso sulla terra, giacché in tal modo riusciremo solo a trasformare la terra in un inferno. E, se non vogliamo che ciò accada, dobbiamo abbandonare i nostri sogni di un mondo perfetto.

La Dottrina Obama in politica estera: se la conosci la eviti | l'Occidentale