Dio ha donato Giacomo Leopardi all'Italia come fosse una seconda luce. Per salvarci dalla catastrofe dobbiamo seguire i suoi consigli, dobbiamo scolpirci nella memoria i suoi insegnamenti:
''Non lo dissimuliamo. La nostra nazione riunita tutta sotto un sol capo sarebbe formidabile ai suoi nemici; un popolo, come il nostro generoso e nobile, colle immense risorse somministrate dal suo territorio e dalle sue facoltà intellettuali, potrebbe concepire dei vasti disegni ed ottenere dei grandi successi. Egli fu un tempo signore dell'universo, potrebbe ora gettar dell'ombra su tutte le nazioni. Ma l'Italia sarebbe perciò felice? Per asserirlo, converrebbe supporre che la felicità della nazione consista nella forza delle armi, nell'esser terribile allo straniero, nel poter con vantaggio cominciare una guerra e continuarla senza cedere, nel possedere tutto ciò che fa d'uopo per esser temuta e che è necessario per non temere, nell'abbondanza dei mezzi per sostenere la gloria dei propri eserciti e la fortuna delle proprie armi. Ma se la vera felicità dei popoli è riposta nella pace necessaria alle arti utili, alle lettere, alle scienze, nella prosperità del commercio e dell'agricoltura, fonti della ricchezza delle nazioni, nell'amministrazione paterna di Sovrani amati e legittimi; possiam dirlo con verità, non v'ha popolo più felice dell'italiano. Provveduto con liberalità dalla natura di tutto ciò che fa d'uopo ad alimentare il commercio, abitatore di un terreno che rende con usura all'agricoltore ciò che gli venne affidato, ricco dei doni della mente e di spiriti grandi in ogni genere, condotto ad un grado di civilizzazione che niun popolo oltrepassò giammai, che può egli desiderare per condizione e compimento della sua felicità? La pace. Questo bene, oggetto dei voti di tutte le nazioni, è necessario per l'Italia, che solo su di esso può fondare le speranze di un prospero stato. Non si fa la guerra che per ottenere la pace. […]
Divisa in piccoli regni, l'Italia offre lo spettacolo vario e lusinghiero di numerose capitali animate da corti floride e brillanti, che rendono il nostro suolo sì bello agli occhi dello straniero. Questa specie di grandezza può consolarci di quella che noi perdemmo. Sì, noi fummo grandi una volta: noi rigettammo quei Galli, che il tempo ha resi più forti, fuori delle nostre terre, noi li cacciammo alle loro tane, noi li soggiogammo, noi li facemmo nostri schiavi. Dalle colonne d'Ercole sino al Caucaso noi stendemmo la gloria del nostro nome e il terrore delle nostre armi. Tutto si sottomise al nostro impero, tutto cedé al nostro valore, e noi fummo i signori del mondo. Fummo per questo felici? Le discordie civili, le guerre, le vittorie stesse non ci lasciavano un'ora di quella pace che tutto il mondo sospira. Il tempio di Giano sempre aperto vomitava disordini e sventure. Padroni dell'universo, noi non lo eravamo di noi stessi. Ci convenne conquistare la sede delle scienze per apprendere a regolare le nostre passioni. Terribili a tutto il mondo, noi eravamo, ciò che ora è la Francia, l'oggetto della esecrazione di tutti i popoli. […] Ci basti. Ebbimo ancor noi il nome di tiranni, fummo ancor noi tinti di sangue. La nostra grandezza, la nostra felicità deve dunque consistere in fare degli infelici? Italiani! Rinunziamo al brillante ed appigliamoci al solido. Quando ci si propone un potere pernicioso o una pace di cui tutto ci garantisce la durata, rigettiamo l'uno ed eleggiamo l'altra: quello ci darebbe dei nomi e questa ci dà delle cose; quello una gloria fantastica e questa dei reali vantaggi. Una nazione non deve esitare nella scelta della sua vera felicità. Noi abbiamo a sperare un riposo veramente durevole. Se qualcuno volesse turbarlo, noi saremmo difesi da tutta l'Europa. […] L'Italia sarà dunque la più felice di tutte le nazioni, e il mantenerla in questo stato sarà dell'interesse di tutta l'Europa. Essa non avrà a temere che la nemica dell'universo, la Francia.
