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    Predefinito Adolfo Omodeo - Il bilancio di una vita (1984)

    di Leo Valiani – In L. Valiani, “Fra Croce e Omodeo. Storia e storiografia nella lotta per la libertà”, Le Monnier, Firenze 1984, pp. 120-138.



    In uno dei suoi ultimi scritti, Adolfo Omodeo rievocò la propria collaborazione con Benedetto Croce. Sono pagine che non si leggono senza commozione. Furono anni di solitudine, soprattutto dal 1928 al 1942. Dall’iniziale simpatia per il fascismo, Croce ed Omodeo erano passati ad un atteggiamento di ferma avversione alla dittatura trionfante. Non potevano esprimersi con gesti clamorosi, che – a parte i gravi rischi personali che avrebbero implicato – non sarebbero stati consoni alla loro funzione di grandi studiosi. Il loro compito era di operare per la causa della libertà, in cui credevano, da filosofi e da storici, attraverso i loro libri e la rivista la Critica che finì col gravare quasi per intiero sulle loro spalle.
    «La libertà – scrisse poi Omodeo – la vivevamo davvero come una religione, talora col dubbio di non vederla più spuntare sul nostro orizzonte». Poi, nel ’43, il fascismo cadde e si seppe, è ancora Omodeo che parla, che quei libri, quella rivista erano stati avidamente letti, dai detenuti politici, nelle prigioni e nelle isole di confino. Io sono uno di quei lettori – anche oggi nutro per Croce filosofo e storico la stessa ammirazione di allora – e sono qui per testimoniare l’importanza che le sue pagine, ma anche quelle di Omodeo, ebbero per me. Ne ebbero altresì, in misura non minore, per i più giovani, formatisi interamente in clima fascista. La rivalutazione della libertà politica da parte di Croce, la disgiunzione d’essa dal liberismo economico, dall’iniziativa privata, il che voleva dire la sua compatibilità con ardite riforme sociali, la contrapposizione al nazionalismo fascista del patriottismo risorgimentale, inseparabile ormai, per Croce e per Omodeo, dalla difesa della libertà di tutta l’Europa contro la tirannide che la voleva asservire, il concetto di libertà liberatrice che Omodeo, sulle orme di Mazzini ma con ben più realistica coscienza storica, opponeva alla libertà ad uso soltanto di chi la possiede, furono dei fari di luce per centinaia di giovani che poi si cimentarono nella Resistenza.
    Sono passati decenni da allora, tanti decenni da quando, confinato a Ponza, lessi per la prima volta la Critica. Aveva ragione Croce di raccomandare che si inframezzasse sempre alla lettura degli autori del giorno la rilettura dei grandi. Omodeo, per me, si colloca fra di loro.
    Rileggerlo fa pensare, meditare sui veri problemi, non su quelli che vorrebbero condurci a leggi storiche universali, e che, come Croce a mio avviso giustamente sosteneva, sono solo astrazioni, ma sui problemi particolari, concreti che si presentano sempre in nuove specifiche configurazioni e come tali vanno affrontati e che tuttavia ci collegano coi problemi analoghi, anche se diversi, dei nostri predecessori, vicini e lontani. La sintesi fra storia ideale eterna e storie particolari specifiche – ideale da meditare quella, da studiare, con ricerche effettive, concrete, questa – è sempre una viva esigenza in Omodeo.
    Certo, Omodeo era partito da Gentile, non da Croce. Nel saggio più approfondito che si abbia su Omodeo, quello bellissimo di Aldo Garosci, si osserva che in Gentile, suo maestro all’Università di Palermo, Omodeo trovava l’esaltazione della grandezza, dell’eroismo spirituale, dell’interiorità cui anelava. In proposito, valeva però, anche se l’ardente giovane che Omodeo era non poteva ancora rendersene conto, l’osservazione di Croce che gioverebbe se sorgessero dei grandi, degli eroi, dei santi, ma non giova auspicare che sorgano. Di fatto, come Garosci sottolinea, molti intellettuali anelavano in Europa, prima della guerra del 1914, a grandi cose e vennero, invece, a dettar legge, degli uomini tanto abili quanto rozzi, violenti, dispotici.
    Ma in Gentile Omodeo trovava anche, in opposizione proprio a Croce, l’identificazione della storia in fieri con la storiografia. E questo era, ed è, un problema reale anche se a mio avviso la riflessione e l’esperienza vissuta provano che la soluzione giusta è quella crociana, che Omodeo finì infatti con l’accettare, molto più tardi.
