di Leo Valiani – In L. Valiani, “Fra Croce e Omodeo. Storia e storiografia nella lotta per la libertà”, Le Monnier, Firenze 1984, pp. 120-138.
In uno dei suoi ultimi scritti, Adolfo Omodeo rievocò la propria collaborazione con Benedetto Croce. Sono pagine che non si leggono senza commozione. Furono anni di solitudine, soprattutto dal 1928 al 1942. Dall’iniziale simpatia per il fascismo, Croce ed Omodeo erano passati ad un atteggiamento di ferma avversione alla dittatura trionfante. Non potevano esprimersi con gesti clamorosi, che – a parte i gravi rischi personali che avrebbero implicato – non sarebbero stati consoni alla loro funzione di grandi studiosi. Il loro compito era di operare per la causa della libertà, in cui credevano, da filosofi e da storici, attraverso i loro libri e la rivista la Critica che finì col gravare quasi per intiero sulle loro spalle.
«La libertà – scrisse poi Omodeo – la vivevamo davvero come una religione, talora col dubbio di non vederla più spuntare sul nostro orizzonte». Poi, nel ’43, il fascismo cadde e si seppe, è ancora Omodeo che parla, che quei libri, quella rivista erano stati avidamente letti, dai detenuti politici, nelle prigioni e nelle isole di confino. Io sono uno di quei lettori – anche oggi nutro per Croce filosofo e storico la stessa ammirazione di allora – e sono qui per testimoniare l’importanza che le sue pagine, ma anche quelle di Omodeo, ebbero per me. Ne ebbero altresì, in misura non minore, per i più giovani, formatisi interamente in clima fascista. La rivalutazione della libertà politica da parte di Croce, la disgiunzione d’essa dal liberismo economico, dall’iniziativa privata, il che voleva dire la sua compatibilità con ardite riforme sociali, la contrapposizione al nazionalismo fascista del patriottismo risorgimentale, inseparabile ormai, per Croce e per Omodeo, dalla difesa della libertà di tutta l’Europa contro la tirannide che la voleva asservire, il concetto di libertà liberatrice che Omodeo, sulle orme di Mazzini ma con ben più realistica coscienza storica, opponeva alla libertà ad uso soltanto di chi la possiede, furono dei fari di luce per centinaia di giovani che poi si cimentarono nella Resistenza.
Sono passati decenni da allora, tanti decenni da quando, confinato a Ponza, lessi per la prima volta la Critica. Aveva ragione Croce di raccomandare che si inframezzasse sempre alla lettura degli autori del giorno la rilettura dei grandi. Omodeo, per me, si colloca fra di loro.
Rileggerlo fa pensare, meditare sui veri problemi, non su quelli che vorrebbero condurci a leggi storiche universali, e che, come Croce a mio avviso giustamente sosteneva, sono solo astrazioni, ma sui problemi particolari, concreti che si presentano sempre in nuove specifiche configurazioni e come tali vanno affrontati e che tuttavia ci collegano coi problemi analoghi, anche se diversi, dei nostri predecessori, vicini e lontani. La sintesi fra storia ideale eterna e storie particolari specifiche – ideale da meditare quella, da studiare, con ricerche effettive, concrete, questa – è sempre una viva esigenza in Omodeo.
Certo, Omodeo era partito da Gentile, non da Croce. Nel saggio più approfondito che si abbia su Omodeo, quello bellissimo di Aldo Garosci, si osserva che in Gentile, suo maestro all’Università di Palermo, Omodeo trovava l’esaltazione della grandezza, dell’eroismo spirituale, dell’interiorità cui anelava. In proposito, valeva però, anche se l’ardente giovane che Omodeo era non poteva ancora rendersene conto, l’osservazione di Croce che gioverebbe se sorgessero dei grandi, degli eroi, dei santi, ma non giova auspicare che sorgano. Di fatto, come Garosci sottolinea, molti intellettuali anelavano in Europa, prima della guerra del 1914, a grandi cose e vennero, invece, a dettar legge, degli uomini tanto abili quanto rozzi, violenti, dispotici.