È tempo, italiani, di risvegliare il vostro entusiasmo.
[…] Quella nazione sleale, che ha perduto omai ogni diritto alla stima d'Europa, potrebbe mai tornare ad esercitare il suo tirannico imperio sopra il più bel paese della terra? No, francesi. Noi meritiamo altri destini. Una nazione sì nobile non avrà più l'onta di esservi suddita […] l'Italia per colpa della Francia ha già perduta una parte del suo splendore. Ambizioso e vile, quel popolo sciagurato ci ha rapiti i più cari oggetti della nostra compiacenza e del nostro innocente orgoglio: i preziosi monumenti delle arti. L'Italia gettò un grido di lamento quando vide le sue contrade spogliarsi di ciò che ne formava la gloria, saccheggiarsi i suoi palagi, i suoi tempii privarsi dei loro più vaghi ornamenti, che formavano l'ammirazione dell'Europa e che intieri secoli non valgono a rimpiazzare. Ella vide lunghe file di carri carichi delle sue spoglie recarsi a valicare le Alpi e ad abbellire terre straniere, mentre il Francese avido e sitibondo, chiedeva nuove prede e nuova esca alla sua insaziabile ingordigia; […] lo straniero, non potendo rapirti gl'ingegni, ne usurpa i frutti e ti priva del modo di mostrare all'Europa con autentiche testimonianze la tua superiorità. Italiani! Si vuol privarvi di quella gloria che avete acquistata da tanto tempo e che tanti secoli vi confermarono. Non permettete che lo straniero profitti del vostro silenzio. […]
Omai ogni francese è degno di odio, perché niun francese riconosce i delitti della sua nazione. Accecati dall'amore verso la loro patria, essi non sanno confessare che ella ha avuto dei torti. Chiamano grandezza d'animo ciò che è orgoglio sfrenato, sensibilità ciò che è fanatismo. […] Noi fummo un tempo più di loro potenti, ma non esitiamo a confessare che noi fummo dei tiranni. […]
Francesi! È giunto il tempo del vostro abbassamento. Il vostro potere declina all'occaso, come declinava il nostro ai tempi di Teodorico e di Totila. […] Tiranni! esecrazione dei popoli, orrore dei posteri, abominio dei secoli! Tremate. […]
La Francia e l'Italia, disse non ha guari un francese, dovrebbono rinunciare per sempre l'una all'altra. Ancora un momento, francesi, e i vostri desideri saranno adempiti. Noi verremo fra voi colla spada alla mano, noi combatteremo finché non avremo assicurato un riposo stabile alle nostre famiglie, una pace solida alla nostra patria, e poi vi abbandoneremo per sempre. Solo coll'abbandonarvi ricupereremo quella felicità che ci avete tolta e che il nostro valore e quello dell'Europa ci avranno ridonata.''
Giacomo Leopardi, Agl'Italiani, Orazione in occasione della liberazione del Piceno, 1815.
«Dovunque si è trovato amor vero di patria, si è trovato odio dello straniero; dovunque lo straniero non si odia come straniero, la patria non si ama. Lo vediamo anche presentemente in quelle nazioni, dove resta un avanzo dell’antico patriotismo.
Ma quest’odio accadeva massimamente nelle nazioni libere. Una nazione serva al di dentro non ha vero amor di patria, o solamente inattivo e debole, perché l’individuo non fa parte della nazione se non materialmente. L’opposto succede nelle nazioni libere, dove ciascuno considerandosi come immedesimato e quasi tutt’uno colla patria, odiava personalmente gli stranieri sì in massa come uno per uno.