    Come scrisse a Gentile nel ’12, per il ventitreenne Omodeo, fervido professore, il pensiero doveva essere contemporaneamente cultura ed educazione e svolgersi, dunque, in primo luogo nella scuola, nell’insegnamento, mentre per Croce, che credeva poco alla validità filosofica e storiografica delle lezioni dei professori, ciò era se non irrilevante, secondario.
    Da questo punto di vista, Omodeo era, già allora, più democratico di Croce. Ci vorrà la dittatura fascista perché egli s’accorga che il democraticismo di Gentile era solo apparente. In ogni modo, se fu, a lungo, seguace di Gentile, non lo fu mai in modo esclusivo. Sempre Garosci ha notato, credo giustamente, che allo studio del cristianesimo lo portava l’interesse per quel modernismo che Croce e Gentile erano concordi nel respingere. Non fu, però, modernista. Non si limitava a sottoporre i sacri testi alla critica filologica e storica, ma negava la trascendenza, come la negavano Croce e Gentile.
    Era più vicino a Gentile nella valorizzazione del bisogno di fede, nell’enfasi posta sul significato universale, perenne dell’apostolato, nel desiderio di cercarne la presenza anche nel Risorgimento italiano, e nel considerare i Vangeli, a prova della coincidenza di filosofia e di storia in atto, come autocoscienza storica, in forma mitica, e azione storica nello stesso tempo. La sua comprensione della forza dei miti, presso i primitivi, gli antichi e i moderni, andava tuttavia al di là dello spiritualismo logico di Gentile. La questione dei miti era sul tappeto, proprio allora, nella cultura europea e spingeva verso indagini che lo spiritualismo non sarebbe stato in grado di contenere. Più in là, Omodeo avrebbe giustificato il suo distacco da Gentile, dovuto, come vedremo, a profondi motivi politici, con la conclusione, raggiunta già da tempo da Croce, che la filosofia, e al pari d’essa il mito, non nasce dalla filosofia, ma dalla vita.
    Prima ancora di farsi crociano, Omodeo confessò a Gentile che per il suo studio su Paolo di Tarso ricavava i materiali non solo dalla storia religiosa, sibbene dalla «storia-politica, storia della cultura, storia sociale». Di per sé non v’era molto, in questo programma, che Gentile non potesse accettare. Quando, però, esso fosse stato coerentemente applicato, si sarebbe visto ch’era incompatibile con una dittatura totalitaria, assolutamente bisognosa di giustificarsi con la reinterpretazione e la manipolazione del presente e del passato, politico, culturale, religioso.
    Stando a Garosci, e diversamente da come altri studiosi hanno affermato, Omodeo non trasse dalla sua attiva partecipazione, sul fronte, alla guerra del 1915-’18, l’ispirazione per la sua concezione storiografica del Risorgimento. Infatti, a volgersi a questa egli pensava già prima della guerra. Quando vi si volgerà concretamente, valorizzerà, così nel suo Cavour, ma già in lavori precedenti, proprio quanto nelle sue lettere dal fronte svalutava con sdegno e perfino con furore, il parlamento!
    La critica anti-parlamentare era di moda in Italia, e in buona parte dell’Europa, ancor prima del ’14. La guerra la esasperò nel sentimento dei combattenti, che giudicavano futili e anzi colpevoli, mentre essi si sacrificavano, i tornei parlamentari. Un ufficiale come Piero Calamandrei si esprimeva, a proposito del parlamentarismo, in termini non meno indignati di quelli di Omodeo. In questo senso, Garosci può scrivere che Omodeo tornò dalla guerra così come vi era entrato, sol che – aggiungo io – più iracondo.
    Per un altro verso, a differenza di Garosci io direi, però, che Omodeo scoprì in trincea qualche cosa che prima non conosceva. Scoprì che il popolo combattente, il nostro umile buon soldato – per dirla con le sue stesse parole – valeva più dei comandanti supremi. Egli esalterà, pubblicando le lettere dei caduti, l’idealismo degli intellettuali, ufficiali di complemento, ma li esalterà, implicitamente, quando non esplicitamente, a scapito di chi politicamente e militarmente dirigeva la guerra e non a scapito dei semplici fanti, dei quali scorgeva invece l’apporto decisivo, pur nel mezzo della loro frequente incomprensione delle finalità superiori del conflitto e dei loro sentimenti elementari spesso prosaici e per niente eroici, come nella cruda realtà della vita di guerra in effetti sempre accade.
    In realtà, aggiungeva Omodeo, l’italiano come soldato è migliore del cittadino: è, per amore o per forza, più disciplinato.
