di Leo Valiani – In “Fra Croce e Omodeo. Storia e storiografia nella lotta per la libertà”, Le Monnier, Firenze 1984, pp. 111-119



1956. Dieci anni dalla morte di Adolfo Omodeo, uno dei maggiori storici dell’Italia contemporanea e, anche, uno dei più schietti animatori del nostro movimento di Liberazione.
Non vi è modo migliore di commemorarlo che di ripubblicare, rileggere, meditare le sue pagine. Bene ha fatto l’editore Einaudi a ristampare, in nuove edizioni ampliate e rivedute, una serie di scritti storici di minor mole (ma non di minor pregio), già opportunamente raccolti, qualche anno fa, nei due volumi intitolati Il senso della storia e Difesa del Risorgimento.
Speriamo che si provveda tuttavia a curare nuove edizioni integrali di quelle opere dell’Omodeo che non si trovano più in libreria (anche se proprio da qualcuna di esse sono stati tratti alcuni dei saggi che compongono i volumi menzionati) e che non si dimentichino, in questa circostanza, gli ardenti scritti e discorsi etico-politici del 1944-’45, editi in un libro (Per la riconquista della libertà), che non poté avere, allora, la diffusione che meritava, oppure stampati soltanto in opuscoletti, nei giornali o nella rivista Acropoli, ch’egli fondò e che non gli poté sopravvivere.
Ci sia lecito parlare soprattutto della Difesa del Risorgimento. Lo storico del Cristianesimo, che l’Omodeo fu, va certamente ristudiato. Le sue magistrali pagine sul pensiero della Francia postrivoluzionaria rimangono insuperate. La storiografia del Risorgimento è coinvolta oggi, in parte grazie all’insegnamento stesso dell’Omodeo, in parte per lo sviluppo di motivi intellettuali e pratici diversi dai suoi, in un largo processo di revisione, nello svolgimento del quale giova sempre, anche dai punti più distanti, tornare proprio ad Adolfo Omodeo.
L’unità del suo pensiero non può non destare ammirazione. La sua concezione risorgimentale si alimenta della chiara coscienza che egli, difensore del laicismo, sempre ebbe, di quel che è perennemente vivo, immortale assai più delle Chiese costituite, dalle quali può esulare anzi del tutto, nell’intima religiosità dello spirito, in quello stesso spirito di rinascita, missione, libertà, che preparò il compimento, in breve volger di tempo, dell’Unità d’Italia, come Stato e come Nazione. La profonda comprensione del Risorgimento da parte dell’Omodeo rivela altresì la sua erudita e insieme realistica consapevolezza di quel che gli italiani presero dalla circolazione della cultura e della politica europea, e segnatamente da quella Francia, dal cui influsso alcuni fra i grandi dell’iniziativa italiana, il Mazzini, il Gioberti, l’opera dei quali l’Omodeo dilucidò meglio di come chiunque altri non sapesse fare, hanno pur voluto, in diversi periodi della loro attività, ostentatamente emanciparsi.
Nel riconoscimento dell’importanza e durevolezza dell’influenza francese, anche in coloro che, a partire dalle prime delusioni del giacobinismo italico, la combattono, ma non possono farlo altro che servendosi delle sue stesse armi, degli strumenti politici, sociali, culturali introdotti nella penisola dalla Francia della rivoluzione, di Napoleone, limitatamente alle idee mantenutesi di poi soprattutto da quella della Restaurazione, è la salda base del giudizio dell’Omodeo sulla natura del Risorgimento italiano. Non si può derivare il Risorgimento direttamente, senza soluzione di continuità, dalle riforme settecentesche. La sua genesi va situata nelle vicende che misero capo al 1815. Quell’anno l’Italia è già assai diversa dalla settecentesca. Diversa è anche l’Europa e la nozione di una comune coscienza etica europea ispira i primi credenti nella riscossa italiana. La materia dell’ispirazione è in gran parte d’origine romantica francese: la missionaria filosofia della storia del De Maistre, il liberalismo civilizzatore del Guizot e del Cousin, il profetismo del Lamennais, nel trapasso dall’intransigenza cattolica alla democrazia politica, alla riforma della società e della stessa Chiesa, senza trascurare il pensiero sociale sansimoniano e la resurrezione del repubblicanesimo dopo la Tre Gloriose. Ma proprio questa discendenza del Risorgimento da un’epoca di rivoluzione, conferisce ad esso il diritto e il dovere dell’esclusivismo rivoluzionario. La Francia agì in Italia, ma precisamente per questo l’Italia può e deve agire da sola, in polemica con la stessa Francia, alla quale è lecito e doveroso opporre la fede in un nuovo primato, religioso, morale, fatto di concretezza speculativa, di spirito di sacrificio, di volontà di riscatto e di vigile senso della libertà.
