di Luigi Salvatorelli – «La Stampa», 5 marzo 1966; poi in L. Salvatorelli, “La pazienza della storia”, Aragno, Torino 2015, pp. 99-104.



Punto di partenza per la comprensione di Croce storico è l’attività di Croce erudito, rappresentante sommo ed erede di quella stirpe, folta ed esimia, di eruditi napoletani in cui egli stesso volentieri si iscriveva. Nello strato più profondo della sua personalità era annidata, si può dire dall’infanzia, una fame di libri, un appetito formidabile di notizie erudite, una sete insaziata di fatti particolari. Leggere vecchi racconti, sfogliare carte di archivio, andare a caccia del fatto inedito, del particolare curioso, ricostruire pazientemente un «curriculum vitae», una genealogia di famiglia privata, è stata per Croce una vocazione originale, un piacere squisito, quasi fisico (egli stesso ha parlato dell’odore gradito e suggestivo dei libri), dalla prima gioventù fino alla vecchiaia. E perciò nella biblioteca imponente costituita dalla raccolta dei suoi scritti – si sfogli la compiutissima, minutissima bibliografia di Fausto Nicolini (L’«editio ne varietur» delle opere di Benedetto Croce) – i volumi di saggi storici e storico-letterari sono ben più numerosi delle ampie e più organiche monografie: e anzi una quantità delle sue opere storiche maggiori sono formate da raccolte di tali saggi, o anche di «puntate» uscite separatamente. Tale è il caso de La Spagna nella vita italiana durante la Rinascenza; La rivoluzione napoletana del 1799; Uomini e cose della vecchia Italia; Vite di avventure, di fede e di passione. Ed è già in questi saggi – saremmo tentati di dire, meglio di tutto in questi saggi – che egli assurge alla ricostruzione integrale, alla Storia con l’S maiuscola, quella che ricrea interpretandola la vita sociale e individuale. Forse non vi è in tutta la sua produzione storiografica nulla di superiore a Il Marchese di Vico Galeazzo Caracciolo (cento pagine delle Vite sopra citate), che ricostruisce la biografia e la personalità di un gentiluomo napoletano del Cinquecento, convertitosi al protestantesimo e trapiantatosi nella Ginevra di Calvino, ove chiuse i suoi giorni: esemplare per l’accuratezza dell’indagine, la completezza della ricostruzione, il giusto equilibrio tra l’uomo e l’ambiente storico; e infine, per la felicità del racconto, raggiungente un calore non ordinario nella limpidità cristallina della prosa crociana. Non resisto alla tentazione di citare la chiusa: «I ginevrini non vedevano più, ora, passare per le vie della loro città, riverito e affabile, il “signor marchese”; e vuota rimaneva la piccola casa di piazza San Pietro, nella quale aveva vissuto quella coppia esemplare».
Passando da un soggetto all’altro, in alternanza continua fra i generi dell’esposizione storica e fra i secoli dalla Rinascenza ad oggi, il Croce costruì le sue opere più ampie e famose – Storia del regno di Napoli (1924), Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Storia di Europa nel secolo decimonono (1932) – e sviluppò le sue teorie storiografiche. Accanto al problema della Poesia, quello della Storia ha travagliato il poderoso cervello di Benedetto Croce durante un sessantennio. È del 1894 il suo studio su La critica letteraria; dell’anno innanzi, 1893, quello su La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte; e sono della vigilia, può dirsi, della sua morte le lezioni agli studenti dell’Istituto storico di Napoli in cui tornano ancora i problemi della storia. Non possiamo fermarci qui su tali opere teoriche: ricordiamo solo come esse si compongono in ciclo, dalla citata Storia ridotta etc., passando per la Teoria e storia della storiografia (1917), fino all’incontestabile capolavoro, La storia come pensiero e come azione (1939). Quest’ultima opera potrebbe quasi dirsi una autobiografia intima, implicita, del Croce storico, politico e campione di libertà.
È un ciclo cronologico, e altresì uno svolgimento spirituale: tenendo presente che anche la memoria del 1893, a prima vista antitetica al Croce «storicistico» posteriore, in realtà inizia la battaglia contro gli invadenti sociologismo e materialismo storico. Al termine del ciclo, con La storia come pensiero e come azione, Croce si trova non solo ad avere completamente svolto il suo storicismo, nel quadro della «filosofia dello spirito», ma anche ad aver corretto quella certa impronta di positivismo alla rovescia, ad aver dissipato quella certa nebbia di conservatorismo, di accettazione passiva del fatto compiuto, aleggiante intorno al suo storicismo assoluto. Dalla solidarietà e continuità del reale, erompeva il momento ascendente, la lotta fra la libertà e le forze ad essa contrastanti, con le sue sconfitte temporanee e la sua vittoria conclusiva. Entro l’immanenza dello spirito risorgeva il dualismo morale, fonte perpetua di progresso umano. Si potrebbe persino domandare se in quel libro non ci sia una accentuazione soverchia del nesso fra pensiero e azione, fra momento teoretico e pratico, compromettente l’autonomia del primo.