    Se non altro, la guerra combattuta rafforzò in Omodeo il desiderio d’un radicale rinnovamento politico e civile. In questo senso, lo predisponeva, inizialmente, al fascismo, che nacque sotto la stessa insegna del mutamento, sedicente rivoluzionario. «La guerra, scrisse nel settembre 1916 a Gentile, prima della vittoria dev’essere un lungo purgatorio delle nostre colpe nazionali». Essa ha messo a nudo, insisteva nel settembre 1918, i nostri «difetti d’ordine, difetti di disciplina, d’educazione popolare, di tradizioni politiche e militari». Ma, concludeva, siamo «una nazione che conta appena cinquant’anni di vita», dunque ci eleveremo. Se ciò non accadeva già, continuava l’anno dopo, nel turbinoso 1919, la colpa era della «dilapidazione della nostra vittoria» da parte del governo di Roma e dell’ostilità del «bottegaio d’America», ossia dell’opposizione di Wilson alle rivendicazioni italiane.
    Su questa strada, avrebbe potuto raggiungere, come tanti altri intellettuali della sua generazione, le file del nazionalismo. L’omonimo partito non gli diceva invece nulla. «Un partito di risorgimento nazionale non lo vedo» scrisse a metà del ’19 a Gentile, «né le forze grezze della nazione che allora (a Caporetto) ci salvarono, sono organizzate in alcuna maniera adesso». L’avventura dannunziana non lo tentò: vi si opponeva tutta la sua cultura. La nomina di Croce a ministro della Pubblica Istruzione lo lasciava perplesso. Approvava lo spirito informatore del disegno che Croce preannunciava ma – ribadiva – «il Croce alle sue riforme non ha saputo creare una base morale nel pubblico e nei professori». Tornava l’obiezione giovanile al convincimento di Croce che la vera cultura potesse svilupparsi anche al di fuori della scuola e della politica in atto. Per lo stesso motivo, l’ascesa di Gentile al ministero lo rendeva raggiante.
    Meno di due anni dopo, scriverà a Gentile d’essere sempre stato dubbioso della bontà del fascismo, che inizialmente aveva considerato come la rinascita, in circostanze nuove e mutate, e quindi con metodi mutati, con molta maggior partecipazione popolare, della destra storica liberale che a suo tempo aveva portato a vittoria il Risorgimento e il cui operato era stato poi avvilito dal trasformismo e dal giolittismo. Quando, nell’agosto del 1924, scriveva questo, Matteotti era già stato assassinato e dal punto di vista del liberalismo genuino era già doveroso rimproverare al fascismo, come Omodeo nella stessa lettera a Gentile gli rimproverava, «una cieca violenza» ed era più che lecito constatare, come Omodeo constatava, che dal punto di vista del ripristino della legalità statutaria Mussolini aveva fallito e la politica che poteva ancora fare era solo «quella delle cambiali che se danno un momentaneo benessere intaccano il patrimonio». Dichiarava ancora, pochi giorni dopo, il 27 agosto 1924, di avere scarsa stima delle opposizioni – che peraltro, a mio parere, conosceva poco – ma di essersi convinto che Mussolini portava la responsabilità sia pure indiretta, del delitto Matteotti e che «questo governo della teppa, questa demolizione folle d’ogni norma giuridica e morale… che questo delirio futurista dello Stato fascista che si deve sostituire… allo Stato liberale, siano un disastro nazionale».

    (...)
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

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    Predefinito Re: Adolfo Omodeo - Il bilancio di una vita (1984)

    Rivelava naturalmente un’enorme ingenuità se nella lettera del 5 agosto 1924 esprimeva il voto che Gentile prendesse il posto di Mussolini. Ma anche ciò provava la sincerità con cui aveva creduto nella creatività del liberalismo di Gentile, che, per l’appunto pretendeva individuare nel fascismo il rinnovamento pratico del genuino pensiero liberale.
    Con grande rigore ripeteva, il 15 ottobre ’24, a Gentile: «Ciò che noi sperammo da questo moto (il fascismo) non si è attuato per esso, e noi dobbiamo perseguirlo o suscitando nuove forze, o dissociando il fascismo e spezzandone la struttura attuale… che dà così facile prevalenza agli avventurieri e ai mercenari, che dissipa l’autorità dello Stato in un feudalesimo provinciale sovvertitore e corruttore… che confonde… Stato con partito… Sono stato soldato per quattro anni e so da quale sottosuolo si attingono le forze che fan grandi le nazioni e penso con sgomento a quel che succederebbe quando si dovesse chiedere il sacrifizio supremo a moltitudini avvilite e bastonate o a uomini che dal terrorismo piccolo o grande abbiano appreso a chiudersi nei loro egoismi. Sarebbe una catastrofe da secondo impero».