Ma in Gentile Omodeo trovava anche, in opposizione proprio a Croce, l’identificazione della storia in fieri con la storiografia. E questo era, ed è, un problema reale anche se a mio avviso la riflessione e l’esperienza vissuta provano che la soluzione giusta è quella crociana, che Omodeo finì infatti con l’accettare, molto più tardi.
Come scrisse a Gentile nel ’12, per il ventitreenne Omodeo, fervido professore, il pensiero doveva essere contemporaneamente cultura ed educazione e svolgersi, dunque, in primo luogo nella scuola, nell’insegnamento, mentre per Croce, che credeva poco alla validità filosofica e storiografica delle lezioni dei professori, ciò era se non irrilevante, secondario.
Da questo punto di vista, Omodeo era, già allora, più democratico di Croce. Ci vorrà la dittatura fascista perché egli s’accorga che il democraticismo di Gentile era solo apparente. In ogni modo, se fu, a lungo, seguace di Gentile, non lo fu mai in modo esclusivo. Sempre Garosci ha notato, credo giustamente, che allo studio del cristianesimo lo portava l’interesse per quel modernismo che Croce e Gentile erano concordi nel respingere. Non fu, però, modernista. Non si limitava a sottoporre i sacri testi alla critica filologica e storica, ma negava la trascendenza, come la negavano Croce e Gentile.
Era più vicino a Gentile nella valorizzazione del bisogno di fede, nell’enfasi posta sul significato universale, perenne dell’apostolato, nel desiderio di cercarne la presenza anche nel Risorgimento italiano, e nel considerare i Vangeli, a prova della coincidenza di filosofia e di storia in atto, come autocoscienza storica, in forma mitica, e azione storica nello stesso tempo. La sua comprensione della forza dei miti, presso i primitivi, gli antichi e i moderni, andava tuttavia al di là dello spiritualismo logico di Gentile. La questione dei miti era sul tappeto, proprio allora, nella cultura europea e spingeva verso indagini che lo spiritualismo non sarebbe stato in grado di contenere. Più in là, Omodeo avrebbe giustificato il suo distacco da Gentile, dovuto, come vedremo, a profondi motivi politici, con la conclusione, raggiunta già da tempo da Croce, che la filosofia, e al pari d’essa il mito, non nasce dalla filosofia, ma dalla vita.
Prima ancora di farsi crociano, Omodeo confessò a Gentile che per il suo studio su Paolo di Tarso ricavava i materiali non solo dalla storia religiosa, sibbene dalla «storia-politica, storia della cultura, storia sociale». Di per sé non v’era molto, in questo programma, che Gentile non potesse accettare. Quando, però, esso fosse stato coerentemente applicato, si sarebbe visto ch’era incompatibile con una dittatura totalitaria, assolutamente bisognosa di giustificarsi con la reinterpretazione e la manipolazione del presente e del passato, politico, culturale, religioso.
Stando a Garosci, e diversamente da come altri studiosi hanno affermato, Omodeo non trasse dalla sua attiva partecipazione, sul fronte, alla guerra del 1915-’18, l’ispirazione per la sua concezione storiografica del Risorgimento. Infatti, a volgersi a questa egli pensava già prima della guerra. Quando vi si volgerà concretamente, valorizzerà, così nel suo Cavour, ma già in lavori precedenti, proprio quanto nelle sue lettere dal fronte svalutava con sdegno e perfino con furore, il parlamento!
La critica anti-parlamentare era di moda in Italia, e in buona parte dell’Europa, ancor prima del ’14. La guerra la esasperò nel sentimento dei combattenti, che giudicavano futili e anzi colpevoli, mentre essi si sacrificavano, i tornei parlamentari. Un ufficiale come Piero Calamandrei si esprimeva, a proposito del parlamentarismo, in termini non meno indignati di quelli di Omodeo. In questo senso, Garosci può scrivere che Omodeo tornò dalla guerra così come vi era entrato, sol che – aggiungo io – più iracondo.