«La storia come pensiero e come azione» ha trovato applicazione prima ancora di essere teorizzata. Le tre maggiori monografie storiche del Croce sono scaturite da situazioni politico-etiche, concrete della vita italiana ed europea.
L’affermazione riuscirà a prima vista strana di fronte alla prima delle tre, la Storia del Regno di Napoli, di soggetto appartenente al passato e trapassato del Mezzogiorno: opera in cui si rispecchia luminosamente quell’attaccamento del Croce alla terra e alla gente più prossimamente sua che fu elemento costitutivo della sua opera e della sua personalità. Ma chi guardi un po’ più addentro, e segua tutto lo sviluppo del tema penetrandone lo spirito, non potrà non accorgersi che il motivo conduttore è l’esame critico di certe posizioni meridionali esaltanti una peculiarità superiore della società e della storia del Mezzogiorno. E l’esame termina constatando il fallimento finale del borbonismo, per la scarsità e la fallacia della sua coscienza e azione politico-etica, e giustificando storicamente e moralmente (che è tutt’uno, per il Croce), l’assorbimento del Mezzogiorno nell’unità dello Stato italiano risorgimentale. Analisi e sintesi quanto mai opportune, di fronte al rifiorire di regionalismi e legittimismi passatisti nell’ambiente viziato del fascismo italiano ed europeo.
Superflua sarebbe una dimostrazione analoga per la Storia d’Italia e per quella d’Europa. Riscoprendo il vero volto dell’Italia post-risorgimentale nel primo cinquantennio dell’unità, il Croce demoliva uno dei maggiori puntelli delle fortune politico-morali fasciste: lezione non intesa a dovere da una parte, quella più giovine dell’antifascismo, la quale andò vagheggiando superamenti dei vecchi partiti, e addirittura dell’opera risorgimentale. Nella seconda opera, rivendicando «le stupide XIX siècle» come secolo della libertà, e affermando il valore perenne dell’opera sua, Croce fece per tutta l’Europa quello che aveva fatto con il libro precedente per l’Italia.
Ambedue le opere sono andate soggette a critiche, e la seconda più della prima. E in qualche misura, sul terreno storiografico puro, sono critiche valide. Ma esse non distruggono il valore essenziale, storico-politico o meglio storico-etico, né dell’una né dell’altra. E sul terreno specifico di valutazione della storiografia crociana quelle opere rappresentano il raddrizzamento di un albero che accennava a piegare in un senso non interamente soddisfacente. Raddrizzamenti simili non possono operarsi senza sforzare un poco l’albero nel senso opposto.
Il modo migliore – il più crociano – di rendere l’alto omaggio dovuto all’opera storica di Croce, è di formulare ciascuno per suo conto, i quesiti ulteriori che essa suscita. Uno dei quali è se in Croce storico l’attività erudita e quella ideologica si siano composte in perfetta unità; se egli sia riuscito a realizzare compiutamente la fusione dell’individuale e dell’universale, del fatto e dell’idea. Una risposta netta, in un senso o nell’altro, potrebbe essere ugualmente arbitraria. Una certa separazione è rimasta sempre tra il Croce erudito e il Croce (sit venia verbo) filosofo della storia. Ma una cosa è certa, e altamente positiva: che in Croce storico non vi sono mai fatti senza idee, né idee senza fatti. La tendenza alla fusione c’è sempre, l’ideale sintetico non è perduto di vista, anche là dove la realizzazione non sia perfetta.
L’altro e maggiore quesito è, se i due criteri crociani – luminosi e stimolanti come pochi – del «problema» e del «circolo» esauriscano il senso e la natura dell’attività storiografica; se non rimanga al di sopra di essi (e cioè non interamente risolta in essi) l’esigenza finale, per lo storico: la ricostruzione – ai limiti del possibile – di ciò che è accaduto, nella sua realtà empirica e nella sua portata storica. Rimane certo, in ogni caso, che in questo secolo nessuno più del Croce, in Italia e fuori, ha stimolato e indirizzato l’attività storiografica col fatto stesso di promuovere, rinnovare l’intelligenza della Storia.

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