    Era una previsione profetica, che si sarebbe avverata a lunga scadenza. A scadenza vicinissima – questione di giorni – si sarebbe avverata l’altra sua previsione, espressa sempre in una lettera a Gentile, del 18 dicembre ’24. «Abbiamo la piena solidarietà del partito fascista con la bassa delinquenza e il delirio nevrastenico di Mussolini… La situazione politica però con questo si semplifica, perché non si tratta più di complicati problemi di possibilità politiche ma d’un rudimentale dovere civico verso la patria».
    La risposta di Gentile fu quella d’un fascista convinto. Le opposizioni – dichiarava – non amavano l’Italia e solo Mussolini poteva salvarla. La cooperazione etico-politica fra i due era finita. Quella culturale continuò per qualche tempo attraverso l’Enciclopedia Italiana, alla quale Gentile presiedeva. Ma già alla fine del ’26, non appena il fascismo era diventato totalitario ed ogni dissenso era diventato pericoloso o almeno oneroso per chi lo formulava, Omodeo ammoniva Gentile che la collaborazione di autori clericali all’Enciclopedia rischiava di rendere le voci da essi stese insignificanti come i manuali da seminario. La rottura avvenne per le censure clericali alle voci redatte da Omodeo su temi di storia del cristianesimo. Dopo il Concordato, Gentile non se la sentì più di pubblicarle.
    All’origine dell’avvicinarsi di Omodeo a Croce fu questo stesso motivo dell’avversione totale alle deformazioni, clericali o fasciste, della verità storica. Mi pare fondata l’opinione di Garosci che Omodeo contribuì non poco all’elaborazione del carattere eminentemente laico della crociana religione della libertà, con la sua polemica col clericalismo, prioritaria perfino rispetto alla polemica con l’assolutismo statale. A mio avviso, Omodeo contribuì anche a rivalutare, agli occhi di Croce, Mazzini, e il carattere missionario della sua agitazione patriottico-rivoluzionaria.
    L’influenza di Croce su Omodeo fu, beninteso, molto maggiore. Gentile glielo fece notare, acidamente, nel ’27, dopo aver letto in bozze un articolo di Omodeo su Cavour che, a suo giudizio, presentava il grande statista in chiave di polemica antifascista, nello spirito di Croce. Poco dopo uscì la Storia d’Italia, che per Gentile dimostrava che Croce «è accecato… da un orgoglio satanico. Ed è diventato pericoloso…». Omodeo gli rispondeva di condividere invece l’opera crociana «per la superiore giustizia con cui sono considerati uomini e eventi… Tanti ideali non sono morti in me. Sono stato educato da uomo libero».
    Tre lustri addietro, nel 1913, il ventiquattrenne Omodeo alla tesi di Croce che la storia non è mai giustiziera, e sempre, giustificatrice, obiettava ch’essa è, contemporaneamente, giustiziera e giustificatrice. Egli pensava allora, nello spirito della filosofia classica tedesca, conosciuta attraverso Gentile, che «die Weltgeschichte ist das Weltgericht», la storia universale è il giudizio universale.
    Ora capiva, con Croce, che la storia non può né condannare, né assolvere; deve sforzarsi di capire anche il diverso da noi, sol che, necessariamente, alla luce dei nostri ideali e dando perciò preminenza a quel che rivive in essi. «Nella storia dell’azione umana – dirà Omodeo nel suo libro su Cavour, fortemente permeato di filosofia crociana e tutt’insieme nutrito di ricerche originali – non si tratta come nella speculazione scientifica di errore e di verità, bensì si tratta di urto di volontà e d’ideali». «Si tratta, in sostanza, per lo storico, di trapassare dall’antagonismo della politica all’equanimità della storia, equanimità che non è indifferenza e che non smarrisce mai il senso dei necessari contrasti politici». La storia, ripeteva, non condanna ma distingue e spesso considera politicante soltanto chi in vita faceva figura di statista.
    La veridicità consiste nel ricostruire la storia quale realmente si produsse, senza alterarla come fanno i tessitori di leggende, gli apologeti del buon tempo che fu, senza strumentalizzarla come fanno i clericali, i nazionalisti e tutti gli altri fautori – per esempio comunisti – della partiticità della storiografia; senza pretendere che i personaggi che ci sono simpatici abbiano avuto ragione e coloro che ci sono antipatici abbiano avuto torto, ma se mai dimostrarlo. Allo storico tocca, secondo Ranke, spiegare come le cose sono realmente andate, verificare dunque, senza requisitorie e assolutorie, torti e ragioni, constatare azioni buone e malvage, meriti e colpe o delitti (senza nulla nascondere) degli uni e degli altri e, soprattutto, giudicare, molto più di come Ranke non facesse, alla luce degli ideali che dobbiamo sentire più fortemente che non il rispettuoso acconciarsi alla tradizione, all’autorità, alle posizioni prevalenti nella società e nello Stato o allo stesso interesse nazionale. Per questo, la storiografia più matura è storia di ideali di libertà, ossia di quel che scaturisce dalla riflessione disinteressata che pone la devozione al vero al di sopra d’ogni altra devozione.
