di Adolfo Omodeo – Da «Leonardo», 1926, p. 194; ristampato in “Tradizioni morali e disciplina storica”, Laterza, Bari 1930, p. 232; poi in “Difesa del Risorgimento”, Einaudi, Torino 1955, pp. 447-450. [Recensione ad A. Luzio, “La Massoneria e il Risorgimento italiano”, Zanichelli, Bologna 1925].



La tesi del Luzio è molto aperta e risoluta: assai scarsa importanza ebbe la Massoneria nel Risorgimento italiano, e quella che ebbe non fu delle più brillanti. Pur nella sua passionalità, l’autore invoca un giudizio equanime perché reca tutti i documenti da cui ritiene giustificate le sue conclusioni.
Bisogna riconoscere che l’opera arreca un ben duro colpo alla Massoneria: più che per gli sfoghi polemici, per i documenti copiosissimi. Nulla giova tanto a distruggere il fascino di chiaroscuro, di leggendario e di mitico quanto la chiara e cruda luce della documentazione: e perché essa è più efficace d’ogni pressione che possa suscitare il pathos del martirio.
Per molti punti si può dar atto al Luzio di dimostrazione raggiunta, tenendo conto del fatto che i tanto decantati meriti patriottici, in tanti anni, non sono usciti mai dall’indeterminatezza della diceria.
La storia della Massoneria italiana, – fatta eccezione per quella napoletana del 1794-99 – non è brillante. Sotto il regime napoleonico, è un’associazione ufficiosa, sorretta e controllata dal governo, servile sino allo spionaggio. Rovina ed è presso che ridotta a nulla dalla Restaurazione. Niente di più miserevole dello sfacelo della Massoneria pletorica del Regno italico (sfacelo per tanti rispetti simile ad un suo sfacelo più vicino a noi), del pullulare di spie, di rinnegati, d’abietti penitenti piagnucolosi. Era la conseguenza del suo reclutamento compiuto col compelle intrare, con le lusinghe di rapide carriere e di successi politici. Dopo il suo tracollo, fiorisce la Carboneria. È da escludere la tesi massonica che le sètte, pullulanti in Italia dopo il 1815, siano derivazioni o mascheramenti o, (come si diceva) economie della Massoneria (tranne la società degli Adelfi). Poco monta se ex massoni affluirono fra i carbonari, e fra le sue sètte vi sono somiglianze rituali. Per il Mezzogiorno è documento l’antagonismo fra Carboneria e Massoneria. Lo spirito religioso e nazionale della Carboneria non quadra con l’internazionalismo e l’irreligiosità sostanziale della Massoneria.
La quale ha rifiutato sempre di chiudersi in limiti nazionali, e ha evitato di definirsi politicamente; ha proclamato un universalismo generico (direi quasi uno spirito di cattolicità): salvo a svolgere una politica propria, che è quella insinuata dalle alte gerarchie con la miscela e la confusione di tutti gli elementi assorbiti.
Nel periodo della reazione, sono poi frequenti le profferte di massoni all’Austria: di ridestare la setta in contrasto con le sètte liberali. Lo sviluppo della Giovine Italia libera l’atmosfera dal settarismo, sia carbonaro che massonico; non meno avverso alla Massoneria è il movimento giobertiano.
La Massoneria si ridesta a Torino nel 1859-60. È, dapprima, una contromina cavouriana agl’intrighi murattiani della carboneria francese e alle tendenze repubblicane del partito d’azione. Tutto fa credere che i suoi fondatori non fossero neppure massoni, e che compissero una solenne mistificazione.