Per un altro verso, a differenza di Garosci io direi, però, che Omodeo scoprì in trincea qualche cosa che prima non conosceva. Scoprì che il popolo combattente, il nostro umile buon soldato – per dirla con le sue stesse parole – valeva più dei comandanti supremi. Egli esalterà, pubblicando le lettere dei caduti, l’idealismo degli intellettuali, ufficiali di complemento, ma li esalterà, implicitamente, quando non esplicitamente, a scapito di chi politicamente e militarmente dirigeva la guerra e non a scapito dei semplici fanti, dei quali scorgeva invece l’apporto decisivo, pur nel mezzo della loro frequente incomprensione delle finalità superiori del conflitto e dei loro sentimenti elementari spesso prosaici e per niente eroici, come nella cruda realtà della vita di guerra in effetti sempre accade.
In realtà, aggiungeva Omodeo, l’italiano come soldato è migliore del cittadino: è, per amore o per forza, più disciplinato.
Se non altro, la guerra combattuta rafforzò in Omodeo il desiderio d’un radicale rinnovamento politico e civile. In questo senso, lo predisponeva, inizialmente, al fascismo, che nacque sotto la stessa insegna del mutamento, sedicente rivoluzionario. «La guerra, scrisse nel settembre 1916 a Gentile, prima della vittoria dev’essere un lungo purgatorio delle nostre colpe nazionali». Essa ha messo a nudo, insisteva nel settembre 1918, i nostri «difetti d’ordine, difetti di disciplina, d’educazione popolare, di tradizioni politiche e militari». Ma, concludeva, siamo «una nazione che conta appena cinquant’anni di vita», dunque ci eleveremo. Se ciò non accadeva già, continuava l’anno dopo, nel turbinoso 1919, la colpa era della «dilapidazione della nostra vittoria» da parte del governo di Roma e dell’ostilità del «bottegaio d’America», ossia dell’opposizione di Wilson alle rivendicazioni italiane.
Su questa strada, avrebbe potuto raggiungere, come tanti altri intellettuali della sua generazione, le file del nazionalismo. L’omonimo partito non gli diceva invece nulla. «Un partito di risorgimento nazionale non lo vedo» scrisse a metà del ’19 a Gentile, «né le forze grezze della nazione che allora (a Caporetto) ci salvarono, sono organizzate in alcuna maniera adesso». L’avventura dannunziana non lo tentò: vi si opponeva tutta la sua cultura. La nomina di Croce a ministro della Pubblica Istruzione lo lasciava perplesso. Approvava lo spirito informatore del disegno che Croce preannunciava ma – ribadiva – «il Croce alle sue riforme non ha saputo creare una base morale nel pubblico e nei professori». Tornava l’obiezione giovanile al convincimento di Croce che la vera cultura potesse svilupparsi anche al di fuori della scuola e della politica in atto. Per lo stesso motivo, l’ascesa di Gentile al ministero lo rendeva raggiante.
Meno di due anni dopo, scriverà a Gentile d’essere sempre stato dubbioso della bontà del fascismo, che inizialmente aveva considerato come la rinascita, in circostanze nuove e mutate, e quindi con metodi mutati, con molta maggior partecipazione popolare, della destra storica liberale che a suo tempo aveva portato a vittoria il Risorgimento e il cui operato era stato poi avvilito dal trasformismo e dal giolittismo. Quando, nell’agosto del 1924, scriveva questo, Matteotti era già stato assassinato e dal punto di vista del liberalismo genuino era già doveroso rimproverare al fascismo, come Omodeo nella stessa lettera a Gentile gli rimproverava, «una cieca violenza» ed era più che lecito constatare, come Omodeo constatava, che dal punto di vista del ripristino della legalità statutaria Mussolini aveva fallito e la politica che poteva ancora fare era solo «quella delle cambiali che se danno un momentaneo benessere intaccano il patrimonio». Dichiarava ancora, pochi giorni dopo, il 27 agosto 1924, di avere scarsa stima delle opposizioni – che peraltro, a mio parere, conosceva poco – ma di essersi convinto che Mussolini portava la responsabilità sia pure indiretta, del delitto Matteotti e che «questo governo della teppa, questa demolizione folle d’ogni norma giuridica e morale… che questo delirio futurista dello Stato fascista che si deve sostituire… allo Stato liberale, siano un disastro nazionale».
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