di Giovanni Pugliese Carratelli – In Antonino Bruno (a cura di), “Benedetto Croce trent’anni dopo”, Laterza, Roma-Bari 1983, pp. 145-156.



Storia di un’amicizia



Negli anni in cui il sodalizio di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile cominciava ad incrinarsi, e si chiariva e accentuava un dissenso che aveva le sue radici non tanto in divergenti opinioni rispetto a particolari problemi quanto in una profonda diversità di forma intellettuale, un’altra e duratura amicizia nasceva tra Croce e un alunno di Gentile, destinata a cementarsi in un’assidua collaborazione. Quell’alunno, Adolfo Omodeo, si era distinto tra i condiscepoli per una preminente vocazione alla storiografia, sostenuta da una intelligente filologia e alimentata da un’originale problematica. Alla scuola di Gaetano Mario Columba, storico dell’antichità e particolarmente dell’impero romano, il giovine Omodeo – che era nato a Palermo nel 1889, e per lato paterno apparteneva ad una famiglia lombarda – aveva formato il proposito di studiare «la genesi del cristianesimo dal processo e nel processo della storia romana», come egli stesso ha scritto in alcune pagine che possono considerarsi l’index della sua attività di studioso e insieme il suo spirituale testamento: le pagine su Trentacinque anni di lavoro storico, composte circa un anno prima della sua morte. Non meno importante era stato per Omodeo l’incontro con un acuto critico letterario, Eugenio Donadoni, «profondo esploratore dei travagli delle anime»; e decisivo fu il magistero di un collega del Columba nella facoltà palermitana, il Gentile: grazie al quale – come disse Omodeo nella sua prolusione all’insegnamento della Storia della Chiesa nell’università di Napoli, nel 1923 – egli vide «lo spirito acquistar valore di cosmo, e nel porsi di questa coscienza assoluta, come coscienza di sé in un oggetto, la fonte eterna di storia».
Omodeo si è tuttavia distinto tra i seguaci dell’attualismo gentiliano per il costante suo impegno nella ricerca storica e per il senso del concreto che per ciò stesso egli tenne in sé vivo. Dai suoi scritti giovanili appare infatti che egli – pur essendosi «sforzato a lungo a restare nella ortodossia dell’attualismo», come ha dichiarato più tardi nel suo index – si sentiva vicino a Croce, forse più che al suo maestro. In uno dei suoi primi lavori, Res gestae e historia rerum, scritto nella temperie del circolo gentiliano e pubblicato nel 1913 nell’«Annuario della Biblioteca di Filosofia» di Palermo, si legge che stimolo alla composizione di esso fu la lettura della memoria pontaniana di Croce su Storia, cronaca e false storie del 1912: «Concorde in molti punti col Croce, in molti altri da lui divergo»; e vi si esprime il proposito di «determinare che cosa implichi in sé il concetto di storia contemporanea dal Croce così vigorosamente affermato». Più frequenti richiami a Croce ricorrono negli scritti di Omodeo tra il 1924 e il 1926, che coincidono col momento più acuto della crisi dell’amicizia di Croce e Gentile e con la grave fase della vita italiana che fu segnata dall’abrogazione delle libertà costituzionali. Certo il risoluto atteggiamento assunto da Croce nel 1925 non fu estraneo al distacco, che si è delineato già tra il 1926 e il 1927 e si è compiuto nel 1929, di Omodeo da Gentile: ma non fu estraneo soprattutto perché Omodeo era naturaliter liberale; e difatti, tra tutti gli scolari di Gentile, egli fu quello che più apertamente e decisamente – e con chiara consapevolezza delle difficoltà che a lui e alla sua famiglia avrebbe procurate la coraggiosa battaglia da lui intrapresa contro «il tentativo d’invasione fascista della cultura» – scelse l’aspra via dell’opposizione al fascismo e dell’isolamento, proprio quando l’autorità del maestro prometteva onori e benefici ai discepoli. Qui nessuna espressione è più efficace e nessuna testimonianza è più valida delle parole che Croce ha scritto in memoria dell’amico scomparso, dopo aver ricordato come quegli avesse anche trattato «di proposito questioni di pura teoria o metodologia»: «La vocazione sua principale era per il concreto dramma della storia, per il quale possedeva in grado eminente le qualità necessarie: la ricerca e il lavoro condotti sempre di prima mano e la capacità di rivivere le fonti con spirito sensibile e ricostruttivo; l’elevazione sulle tendenze particolari, e perciò unilaterali, di persone e di partiti, per indagare la tendenza che è delle cose stesse […]; la chiara luce di una fede religiosa; la religione della libertà; l’affetto, che dava al suo stile calore, e la serietà mentale, che gli dava robustezza. Possedeva nei suoi lunghi e solidi studi di storia religiosa, e principalmente cristiana, il mezzo per entrare nello spirito di taluni fatti e di taluni personaggi storici che altrimenti rimarrebbero poco chiari […]; e, versato del pari nella storia antica […] e in quella moderna, che aveva studiata sempre per bisogno di uomo moderno, fino alla vicinissima a noi e contemporanea, gli era consentito di passare con la mente dall’una all’altra e trasportare a schiarimento dell’una i lumi che raccoglieva dall’altra».