Con queste osservazioni, spiegatA la gran differenza che si scorge nella maniera antica di considerare gli stranieri e di operare verso le altre nazioni paragonata colla maniera moderna. Lo straniero non aveva nessun diritto sopra l’opinione, l’amore, il favore degli antichi. E parlo degli antichi nelle nazioni più cólte e civili, e in queste, degli uomini più grandi, cólti, ed anche illuminati e filosofi. Anzi la filosofia di allora, che dava molto più nel segno della presente, insegnava e inculcava l’odio nazionale e individuale dello straniero come di prima necessità alla conservazione dello stato, della indipendenza, e della grandezza della patria. Lo straniero non era considerato come proprio simile. La sfera dei prossimi, la sfera dei doveri, della giustizia, dell’onesto, delle virtù, dell’onore, della gloria stessa, e dell’ambizione, delle leggi ecc., tutto era rinchiuso dentro i limiti della propria patria, e questa sovente non si estendeva più che una città. Il diritto delle genti non esisteva, o in piccolissima parte e per certi rapporti necessari e dove il danno sarebbe stato comune se non avesse esistito.
La nazione ebrea così giusta, anzi scrupolosa nell’interno, e rispetto a’ suoi, vediamo nella scrittura come si portasse verso gli stranieri. Verso questi ella non avea legge; i precetti del Decalogo non la obbligavano se non verso gli Ebrei: ingannare, conquistare, opprimere, uccidere, sterminare, derubare lo straniero, erano oggetti di valore e di gloria in quella nazione, come in tutte le altre; anzi era oggetto anche di legge, giacché si sa che la conquista di Canaan fu fatta per ordine divino, e così cento altre guerre, spesso nell’apparenza ingiuste, co’ forestieri. Ed anche oggidì gli ebrei conservano, e con ragione e congruenza, questa opinione, che non sia peccato l’ingannare o far male comunque all’esterno, che chiamano, e specialmente il cristiano, Goi (גוי) ossia gentile e che presso loro suona lo stesso che ai greci barbaro (vedi il Zanolini, il quale dice che, nel plurale però si deve intendere, chiamano oggi i cristiani גוים Gojim), riputando peccato solamente il far male a’ loro nazionali.»
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 880-2.
«L’anima de’ partiti è l’odio. Religione, partiti politici, scolastici, letterarii, patriotismo, ordini, tutto cade, tutto langue, manca di attività e di amore e cura di se stesso, tutto alla fine si scioglie e distrugge, o non sopravvive se non di nome, quando non è animato dall’odio o quando questo per qualunque ragione l’abbandona. La mancanza di nemici distrugge i partiti, e per partiti intendo pur le nazioni ec. ec. (2 settembre 1821).»
Giacomo Leopardi, Zibaldone , 1606.
«L’amore universale, anche degl’inimici, che noi stimiamo legge naturale (ed è infatti la base della nostra morale, siccome della legge evangelica in quanto spetta a’ doveri dell’uomo verso l’uomo, ch’è quanto dire a’ doveri di questo mondo) non solo non era noto agli antichi, ma contrario alle loro opinioni, come pure di tutti i popoli non inciviliti, o mezzo inciviliti. Ma noi avvezzi a considerarlo come dovere sin da fanciulli, a causa della civilizzazione e della religione che ci alleva in questo parere sin dalla prima infanzia, e prima ancora dell’uso di ragione, lo consideriamo come innato. Così quello che deriva dall’assuefazione e dall’insegnamento, ci sembra congenito, spontaneo, ec. Questa non era la base di nessuna delle antiche legislazioni, di nessun’altra legislazione moderna, se non fra’ popoli inciviliti. Gesú Cristo diceva agli stessi Ebrei, che dava loro un precetto nuovo ec. Lo spirito della legge Giudaica non solo non conteneva l’amore, ma l’odio verso chiunque non era Giudeo. Il Gentile, cioè lo straniero, era nemico di quella nazione; essa non aveva neppure né l’obbligo né il consiglio di tirar gli stranieri alla propria religione, d’illuminarli ec. ec. Il solo obbligo, era di respingerli quando fossero assaliti, di attaccarli pur bene spesso, di non aver seco loro nessun commercio. Il precetto diliges proximum tuum sicut te ipsum, s’intendeva non già i tuoi simili, ma i tuoi connazionali. Tutti i doveri sociali degli Ebrei si restringevano nella loro nazione.»