    Tale è almeno la mia interpretazione della filosofia storica di Croce, cui Omodeo pervenne per non abbandonarla più e che anch’io credo di non avere mai abbandonato nel mio piccolo.
    La storia che crocianamente dev’essere intesa come giustificatrice e non giustiziera, verifica in questo senso la lotta fra diversi ideali e anche la scoperta di quel che hanno in comune, sempre che abbiano qualche cosa in comune. Questo vale per l’interpretazione del Risorgimento da parte di Omodeo e segnatamente per il rapporto dialettico che egli scorge fra i due grandi antagonisti: Mazzini e Cavour.
    Sotto il fascismo, l’agiografia dei due padri della patria s’appesantiva. In precedenza, la tendenza filosabauda era stata quella di rendere omaggio a Mazzini per il periodo anteriore al 1848 e dare tutte le ragioni a Cavour per il periodo successivo, annettendo Garibaldi come una pedina nella superiore chiaroveggenza e abilità del grande ministro del gran re. Al fascismo, i cui capi venivano quasi tutti da tendenzialità repubblicane e rivoluzionarie, giovava beneficiare anche del malgrado tutto non ancora spento (e durante la guerra del ’15-’18 necessariamente risorto) culto di Mazzini, interpretato da profeta del nazionalismo, precursore di Crispi alla maniera di Oriani, avversario del socialismo marxista, ma anche del liberalismo, la cui importanza, nel pensiero e nell’opera di Cavour veniva, invece, attenuata, a vantaggio delle sue attitudini diplomatiche, delle sue doti di comando, della sua capacità di preparare una guerra.
    Salvatorelli notò opportunamente come fosse falso questo genere di riconciliazione oleografica di Cavour e di Mazzini. Il primo aveva vinto e lasciato un’eredità liberale e monarchica, il secondo aveva perduto ma lasciato anch’egli un’eredità, democratica e repubblicana.
    Omodeo fece un passo in avanti, mazziniano nell’adolescenza, di destra liberale, cavouriana in senso lato, negli anni della maturazione, egli riteneva logico e giusto che Cavour avesse vinto e Mazzini perduto. I suoi studi sulla Restaurazione in Francia, e sull’Europa ottocentesca in generale, gliene provarono l’inevitabilità. Prima del 1870, il partito democratico era perdente anche in Francia, perché rappresentava un passato rivoluzionario che solo romanticamente si poteva sognare di risuscitare tal quale (o di rendere ancora più estremo con un socialismo proletario). A maggior ragione doveva essere perdente nell’Italia, la cui indipendenza dall’Austria era in funzione delle diplomazie piuttosto conservatrici delle altre grandi potenze.
    Non che Omodeo accogliesse la tesi pro-sabauda, in voga sotto il fascismo, che riconduceva il Risorgimento al rafforzamento settecentesco del Regno subalpino. Al contrario, egli la respingeva e riaffermava che il Risorgimento si era originato con la Rivoluzione francese, la calata di Bonaparte, la repubblica e i regni napoleonici in Italia, la riscossa liberale sotto e contro la Restaurazione in Italia, in Francia e in altre nazioni. La polemica di Mazzini contro il primato francese era tanto più giusta in quanto che il dominio napoleonico sull’Italia era stato dispotico e imperialistico. Ma precisamente l’intransigenza di Mazzini gli assegnava il destino del «biblico Mosè»; avendo svegliato gli italiani, «doveva restare senza premio».
    Lo stesso principio di nazionalità che era la leva che Mazzini azionava, diventa poi un ostacolo per la realizzazione del suo programma democratico. Il liberalismo europeo, sottolineava Omodeo, «aveva troppo di peso accettato… le istanze antiuniversalistiche dei Burke e dei De Maistre, senza intenderne la portata reazionaria: che cioè non v’è l’uomo in generale ma l’uomo nella sua concretezza nazionale, a volta a volta russo, inglese, francese; che è assurdo voler portare a tutti i popoli lo stesso evangelio; che bisogna che ogni popolo si rifaccia alle sue tradizioni e al suo «genio». Questa istanza reazionaria, che disconosceva, oltre le diversità delle radici, il processo di accomunamento dei popoli europei in una maggiore civiltà e l’universalismo della ragione, aveva notevolmente infiacchito il liberalismo».