È veramente raro che uno storico abbia così vasta e varia esperienza come ebbe Omodeo: che ai tre volumi della Storia delle origini cristiane Gesù e le origini del Cristianesimo, del 1913; Prolegomeni alla storia dell’età apostolica, del 1920; Paolo di Tarso apostolo delle genti, del 1922 -, al volume sulla Storia della religione (Dalla Grecia antica al Cristianesimo) del 1924, poi ristampato a cura di Croce col titolo Religione e civiltà, e a quello sulla Mistica giovannea, del 1930, ha fatto seguire un’altrettanto cospicua serie di studi sul Risorgimento, dal libro sull’Età del Risorgimento italiano, del 1931, alle Figure e passioni del Risorgimento italiano, del 1932, ai saggi sulla Leggenda di Carlo Alberto nelle recente storiografia, del 1940, e su Vincenzo Gioberti e la sua evoluzione politica, del 1941, ai due volumi della sua maggiore interpretazione risorgimentale, L’opera politica del Conte di Cavour, del 1940. Con gli studi sul Risorgimento sono connessi i saggi sulla Cultura francese nell’età della Restaurazione, del 1946, e quelli raccolti nel volume, apparso postumo, Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione; e dalle ricerche sulle origini cristiane come da quelle sulla storia religiosa dell’Europa moderna sono nati i saggi su Alfred Loisy storico delle religioni e su Giovanni Calvino e la riforma in Ginevra, estremo studio rimasto incompiuto al pari di quello ch’egli insieme apprestava sul quinto secolo d’Atene. Questo elenco, che neppur comprende tutti gli scritti di Omodeo, dà solo un’approssimativa idea della complessità e profondità dell’opera storiografica dell’autore, morto cinquantasettenne nell’aprile del 1946. Molti dei saggi raccolti in volumi o rifusi sono apparsi nella rivista di Croce, «La Critica», tra il 1929 e il 1943, e poi nei «Quaderni della Critica»: ora, chi sa quale sia stata la condizione degli italiani dal 1925 agli anni della guerra può intendere il valore di questa collaborazione, il conforto ch’essa offriva agli italiani di libero sentire lettori della «Critica», e anche i rischi ch’essa comportava; sicché poche firme, e quasi sempre le stesse – Croce, Omodeo, Guido de Ruggiero – comparivano nei puntualissimi fascicoli della rianimatrice rivista, della quale era responsabile Francesco Flora.