Ibidem, 1710.
“E quanto ai romani, vedi in questo particolare la fine del capo VI di Montesquieu, Grandeur etc. Oltre che i romani, accordando la cittadinanza a ogni sorta di stranieri conquistati, gli agguagliavano più che mai potessero ai cittadini e compatrioti; ma questa cosa non riuscì loro niente bene, com’è noto e come ho detto in altro pensiero, p. 457.
Tornando al proposito, Platone nella Repubblica, lib. V (vedilo) dice: i Greci non distruggeranno certo i greci, non li faranno schiavi, non desoleranno le campagne, né bruceranno le case loro; ma in quella vece faranno tutto questo ai barbari. E le orazioni d’Isocrate, tutte piene di misericordia verso i mali de’ greci, sono spietate verso i barbari o persiani, ed esortano continuamente la nazione e Filippo a sterminarli. […] questa opposizione di misericordia e giustizia verso i propri, e fierezza e ingiustizia verso gli stranieri, è il carattere costante di tutti gli antichi greci e romani, e massime de’ piú cittadini e assolutamente de’ piú grandi e famosi; nominatamente poi degli scrittori, anche i piú misericordiosi, umani e civili.
[…] la filantropia, o amore universale e della umanità, non fu proprio mai né dell’uomo né de’ grandi uomini e non si nominò se non dopo che, parte a causa del cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria e sottentrato il sogno dell’amore universale, (ch’è la teoria del non far bene a nessuno), l’uomo non amò veruno fuorché se stesso, ed odiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e compagni, in confronto dei quali lo straniero gli dovea naturalmente essere, com’é oggi, meno odioso, perché si oppone meno a’ suoi interessi e perch’egli non ha interesse di soverchiare, invidiare ec. i lontani, quanto i vicini.”
Giacomo Leopardi, Zibaldone, 883-4.
”mansuescere corda
nescia, pro Superi! et nil non immite parata
gens Italum pro laude pati”
“la stirpe degl’Italici non sa ammansire il proprio animo
o Dei! e non c’è niente di atroce che non sia pronta ad affrontare per la gloria”
Silio Italico, Le guerre puniche, versi 490-2.
L'Italia è la più marziale delle nazioni, nei nostri cuori dimora la
MARTIALITAS OPTIMA MAXIMA
''Noi Italiani siamo stati, e saremo in avvenire, i maestri di guerra al mondo. Da Romolo e Scipione noi portammo l'arte della guerra alla più grande perfezione. La guerra gallica, le guerre puniche, offrono gli esempi de' più vasti concetti strategici che potrebbe concepire un moderno generale.''
Carlo Pisacane citato in Giano Accame, Socialismo tricolore, Oaks Editrice, 2019, pagina 68.
''Gli italiani tanto pei mezzi d'attacco, quanto per la costruzione delle fortezze, divennero i maestri di tutta Europa [...] In Italia, prima che altrove, si hanno una scienza e un'arte della guerra trattate in modo affatto sistematico e razionale, e qui pure s'incontrano i primi esempi di guerre condotte con un intento puramente artistico.''
Jakob Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze, Sansoni 1876, pagina 134.
”… Ivan III si proclamò zar di tutta la Russia, rendendosi conto al tempo stesso che il suo nuovo stato richiedeva una capitale più adeguata e meglio difesa. Rivolse dunque la sua attenzione all’Italia, considerata il centro dell’architettura europea ma anche dell’ingegneria militare e delle fortificazioni. Già dal 1473 lo zar aveva contatti con l’Italia …”
Paul Bushkovitch, Breve storia della Russia. Dalle origini a Putin, Einaudi, 2013, pagina 53.