    Mazzini lo comprese perfettamente. Per lui, essere italiani significava anche essere europei ed avere degli ideali universali. Se cercava di far assumere l’iniziativa all’Italia, sapeva però ch’essa doveva trovare eco in Europa. L’aspettava dall’Italia intanto perché era profondamente italiano, ma altresì perché per lui la libertà doveva essere liberatrice, non la libertà di chi la possiede già, ma la libertà di chi non la possiede è l’elemento dinamico.
    Da presbite Mazzini coglieva nel segno. Ma precisamente il destino della repubblica romana del 1849 documentava che di fatto la solidarietà europea con la causa italiana non poteva essere vittoriosa come solidarietà rivoluzionaria. La rivoluzione aveva attualità solo come sprone e minaccia. Le realizzazioni vittoriose le erano impedite dai reali rapporti di forza. Se si giungeva ad uno scontro frontale, in definitiva la reazione, coi suoi eserciti regolari, prevaleva sulle barricate della rivoluzione, i cui successi iniziali non potevano non essere effimeri. Qui si rivelava il genio di Cavour. «Agli inizi della sua carriera politica – citiamo Omodeo – il conte di Cavour dovette aprirsi d’impeto la via fra due partiti estremi in conflitto. Una volta tanto nella storia l’uomo di ponderata moderazione, invece di tormentarsi in una chiaroveggenza di Cassandra, vana contro le passioni sfrenate, seppe ributtare le ali estreme ed esercitare prestigio ed attrazione…
    Il Cavour sapeva che la storia è una grande improvvisatrice. Ma se la storia con lui improvvisò l’unità italiana, con un ritmo non previsto… non improvvisò nulla nella formazione interna dello Stato, nella sua struttura economica e politico-amministrativa e nella formazione morale della classe dirigente».
    I tradizionali paragoni fra Bismarck e Cavour per Omodeo sono fallaci, basati su una storiografia meramente diplomatica che lascia insoddisfatti. La grandezza di Cavour risiedette nella sua capacità di rendere liberale e davvero parlamentare il Piemonte, mentre Bismarck vinse col sacrificio del liberalismo e del parlamentarismo in Prussia e poi in tutta la Germania. Partito da posizioni di «juste milieu» inglesi e francesi, che Omodeo, storico del liberalismo moderato francese, capiva bene (il suo paragone fra Cavour e Tocqueville è illuminante) Cavour seppe farsi via via liberale avanzato, semi-radicale, nella politica interna piemontese e allearsi con gli ex-rivoluzionari, che circondavano Garibaldi, nella sua politica italiana.
    Mazzini non comprendeva il significato del pareggio del bilancio, del mutamento del regime doganale ed amministrativo, delle leggi che frenavano lo strapotere della Chiesa e che furono il piccolo capolavoro piemontese di Cavour, premessa indispensabile per il successivo grande capolavoro italiano. Ma non l’ha compreso rettamente neppure molta storiografia apologetica cavouriana, sottovalutando essa – o ignorando volutamente – le fortissime resistenze, reazionarie, subalpino-provinciali, clericali, anche dinastiche, che Cavour dovette continuamente affrontare. Vinse questa lotta, dura e logorante, in parlamento e col parlamento, non con la dittatura che non esercitò mai, neppure larvatamente. Quando morì il Parlamento era vitale, la stampa libera, le opposizioni attive. Nelle sue memorie Bismarck ascriveva invece a proprio merito il rafforzamento dei poteri della corona, che pure lo aveva licenziato senza alcun riguardo per le sue realizzazioni.
    L’altra più grande battaglia, quella per l’Italia, Cavour la vinse grazie al contributo discorde di Mazzini. I due si detestavano e nel 1859 Mazzini ebbe torto e fu sconfitto. Ma rafforzò continuamente l’operato di Cavour, nel contrasto polemico. «Non era – leggiamo in Omodeo – senza importanza che all’Italia rimanessero aperte fino all’estremo due possibilità d’azione: e la moderata di Cavour e la rivoluzionaria dell’esule». Senza di questo, Cavour sarebbe diventato subalterno di Napoleone III. Indubbiamente neanche l’impresa dei Mille, attuata dai secessionisti del mazzinianesimo, da coloro che volevano battersi da soldati e non da martiri, ma spronata dall’iniziativa mazziniana di Rosolino Pilo, valse a riconciliare Cavour con Mazzini e inimicò anzi Garibaldi con Cavour e Mazzini con Garibaldi.