Croce ha ricordato il lavoro comune in una pagina di grande significato per chi sappia comprendere ciò che la collaborazione di Croce e Omodeo ha operato per la cultura: «Le vicende della politica, distaccando lui da quella compagnia filosofica che si era venuta pervertendo in fazione fascistica, lo spinsero verso di me, che non ammettevo contaminazioni politiche nella filosofia, salvo quella che non è contaminazione perché, essendo nient’altro che pura fede nella libertà, la convalida nella sua indipendenza e ne è convalidata. Così cominciò la nostra collaborazione, che credo che anche a lui fosse utile in più rispetti, ma certamente utile fu a me, che potei, in quella relazione quasi quotidiana, in quello studiare allo stesso tavolo, in quello scambiarci osservazioni, verificare e rassicurare me stesso al saggio di un’altra mente, fondamentalmente consenziente con la mia, ma con esperienze e attitudini sue proprie, e con una propria originalità e un proprio stile; al quale effetto di arricchimento interiore non mi bastava la semplice simpatia e rispondenza di idee e mi occorreva il dippiù e diverso, che mi faceva dire che dagli scritti di quel collaboratore io “imparavo”».
Questa è una dichiarazione di capitale importanza: perché se le esperienze degli anni trascorsi tra la pratica instaurazione della dittatura fascista e la guerra hanno arricchito di nuovi stimoli e nuovi temi la meditazione filosofica e di nuove prospettive l’indagine storica di Croce, tra le più efficaci esperienze si deve annoverare proprio il sodalizio con Omodeo: così come questi ha tratto forza e ispirazione dall’assidua conversazione con Croce e dal quasi quotidiano confronto di idee. «C’era tra noi» – ha scritto Croce nel discorso per l’inaugurazione dell’Istituto italiano per gli studi storici, da lui fondato in Napoli, che aveva desiderato affidare alla direzione di Omodeo – «qualcosa di più obiettivo e di più sicuro che non fosse l’amicizia personale: una cerchia di pensiero nella quale ci ritrovavamo sempre e respiravamo con lo stesso petto la stessa aria e ci riconfortavamo». In armonia con questo, nelle pagine aggiunte nel 1930 alla Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Croce non soltanto ha messo in rilievo come nelle sue opere di storia della religione Omodeo abbia saputo, quasi unico tra i cultori di quella disciplina, «rivivere il dramma umano delle religioni e intendere i valori spirituali che esse, per le loro vie travagliose, e talvolta raggirate ed oscure, vengono producendo ed elaborando»; e alla ricordata prolusione napoletana si è richiamato per illustrare la risoluzione della storia della religione nella storia della filosofia, e inoltre ha riprodotto testualmente, come «postilla» al secondo volume di quella Storia, uno scritto di Omodeo, Storicismo e azione, del 1928, nel quale l’autore riprende e sviluppa un tema che due anni prima egli aveva polemicamente trattato in un saggio intitolato Storicismo formalistico.
A questa intima consonanza d’intelletti è stato probabilmente propizio l’isolamento in cui il loro stesso sentimento di dignità e libertà aveva posto, non senza loro amarezza, i due studiosi: in quella domestica concentrazione, interrotta da rari incontri con amici vicini o lontani – incontri che erano ancor più rari per Omodeo – sono nate le opere che oggi ci illuminano. Sarebbe, più che difficile, vano e inavveduto ricercare quali suggestioni possano essere state esercitate dall’uno sull’altro: perché la profonda loro affinità di vocazione, di formazione e d’ispirazione creava un tal accordo tra le loro menti, che per loro valgono come per pochi i versi di Dante che Croce appose alla dedica della sua Storia d’Europa nel secolo decimonono a Thomas Mann: «Pur mo venieno i tuo’ pensier tra’ miei Con simile atto e con simile faccia Sì ch’io d’intrambi un sol consiglio fei».
Ovviamente, nessuno dei due ha sentito a sé estranei i temi e i pensieri dell’altro; ma ciascuno ha meditato i propri temi suo Marte; e tra Croce e Omodeo s’è realizzata quella concordia discors su cui insisteva Croce in lettere a Gentile quando tra loro s’andava dissolvendo ogni concordia. Anche alla concordia discors di Croce e Omodeo non è rimasta estranea la politica: ma una politica affatto diversa, per sentimento e per intenti, da quella che aveva approfondito il divario tra Croce e Gentile. Diversamente dal rapporto tra i due filosofi, il legame tra i due storici si è fondato su una comune attenzione alla concretezza storica, sul ripudio d’ogni retorica, su un comune sentimento etico.