L’Europa coeva all’Italia unita sarà ben diversa da quella che aveva visto i sussulti iniziali della «Giovine Italia». Il cambiamento non sarà stato, sempre, in meglio. La delusione dei migliori italiani, che si fa luce subito dopo il 1870, è dovuta in parte non trascurabile a certi mutamenti deteriori dell’ambiente europeo. Ma anche gli apostoli e gli eroi vivono in un mondo terreno. Il compito dello storico non è di idealizzarli, ma di mostrarceli uomini fra gli uomini. Se ciò vale persino per il Mazzini, a maggior ragione vale per il Gioberti o il Settembrini. E s’intende come valga per il Cavour. L’acume dell’Omodeo è davvero straordinario nell’analisi tanto delle virtù positive quanto delle limitazioni e delle incoerenze, di cui sovente rivela l’intrinseca necessità, dei suoi grandi personaggi.
Il primato non sarà né potrebbe essere raggiunto, nella sua formulazione necessariamente mitica, nel Gioberti, anzi, secondo Omodeo, mitica e utilitaria. Ma la nazione italiana sarà inserita nel centro della viva realtà europea. La formazione dell’Unità italiana contribuirà notevolmente al rivoluzionamento dello spirito europeo e di tutto il sistema politico del continente.
La visione del Risorgimento, luminosa nel suo punto di partenza, risulta chiara anche nei suoi limiti invalicabili e imprescindibili. Tra Custoza e il colpo di stato, il Gioberti concepì bensì, a Parigi, la speranza di un aiuto decisivo da parte della democrazia francese ormai socialisteggiante. L’Omodeo esamina con molta perspicacia le allusioni socialistiche del «Rinnovamento» giobertiano. Ma la conclusione realistica è che si trattava di frutti fuori stagione, non solo perché spazzati via, nel giro di pochi mesi, da Luigi Napoleone, ma perché, comunque, non c’era posto per essi nel movimento italiano, che poteva vincere solo a patto di essere non più (ma anche non meno) che nazionale e liberale, di non lacerarsi in divisioni e lotte di classe. Fu coerenza del Mazzini, nota l’Omodeo, aver sostenuto intransigentemente questa necessaria limitazione, anche contro i suoi stessi amici, via via permeati di aspirazioni socialistiche, i quali peraltro, tutte le volte che vollero agire, non potevano che scendere, come il Pisacane, nel solco scavato col metodo mazziniano. Del Mazzini medesimo l’Omodeo scorge però l’anacronismo, tanto negli eccessi della sua polemica contro gli stessi aspetti liberali della politica di Cavour, quanto soprattutto nella persistenza nelle congiure insurrezionali, anche al termine della sua missione, anche dopo la liberazione di Roma.
Parrebbe quasi, per esempio nella polemica con Piero Gobetti e nella recensione al Pisacane di Nello Rosselli, che l’Omodeo non avesse sentore di quelli che oggi si considerano gli orientamenti più moderni di storiografia del Risorgimento, riveduta al lume della problematica delle questioni sociali. Ma non è così. A guardar bene, anche dagli accenni sparsi negli scritti del volume in parola, risulta come l’Omodeo non credesse nell’esistenza di una funzione attiva del socialismo nel Risorgimento italiano, non già per scarsa conoscenza della storia del socialismo medesimo, ma al contrario proprio perché ne conosceva da vicino quanto meno la genesi e la filiazione in Francia, sotto la Monarchia di luglio e la Seconda Repubblica. Possiamo non dargli ragione quando accetta, in polemica con lo stesso Salvatorelli, il giudizio comune della storiografia liberale moderata sui torti dei socialisti parigini nel ’48, senza avvedersi che quel giudizio non tiene conto della sciagurata furia antisocialista dei liberali, e persino dei repubblicani radicali francesi, nella primavera dell’anno folle, di cui pure già pochi mesi dopo, ma troppo tardi, parecchi di essi non mancheranno di pentirsi, anche se non sempre lo confesseranno. Ma è difficile dargli torto quando constata che l’inevitabile derivazione ideologica francese dei primi socialisti italiani doveva renderli in ogni modo inattuali nella fase culminante, vittoriosa, del Risorgimento, in cui i rapporti con la Francia si ponevano ormai su tutt’altro piano.