    Al riguardo, tuttavia, commenta esattamente Omodeo, «il giudizio meramente politico sarebbe angusto. E Mazzini e Cavour (e Garibaldi) lavorarono per l’Italia, oltre e più che per il proprio successo». Questa era la prova della grandezza storica per Omodeo: aver operato, fecondamente, per qualche cosa di positivo che trascendesse il successo personale. Erano questi gli uomini che ammirava e non coloro che – anche se grandissimi come Napoleone – subordinano alla propria potenza il bene del loro paese.
    Col lavoro su Cavour Omodeo raggiunge il suo culmine come storico del Risorgimento. A contatto col «fuoco di Prometeo» – come diceva – di Mazzini, si mette nella condizione spirituale che li disporrà ad aderire, quando esso si costituirà, al partito d’azione della lotta contro il fascismo e la monarchia.
    Abbiamo già visto che la matrice dell’antifascismo di Omodeo era la fedeltà alla tradizione liberale, col suo dissenso dal governo fascista che si fece dittatura apertamente illiberale, dopo aver civettato col liberalismo. Da un punto di vista tradizionalmente liberale, Omodeo criticò con scarsa equanimità, a mio modo di vedere, l’adesione di Gobetti al mito orianesco della rivoluzione mancata nel Risorgimento e la sopravvalutazione che Nello Rosselli – a suo avviso – faceva del socialismo di Pisacane. Per Omodeo si trattava dell’importazione di un atteggiamento socialista fiorito in Francia, dov’era di casa, nell’Italia in cui non poteva mettere radici ed era bene che non potesse metterle, poiché avrebbe resa più difficile la lotta nazionale, rigettando verso la conservazione le classi possidenti. Incidentalmente, il consiglio di Omodeo di studiare meglio la genesi delle idee socialistiche nella Restaurazione francese e nella Monarchia di luglio era però giusto e per esempio Galante Garrone, idealmente suo allievo, ne fece tesoro. Era giusto anche il suo suggerimento di dare maggior peso all’elemento personale, dell’amore illegale per Enrichetta, nel dramma che fece un ribelle di Pisacane.
    La tradizione liberale può essere valutata, in sede storiografica, come storia dell’alto, dell’élite soltanto. Omodeo stesso aveva ammonito peraltro, proprio nella recensione a Gobetti, che se il Risorgimento fu fatto da pochi, quei pochi «operarono essi pel popolo. Si adattarono ad esser loro la nazione, come i settemila Israeliani… che non avevano piegato il ginocchio a Baal. Ma, è qui è il loro grande merito, credettero nel popolo». È un discorso, questo, che si potrebbe riesumare a proposito delle recenti polemiche sull’esiguità numerica dell’antifascismo militante durante il ventennio. Ma ciò ci porterebbe su un terreno che esula dagli studi effettivamente coltivati da Omodeo.
    Quel che merita ricordare è che se non s’addentrò nella storiografia delle classi popolari, Omodeo non ignorava le peculiarità di queste. Lo si scorge – come s’è già notato – da quel che ne dice in appendice alla sua raccolta delle lettere dei caduti in guerra. Sapeva che quella del 1915-’18 non era l’ultima guerra del Risorgimento, ma la prima guerra dei figli e nipoti del Risorgimento. Non ignorava neppure come si sarebbe dovuto studiare la storia dei movimenti pacifisti o sovversivi e lo precisò egregiamente nella sua critica al libro di Volpe su Caporetto.
    La nascita del Partito d’Azione nel 1942 lo poneva davanti ad un partito rivoluzionario che non aveva in partenza una salda base popolare e avrebbe dovuto supplirvi – come il suo predecessore mazziniano – con l’ardore, l’audacia, lo spirito di sacrificio e anche con l’intelligenza politica, finché la lotta di liberazione durava, ma quella base popolare avrebbe poi dovuto conquistarsela in un modo o nell’altro se voleva sopravvivere in un regime di libere elezioni a suffragio universale. L’intransigente antifascismo del Partito d’Azione era congeniale a Omodeo.
    Il repubblicanesimo del Partito d’Azione lo trovava egualmente consenziente. Dalla riscoperta della perenne validità di Mazzini alla demolizione della leggenda di Carlo Alberto, Omodeo, al pari di Salvatorelli e De Ruggiero, era giù uscito dalla fedeltà alla monarchia da cui Croce non era ancora uscito. La sua opposizione al regime era già diventata opposizione intransigente alla dinastia che aveva dato il potere al fascismo.
    Bisognava, a suo parere, capovolgere il motto di Crispi: oggi la monarchia ci divide, la repubblica ci può unire. Il Partito d’Azione aveva anche un programma socialmente molto avanzato, che lo collocava nettamente tra i partiti di sinistra. Il mazzinianesimo di Omodeo, con la sua libertà liberatrice, lo avviava verso la stessa direzione. Da storico egli sapeva altresì che Mazzini non era però riuscito ad educare, come invece avrebbe voluto, le moltitudini.