Chi legge i Trentacinque anni di lavoro storico di Omodeo, che è, in proporzioni ridotte, un «contributo alla critica di se stesso», riconosce la «parentela» con Croce, e si avvede che il più giovane ha meditato l’opera del più anziano, lo sente veramente maestro, ma ha proceduto e procede per la sua via, che è parallela ma non identica all’altra: «Nella ricerca concreta» – scrive lì Omodeo – «attuai con il massimo rigore queste immedesimazione del mondo nell’individuale, che nel campo della metodologia il Croce magistralmente definiva all’inizio del secondo decennio del secolo. Io a quel metodo arrivavo attraverso una vissuta esperienza. Solo in quel modo mi era possibile vedere lo svolgimento della storia». È attraverso questa intensa esperienza di ricerca storica che egli perviene all’intelligenza del mito, «perenne momento del nostro pensiero speculativo e religioso»: «Il continuo urgere di una forza cosmica in limitati individui porta da un lato ad una parziale ma perenne insufficienza speculativa; ma in questa limitatezza l’uomo trova i mezzi d’azione pratica. È questa la funzione perenne del mito». «Intendevo che la religione non vive solo di pensieri teologici, ma è connessa con tutte le forme di civiltà, da cui nasce e che da essa si svolgono; che la filosofia non si genera dalla sola filosofia. Era questa l’esigenza della crociana dialettica dei distinti […]. La storia religiosa mi si trasformava spontaneamente in storia della civiltà e delle idee madri di essa».
Prima che nascesse la loro amicizia, Croce e Omodeo avevano assunto un assai diverso atteggiamento nella polemica circa la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale: come è noto, Croce era stato contrario all’intervento, al pari di altri autorevoli politici e uomini di studio; Omodeo aveva invece condiviso l’entusiasmo e le speranze della gioventù colta, che vedeva nella rottura della Triplice Alleanza e nella sconfitta degli Imperi centrali la necessaria premessa di un’Europa libera. Di questi ideali e dei generosi slanci ch’essi suscitavano egli, che aveva valorosamente militato, si fece storico, studiando per primo, in una serie di saggi editi nella «Critica», i sentimenti e le passioni che nei loro diari e nelle loro lettere dal fronte avevano espresso, con l’immediatezza di chi non ha preoccupazioni stilistiche, quelli che, volontari entusiasti o cittadini ligi al dovere, si erano esposti alla vicenda di guerra e alla morte: quei saggi furono raccolti in volume, col titolo Momenti della vita di guerra, nel 1934. Dieci anni dopo, la luce di quegli ideali non era spenta in lui; ma lo storico doveva fare un’amara constatazione: «Al ritorno dalla prima guerra mondiale, che non aveva saputo giustificarsi con un suggello d’accresciuta civiltà, si maturava in me […] il convincimento di essere figlio di un’età di decadenza». L’età diversa, le esperienze diverse hanno alimentato in Omodeo amarezza e tristezza più a fondo e più a lungo che non in Croce; ma anche lui soccorreva la sua vichiana fede di storico: «Allora sentii più viva l’attrazione delle primavere storiche, delle grandi età creatrici, delle grandi creazioni e dei grandi protagonisti della storia». Così egli dedicò intenso studio alla storia del Risorgimento, «la fase creatrice della libertà che rigenerava ed unificava i popoli della penisola»; prima nel volume di sintesi, poi nelle ricordate monografie, mise in luce il carattere europeo del Risorgimento italiano e ne liberò l’immagine da deformazioni convenzionali o faziose – con un impegno reso più vivo dalla nostalgia di quel tempo fervido di pensiero e di azione e dal desiderio della libertà cara agli uomini del Risorgimento. L’esperienza della ricerca sulla storia del primo cristianesimo e sul valore e l’efficacia dei miti, e la severa filologia che quegli studi esigevano, avevano affinato la sua sensibilità critica e le penetrazione esegetica; e ciò gli fu prezioso sussidio nell’interpretazione di certi miti apologetici risorgimentali, così come nella comprensione dell’ispirazione e dell’opera di Mazzini e di Cavour: «Anche qui rintracciai ed esplicai miti