In verità, l’assenza di simpatia, nell’Omodeo, per il socialismo risorgimentale non gli impedì di stimolare tutta una serie di importanti ricerche, direttamente o indirettamente connesse con i presupposti del movimento socialista italiano. È nota l’influenza dell’Omodeo sull’opera di Alessandro Galante Garrone. Del consiglio che egli diede a Nello Rosselli, di approfondire cioè lo studio dei socialisti e dei democratici, ricchi di fermenti socialistici, formatisi in Francia sotto la Monarchia di luglio, hanno pure dovuto tener conto gli studiosi, come si può scorgere nei lavori del Saitta, del Romano, e anche dell’estensore di questa nota.
D’altra parte, l’indagine storica del movimento socialista ha come premessa quella del terreno sul quale esso si svolge, e dunque, tra l’altro, delle peculiarità dello sviluppo sociale nelle regioni che saranno poi più sensibili all’agitazione socialistica; delle ragioni d’essere della corrente democratico-repubblicana nelle cui fila la maggior parte dei socialisti italiani ha fatto le sue prime armi; della polemica fra Stato e Chiesa, la cui virulenza induce per un verso molti clericali ad agitare i temi della contrapposizione del proletariato alla borghesia liberale, per un altro molti anticlericali ad abbracciare il materialismo militante, il che ne faciliterà il passaggio al socialismo internazionalista dell’epoca. Pur senza aver nullamente di mira la storia specifica del socialismo italiano, al dissodamento di questi terreni d’indagine l’Omodeo ha dato notevolissimi contributi. Fu egli ad auspicare insistentemente lo studio accurato delle peculiarità della società siciliana, nel quadro dello sviluppo risorgimentale, effettuato pochi anni or sono dal Romeo. La demolizione dell’agiografia sabauda, che i repubblicani del ’48 aveva invano combattuta, vide in prima linea l’Omodeo affiancato dal Salvatorelli e dallo Spellanzon. E il processo che condusse alla rottura fra lo Stato e la Chiesa e alla formazione obbligata del laicismo anticlericale, ha avuto nell’Omodeo, in temi di riconciliazione fra Chiesa e governo fascista, il suo relatore più lucido e coraggioso, dal quale lo Jemolo, d’ispirazione parzialmente diversa, non ha certo prescisso.
La battaglia delle idee sulla storia dovette poi farsi, come sempre in tempi drammatici, azione etico-politica. Al fianco di Benedetto Croce e di Guido De Ruggiero, distinguendosi via via dal Croce per maggior radicalismo, Adolfo Omodeo divenne uno dei più decisi esponenti radicali della lotta antifascista per la libertà. Si pose il problema del contenuto politico e sociale dello spirito di libertà, delle fonti dell’ispirazione pratica, delle mete verso cui tendere. Il Croce stesso aveva conciliato, nella Storia d’Europa e in altri scritti, così nell’ardente polemica con Luigi Einaudi sul liberalismo, l’ispirazione mazziniana con la cavouriana. Ma legami di dimestichezza personale con molti che, malgrado lo scredito delle istituzioni monarchiche negli anni recenti, oltre una riesumazione materialmente intesa e perciò anacronistica di Cavour non volevano in alcun modo andare, nonché divergenze dai «mazziniani» del nostro tempo, di scuola prevalentemente salveminiana, trattennero il Croce a meno di metà della strada che ad un certo momento era pur sembrato avesse voluto battere. L’Omodeo la percorse per intiero.