    Come si faceva a far breccia tra queste, senza imitare il Partito Socialista? Imitandolo, Omodeo non si stancava di ripeterlo, il Partito d’Azione si sarebbe reso sterile e avrebbe perduto la sua specifica ragione d’essere. Questa, a suo avviso, il nuovo partito doveva cercarla nella lotta per riforme democratiche radicali, coraggiose, ma non socialistiche, nella drastica epurazione degli alti gradi – a suo giudizio corrottissimi – della pubblica amministrazione, della polizia e dell’esercito e nella riorganizzazione democratica di quelle e di questo; nella ristrutturazione della scuola, con una severa battaglia laica contro le pesantissime infiltrazioni del clericalismo, ch’egli considerava totalitario al pari del comunismo; nell’autentica sovranità del parlamento (la chiederà già per la Consulta del 1945-’46) e non nella sua subordinazione, come già dal ’19 al ’22, con la proporzionale, non a caso voluta da Don Sturzo, era cominciato ad avvenire, alle direzioni dei partiti; in garanzie, contemporaneamente per la stabilità dell’esecutivo e in autentiche autonomie locali e regionali, con riduzione del potere dei prefetti. E insisteva, Omodeo, per la richiesta d’una federazione sopranazionale dell’Europa. Aveva a cuore l’Europa, ma sin dal 1938 aveva notato com’essa fosse premuta dalle sterminate masse d’altri continenti.
    Rimase in minoranza rispetto ai socialisti capeggiati da Emilio Lussu, nel Partito d’Azione, che in effetti finirono col portare il nuovo partito, dopo la sua scissione, nel senso del vecchio partito socialista, ove i loro esponenti si sono molto distinti, ma dopo essersi convertiti al socialismo classista. Ma Omodeo non fu sufficientemente ascoltato neppure dai democratici non socialisti del Partito d’Azione, per quanto riguarda l’energica battaglia ch’egli riteneva indispensabile e urgente combattere contro il clericalismo che, per conservare ed accrescere i propri privilegi, impediva o procrastinava le riforme democratiche e si alleava con gli ex fascisti che si sarebbero dovuti epurare, e non furono epurati, se non per pochi mesi, e solo alcuni d’essi, dai vertici burocratici, scolastici, giudiziari e militari dello Stato.
    Deplorò severamente, in proposito, le debolezze dei suoi stessi compagni di corrente; fece in tempo, tuttavia, ad accorgersi di quale fosse il motivo di fondo che bloccava il rinnovamento radicale auspicato da lui così come, con accentuazioni diverse, da tutto il Partito d’Azione. L’Europa – lo denunciava accoratamente – era stata divisa in zone d’influenza e i paesi vinti come l’Italia erano stati privati della pienezza della loro autonomia, non a vantaggio d’una federazione europea sovranazionale, sibbene come pedine in un contrasto fra colossi mondiali. Possiamo supporre che, se fosse vissuto, egli, nutrito di schietta civiltà liberale, avrebbe approvato, ciononostante, lo schieramento occidentale, atlantico dell’Italia.
    Da vero storico, vedeva però anche al di là degli orizzonti della propria parte politica. «Ma anche entro il comunismo – scriveva – opera il fascino della libertà… E da tale atteggiamento si può attendere una notevole innovazione nella vita contemporanea». Non per questo escludeva ogni minaccia di totalitarismo comunista – si ricordi del resto ch’eravamo, allora, in pieno trionfalismo staliniano. Ma riteneva altresì somma ingenuità sperare che il fascismo sconfitto non avrebbe osato risollevare la testa dopo la caduta del governo Parri e la revoca dei già insufficienti provvedimenti d’epurazione. La morte non lo colse così in un atteggiamento ottimistico.
    Ma lo storico deve guardare lontano pur nell’accurata disamina dei problemi concreti che ha il compito di sviscerare e vagliare criticamente. Il messaggio di Omodeo fu, attraverso molte acute analisi particolari, un messaggio di libertà: di quella libertà che, ripetiamolo con Benedetto Croce, non è mai la riparo da insidie e pericoli a va sempre difesa, senza che si possa mai sapere se abbia per sé l’avvenire, ma col convincimento ch’essa ha per sé l’eterno.

    Leo Valiani

    https://musicaestoria.wordpress.com/...una-vita-1984/
    Il mio stile è vecchio...come la casa di Tiziano a Pieve di Cadore...

    …bisogna uscire dall’egoismo individuale e creare una società per tutti gli italiani, e non per gli italiani più furbi, più forti o più spregiudicati. Ugo La Malfa

 

 

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