apocalittici, radici sostanzialmente religiose della nostra resurrezione politica: cercai di differenziare e di specificare fuori da ogni entusiasmo confusionario la parte dei diversi protagonisti: definii la funzione politico-religiosa e creatrice di forze del Mazzini, ridussi la parte che esageratamente si attribuiva, per opera del Gentile, al Gioberti; sgombrai il macchinario dell’apoteosi di Carlo Alberto che falsava l’intellezione del Risorgimento, spiegai anche nei minuti particolari l’opera costruttrice del conte di Cavour, il significato dell’attuazione del regime libero nel regno subalpino e l’involontaria collaborazione tra il Mazzini e il Cavour». Qui la mente di Omodeo ha toccato un vertice, che è tra i più alti del pensiero storico moderno: «Con la sua fede idealistica il Mazzini dilatava al conte il campo del possibile, oltre le stesse speranze di lui […]. Ora questa curiosa vicenda per cui, a volta a volta, e Mazzini e Cavour e Garibaldi vedon corretta, limitata e modificata nell’urto reciproco la propria opera e ognun d’essi compie una funzione specifica e distinta, e le opere loro s’integrano oltre le loro mire, ed essi son mortificati nelle ambizioni demiurgiche e ridotti ad organi di un tutto più vasto, tutto ciò è il segno della realtà vitale del popolo italiano: quella realtà vitale che non pochi storici, lasciandosi fuorviare da una fantasia mitica del Mazzini, vanno cercando e non trovano nelle masse. In questa visione dell’organica vita del popolo italiano lo storico può render giustizia al vinto. Certamente Mazzini fu spogliato dei frutti dell’opera sua; i risultati conseguiti furono una decurtazione del suo ideale escatologico, universale, in base al criterio del possibile. Ma la formazione concreta del popolo d’Italia per un momento gravitò tutta sulla fede adamantina del Mazzini».
Questa visione «europea» del Risorgimento, più vasta e insieme più precisa di quella tradizionale, e congiunta con una più chiara cognizione degli ideali e delle dottrine che avevano preparato e guidato l’azione risorgimentale, sono in nuce in alcuni saggi scritti tra il 1926 e il 1927 e raccolti sotto il titolo Uomini e vita morale del Risorgimento italiano nel volume Tradizioni morali e disciplina storica, del 1929. In quei saggi si intravedono anche gli originali temi che, in intima connessione con problemi risorgimentali, sono stati successivamente approfonditi da Omodeo nei suoi studi sull’età della Restaurazione: «Si trattava – ha scritto l’autore nel suo index – «d’intendere l’irrompere del moderno uomo europeo, laico libero e liberale, dotato del senso della storia e dei problemi della civiltà e già profondamente differenziato dal filosofo umanitario del Settecento. Questo personaggio non è deduzione astratta dalla filosofia dell’immanenza tedesca della fine del Settecento e del principio dell’Ottocento, anche se, per vie complicate e insieme impreviste, come sempre nella storia, quel pensiero vi concorre».
La vocazione storica di Omodeo gli faceva intuire i profondi legami che uniscono fra loro le idee e le vicende di età distanti, lontane di secoli: dallo gnosticismo di De Maistre, da Paolo di Tarso a Calvino, da Giansenio a Manzoni e Mazzini; e questa sua facoltà intuitiva si manifesta già in una lettera di Omodeo studente, del 1911, ov’è delineato un programma di ricerca al quale corrisponde pienamente l’opera da lui compiuta: «Voglio rivelare, come storico, una vita quasi del tutto obliata da noi moderni latini: la vita del cristianesimo nei suoi grandi momenti: voglio però abbracciare insieme parecchie attività: voglio studiare anche il nostro Risorgimento. Acquistare coscienza di tutto il movimento storico che ci ha creati significa dominare col pensiero anche il momento presente: la storia mi condurrà dinanzi ai problemi politici del nostro tempo». Une pensée de jeunesse réalisée per l’âge mûr? Meglio: una vita dedicata al pensiero, come quella di Croce. E come a Croce, la sua dignità e libertà gli hanno imposto, nella durezza dei tempi, l’isolamento: ma come si potrebbe immaginare diverso il carattere morale dei due grandi storici?