All’obiezione che il Croce aveva mosso al binomio «Giustizia e Libertà», in cui gli pareva che ci fosse una contaminazione del più alto concetto del pensiero moderno, rappresentato dal secondo di questi due termini, con uno pseudo-concetto usato a fini di rivendicazioni contingenti di riforma economica, l’Omodeo poteva replicare, in sostanza, che non di questo si trattava, ma della necessaria distinzione fra il concetto speculativo della Libertà, che è per l’appunto di tutto il pensiero moderno, ed è anzi l’idea giustificatrice di tutto il movimento storico, in ogni sua fase, e la fede (intesa come azione morale) nella libertà liberatrice. Questa è di coloro che per amore di una maggiore, più estesa, più schietta libertà etico-politica, sono decisi a condurre fino in fondo le battaglie di emancipazione del loro tempo, per «la redenzione dei popoli e delle classi asservite», senza lasciarsi fermare da preoccupazioni di salvaguardia degli interessi particolari sociali, economico-politici, precostituiti. In questo senso Adolfo Omodeo interpretò dunque il Partito d’Azione, al quale aderì sin dal principio e di cui divenne uno dei più insigni rappresentanti negli ultimi mesi della cospirazione, nella vita politica e culturale di Napoli appena liberata, nel primo governo antifascista unitario e alla Consulta Nazionale.
Fu detto che aveva vera vocazione rivoluzionaria. Ed infatti avrebbe voluto che l’epurazione dagli istituti e dai gerarchi del fascismo dell’Italia tornata a regime di libertà fosse stata condotta con energia rivoluzionaria – seppure aliena da spirito persecutorio – e che il Partito d’Azione avesse rivendicato per sé il compito di dirigerla ed attuarla, dal momento che gli altri partiti del CLN avevano subito rivelato le loro esitazioni davanti a tale scabrosa questione. Deplorò sempre che, al riguardo, non gli fosse stato dato ascolto. Voleva egualmente animata da passione rivoluzionaria mazziniana la lotta per la repubblica. Gli sembrava che su questi binari si dovesse percorrere la strada dalla rivalutazione del Risorgimento all’opera più radicale di liberazione e rinnovamento.
In campo economico-sociale riteneva invece, e lo deprecava, che il Partito d’Azione si lasciasse andare all’uso eccessivo di freseologia rivoluzionaria astratta, non sostenuta da interessi e passioni reali, ricadendo così, davanti ai problemi nuovi, quasi negli stessi errori di metodo dei giacobini napoletani, pure svelati e criticati già dal Cuoco. Avrebbe accettato, in verità, qualsiasi misura legale di socializzazione, ma solo a condizione che fosse stata seriamente studiata e presentata e che potesse venire accolta dall’opinione democratica come un mezzo necessario per eliminare i monopoli plutocratici, i privilegi particolaristici nocivi al paese, e suscettibile di accrescere perciò per i proletari la sfera della libertà liberatrice. Procedere diversamente gli sembrava massimalismo dannoso, capace soltanto o di spingere a statolatria dittatoriale o di fare il gioco degli stessi interessi retrivi che si volevano debellare.
L’andamento delle cose internazionali lo amareggiò profondamente. Fu tra i primi, se non il primo, in Italia, a denunciare con lucida foga, sin dall’estate 1945 (sulle colonne dell’Italia Libera di Milano e dell’Acropoli), gli effetti perniciosi, anche tragici, che la divisione del mondo in zone d’influenza avrebbe avuti; il soffocamento del libero svolgimento etico-politico, sociale, anche culturale che sarebbe derivato dalla sottomissione delle nazioni minori o minorate, l’Italia compresa, a tutele esterne paternalistiche, per non dire di tipo semicoloniale; la recrudescenza di nazionalismi oscurantisti. Gli sembrava che soltanto la federazione europea, reincarnazione del sogno di Mazzini, avrebbe potuto costituire una via di salvezza.
Per intanto continuava a combattere per il rinnovamento interno. Non si era lasciato trattenere per alcuna amicizia personale o politica dal criticare, pubblicamente, le incertezze o inefficienze dei ministri preposti ai dicasteri che gli stavano particolarmente a cuore nei governi Bonomi e Parri. Ma difese appassionatamente Ferruccio Parri contro quella che denunciava come un’imboscata di liberali annebbiati da interessi diversi da quelli della libertà. Sperava di poter avere ancora, alla Consulta, l’occasione di suscitare una battaglia di riscossa dei valori dell’effettiva liberazione etica che aveva subito veduto gravemente minacciati dalla fine del governo della Resistenza.
La prematura morte gli impedì di portare a compimento numerosi elevati propositi, nel campo della vita politica, non meno che in quello degli studi. Ma il solido edificio della sua opera gli sopravvive e gli sopravviverà a lungo.

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