Durante l’impresa del ’60 si ricostruisce una massoneria meridionale infeudata al partito d’azione, e nelle sue massonerie si riflette il conflitto tra cavouriani e partito d’azione. Garibaldi è conteso da entrambe e cerca, invano, di pacificarle e d’avvalersene come strumento per il completamento dell’unità. Le sue delusioni sono grandi. Ma in questo ultimo periodo del Risorgimento, la Massoneria, ben lungi dall’imprimere le sue direttive, è considerata dagli uomini del Risorgimento come mezzo e strumento: come un recipiente, in cui si può versare qualsiasi liquido: tentativo a cui essa spesso rilutta, difendendo il suo generico universalismo internazionale superpolitico, salvo poi ad avvalersi del prestigio che le veniva dall’affluire dell’elemento patriottico, che seguiva le orme di Garibaldi. Mazzini ne diffidò e ricusò la gran maestranza: cercò tuttavia d’avvalersene, nei suoi ultimi anni, attraverso il Gran Muratore della Massoneria di Palermo, il Campanella; senza però riuscire a renderla repubblicana.
Il periodo di splendore della Massonerie cade negli ultimi decenni del secolo XIX, dopo che Adriano Lemmi l’unificò e la riordinò. Anche su questo periodo, il Luzio adduce importanti documenti (per esempio, quelli sul Carducci massone). La Massoneria accoglie promiscuamente uomini eterogenei: De Meis, Bertrando Spaventa, De Sanctis, Villari, Crispi, Rudinì, Cavallotti, Depretis, Carducci, Fiorentino, ecc.; e, non lo si può negare, si tratta degli uomini più significativi di quell’età. Ma non si può dire che i migliori fra essi attingessero dalla Massoneria le direttive (per esempio, la gallofobia del Crispi) né avessero dalle logge il riconoscimento dei loro meriti.
Tuttavia, a partire dal Lemmi, lo spirito di parte si va sempre più accentuando. Nelle logge si pronunzian parole che precorrono i tempi. Si parla di penetrazione e di conquista dello Stato. Dietro la maschera democratica, si afferma che la Massoneria è la minoranza eletta a guidar la massa dei profani: si accentua la distinzione fra gl’Italiani secondo lo spirito settario; si tien fermo alle forme di gerarchia oligarchica: gl’interessi massonici sono affiancati a quelli nazionali. Ahi, ahi! Il grande Architetto ha condannato i figli della vedova con le parole della loro bocca! E nel loro castigo si deve pure scorgere una giustizia della storia. Han pagato il fio di non aver avuto vera fede nella libertà che proclamavano, d’aver tentato d’ordinarla come un teatro di marionette, i cui fili si manovrassero nella loggia; d’aver reduplicato col loro labaro la bandiera della patria; e col giuramento della setta quel giuramento che deve essere unico e deve legarci alla nazione.
Ciò che non ci dà il Luzio, nel suo atteggiamento polemico, è una spiegazione della tenace vitalità della setta, e del come in esso potessero adagiarsi spiriti superiori, quali furono indubbiamente molti dei massoni dal 1860 al 1900. Per quest’eccesso di passione, gli sfugge anche la funzione dell’anticlericalismo massonico. Il giudizio completamente negativo è eccessivo. Alla Massoneria si può rimproverare non l’anticlericalismo, che fu una necessaria difesa dell’Italia risorta, ma d’averlo abbassato, specialmente negli anni davanti la guerra, a un livello triviale, che doveva inevitabilmente provocare una reazione. Ma l’anticlericalismo ha avuto e ha un còmpito di difesa dell’Italia. Il Luzio ripete una frase che è ormai un luogo comune: che il cattolicesimo è una gloria d’Italia. Con ciò, non solo si fa un cattivo servizio al cattolicesimo, che non può accettare pacificamente un bollo nazionale, ma si ripete un errore giobertiano: di considerare gloria italiana tutto ciò che germinò sull’italo suolo, a partire dai mitici Pelasgi. Ciò è materialistico. È gloria d’Italia ciò che ha concorso a formarla, ed è elemento essenziale alla sua esistenza. Ora, a creare questa nostra Italia, il cattolicesimo fu d’ostacolo: gli elementi cattolici, che vi parteciparono, furono per lo più imbevuti di semi-giansenismo e di giobertismo della cui perfetta ortodossia è lecito dubitare.


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