Un’amicizia di pensatori, fatta di mutui stimoli e conforti, di scambi di idee e discussioni, non può essere immune da dissensi: giustamente Croce aveva parlato, in occasione di un suo divario d’opinioni da Gentile e da qualche scolaro di questo, nel 1920, di concordia discors; e giustamente aveva soggiunto: «Noi siamo concordia discors in noi stessi, ed è naturale che così si sia tra amici intelligenti». I contrasti con Omodeo sorsero – ma furono di ben altra natura che quelli con Gentile, e tali che non lasciarono traccia nell’opera comune. L’uno e l’altro, dopo la catastrofe della guerra, avevano dovuto dedicare molta parte del loro tempo a quell’attività politica a cui, come storici e come cittadini, si sentivano chiamati e da cui per circa un ventennio si erano volontariamente esclusi, fedeli alla loro idea liberale e al loro senso di dignità civile. Nella situazione postbellica, particolarmente difficile a Napoli, l’autorità stessa di cui li aveva investiti la loro opera di studiosi, impose loro gravi responsabilità pubbliche: ma in ciò Croce poteva giovarsi dell’esperienza fatta, prima della dittatura, come senatore del regno e come ministro; mentre per Omodeo la vita politica, – contenuta per di più entro i limiti posti dalla guerra ch’era ancora in corso nell’Italia centro-settentrionale, dal rigido controllo degli Alleati nella parte occupata e dalla presenza di un limitato governo regio in alcune province della Puglia – costituiva una esperienza affatto nuova. Eppure pochi esperti di politica mostrarono allora tanta maturità di giudizio e tanta dignità quanto quello studioso di storia vissuto per lunghi anni in disagio, con pochi contatti fuori del suo ambiente napoletano, ostacolato dalla penuria dei mezzi nei suoi viaggi di studio e dall’angustia mentale o dalla viltà di qualche custode di documenti nelle sue ricerche d’archivio, come avvenne per i documenti cavouriani inediti. Croce e Omodeo sono ancora i due nomi che riscuotono la grata ammirazione di chi ricorda quei mesi nei quali giungeva al suo epilogo il dramma della guerra. Che il temperamento di Omodeo fosse dissimile da quello di Croce, che una diversa valutazione di uomini o di fatti abbia provocato, più che qualche attrito, una fugace amarezza nell’uno o nell’altro, è cosa di poco momento, di fronte alla solidarietà che esisteva tra i due amici, indissolubilmente legati dalla nobiltà del loro carattere, dalle loro meditazioni e dai loro ideali, dall’opera comune a cui entrambi avevano atteso con fede e con coraggio. Anche se talvolta, nell’azione politica, le loro vie non conversero, se i loro giudizi non sempre coincisero, quell’antico e profondo legame non venne mai meno; e il più giovine fu sempre grato e devoto al più anziano, come questi ebbe sempre carissimo l’altro. Fu Croce a spingere Omodeo ad entrare nel Partito d’Azione, per dargli modo di operare nella rinascente vita politica, sperando insieme che la chiarezza di idee dell’amico valesse a render chiare quelle dei suoi compagni di partito; ciò che non avvenne, sicché Omodeo, nel 1945, abbandonò quel partito. E fu Croce a volere fermamente, contro il partito cattolico e contro il desiderio di Badoglio, che ad Omodeo venisse affidato il ministero della Pubblica Istruzione nel governo formato a Salerno nel 1944; e parimente insistette – ma questa volta invano, per l’angusta visione degli uomini che allora dirigevano il Partito d’Azione – perché Omodeo continuasse a reggere quel dicastero nel governo formato da Bonomi dopo la liberazione di Roma. Il carteggio tra Croce e Omodeo, gli articoli pubblicati da Omodeo nella rivista di politica da lui fondata nel 1945, «L’Acropoli», son documento di un’amicizia inalterata e inalterabile. Nel marzo del 1945 un giornalista monarchico mosse calunniose accuse ad Omodeo, fiero assertore dell’ordinamento repubblicano, diversamente da Croce, sentimentalmente legato all’istituto monarchico ma severo critico del comportamento di Vittorio Emanuele III e del principe di Piemonte. Omodeo era allora in un campo militare, in attesa di partire per il fronte con l’esercito italiano di liberazione, nel quale s’era fatto richiamare per dar ancora una volta un esempio agli studenti della sua Università; e prima ancora che egli fosse informato del disgustoso attacco, Croce intervenne, quale «vecchio compagno di lavoro», con una vigorosa difesa ch’era un alto elogio di «uno dei maggiori, dei più robusti nostri scrittori di storia».
Qualche mese prima, in una lettera dell’11 gennaio scritta all’amico per ringraziarlo del saggio sulla Riforma storica di Augustin Thierry, preparato per i «Quaderni della Critica», Croce, dopo aver espresso, «con pienezza di convincimento», la sua soddisfazione per quell’«eccellente saggio di metodologia storica su questioni delle più alte e delle più difficili», è spinto dal desiderio di fugare ogni pur lieve ombra tra lui e l’amico a fargli «una sincerissima confessione»: «Questo sentimento» – di piacere e di gratitudine per il riconoscimento con cui si chiude il saggio – «mi fa considerare con una sorta di sorriso certi contrasti dovuti ai nostri diversi temperamenti nelle cose che non riguardano gli studi e la vita morale, ma i mezzi da adoperare nella vita politica. […] Figuratevi se […] mi può venire nell’anima l’idea di un distacco dall’intelletto col quale a pieno consento! E questo per la politica, che io esercito come il più penosi dei miei doveri». E conclude che «chi scrive pagine come queste che avete scritto sul Thierry, ha un limite nella propria capacità politica. Farà politica perché è anche lui sollecitato da un sentimento di dovere, ma, inferiore in certo modo alla politica, deve conservarsi ad essa superiore e non intralasciare l’opera della scienza o deve a questa tornare interamente appena gli sarà possibile».
Quei «certi contrasti» rimangono parimente marginali per Omodeo, anche se gli danno malinconia. Ma la sua devozione a Croce non conosce mutamenti; e nel febbraio del 1946, per l’ottantesimo anno dell’amico, apre con un Saluto a Benedetto Croce il fascicolo dell’«Acropoli», la rivista a cui Croce s’è astenuto dal collaborare, perché la considera una rivista di partito. Poi, poco più di un mese prima della morte, ha composto, per una raccolta di scritti in onore di Croce, un articolo sulla Collaborazione con B. Croce durante il ventennio: dal primo incontro con Croce, nel luglio del 1913, seguito da una pausa di dieci anni, al nuovo incontro del 1923, quando Omodeo si stabilì a Napoli, al lungo sodalizio che di lì a poco ebbe principio. Lo scritto è importante, anche per chiarire la progressiva rottura con Gentile; e la rievocazione degli anni di lavoro comune nella casa di Croce è la storia della resistenza degli intellettuali in patria: «Lavoravamo alla stessa grande scrivania, scambiavamo poche parole. Ormai il consenso delle nostre idee era così profondo che quasi non avevamo bisogno di comunicativa. […] Il silenzioso proposito era quello di non lasciar cadere quell’ultima posizione della cultura italiana incontaminata dal fascismo. […] La libertà la si rivendica, la si usurpa anche in forma di privilegio. E Benedetto Croce, creando questa particolarissima posizione per sé, fece cosa utilissima per il «paese». Infine ricorda che «la politica ci separava nella valutazione degli uomini e delle possibilità». Ma «rimane un profondo accordo nel campo teorico. E nel collaboratore rimane la convinzione che l’eroica difesa della cultura italiana ed europea sostenuta dal Croce […] ha un valore universale per quanti aspirano a più nobile vita tra gli uomini».


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