di Adolfo Omodeo – Da «Critica», 1938, p. 445; ristampato in “Figure e passioni del Risorgimento”, Milano 1945, p. 21; poi in “Difesa del Risorgimento”, Einaudi, Torino 1955, pp. 472-476. [Recensione a G. Mazzini, “Scritti editi e inediti”, vol. LXXVII (“Politica”, vol. XXVI), Geleati, Imola 1938].



La grande edizione nazionale del Mazzini è giunta al settantesimosettimo volume[1]. Ne sian rese grazie a Mario Menghini, che da trentatré anni, da quando essa fu deliberata, la conduce innanzi con lena infaticabile, e con tanta modestia che neppure il suo nome figura sul frontespizio[2]. In questo volume il Menghini ha raccolto con felice ispirazione le introduzioni e i commenti dal Mazzini inseriti nell’edizione daelliana dei suoi scritti. Ne ha ricavato, così, una sobria autobiografia, dagl’inizi dell’attività del grande agitatore al 1853. Essa merita d’esser letta e meditata a lungo, perché ancora adesso il Mazzini è più noto di nome che per le opere ed il pensiero.
Fatto notevole, questa autobiografia è di tono singolarmente sobrio e pacato, e contrasta con l’empito e l’effervescenza di molti altri scritti del Mazzini. Deve spiegare se stesso, e liberarsi dal peso di una fosca leggenda: ha la coscienza dell’opera compiuta e della fede serbata immutata per una lunga vita all’ideale della sua giovinezza in un mondo che cambiava rapido. Le parole, perciò, gli vengono lente e misurate: sa eliminare infiniti particolari per tratteggiare le linee essenziali. Solo di tanto in tanto, il tono è variato da un sorriso di humour o da una nube fugace di malinconie per le cose passate. Non manca l’accento polemico. Ma, dato l’uomo perseguitato per tutta la vita, gravato dall’iniqua leggenda di delitti e di sangue, tale accento è smorzato, quasi incidentale. Nel fare il bilancio della propria opera, è equanime anche verso chi lo ha abbandonato, e riconosce anche a costoro il contributo arrecato alla causa italiana quando militavano sotto la bandiera repubblicana. Ne ricorda molti: Gallenga, Farini, Gioberti, Melegari, Visconti-Venosta, Sirtori; su molti altri tace, ché si può dire quasi tutta la nuova Italia era passata per la sua trafila. Eppure, da questi rapidi accenni, come un’occhiata severa e triste cade su molti di quei convertiti al moderatismo. Il Mazzini rievoca l’affratellamento e il sogno degli anni giovanili, e poi la calunnia dei moderati accolta e divulgata per ossequenza ai metodi polizieschi del secondo impero su chi li aveva risvegliati all’idea italiana. E, certamente, questa acquiescenza al mito del Mazzini sanguinario, da parte di chi lo aveva conosciuto da vicino, è uno degli aspetti men belli di tanti di quegli uomini della Destra.
A questo tono pacato fan vivace contrasto gli appelli, gli annunzi evangelici e apocalittici della politica romantica mazziniana inseriti come documenti dell’azione passata. Nel 1860-65, quando uscivano le note autobiografiche, dovevano già apparire fuori di tono e di moda, ben più che a noi che riusciamo a coglierne ora il processo genetico.
La formazione mentale e morale del Mazzini è fermata con assoluta esattezza. Il Mazzini riconosce la sua derivazione dal rigoglioso pensiero della restaurazione francese. Guizot, Cousin, Jouffroy e il cenacolo del «Globe» liberale, gli dischiusero la via. Ma v’è un incremento su costoro, che dovevan diventare gli uomini della monarchia di luglio detestata dal Mazzini. L’idea del progresso, in quei pensatori della restaurazione francese, per un verso ha già un presentimento religioso, perché sostituisce lo schema cristiano dell’economia provvidenziale nel corso della storia, ma, per un altro verso, ha qualche cosa di meccanico e di automatico: si compie per un ritmo che pare estraneo all’umano volere. Donde quella facilità d’adattamento, quella decadenza dall’ideale nella realtà mediocre che il Mazzini rimprovera loro, l’abbandono della milizia attiva per fruire dell’ora fugace, della gioia del potere, e quel rimettere ad un’estrinseca provvidenza il còmpito del perfezionamento.
Nel Mazzini abbiamo, invece, un’integrazione apocalittica del concetto del progresso in una vera e propria forma religiosa. Indubbiamente, in ciò egli procedeva parallelamente, e in parte in dipendenza, col democraticismo del Lamennais (in taluni punti si sentono echi anche del primo Lamennais reazionario in polemica col secolo XVIII), col sansimonismo, col messianismo religioso politico dei polacchi. Il progresso si attua per una partecipazione attiva dell’umano volere al piano provvidenziale. Così, il Mazzini compie il trapasso, postulato in astratto dal Lamennais, dalla rivendicazione dei diritti all’etica del dovere: si pongono in pieno risalto i momenti dinamici di questa religione del progresso: missione, iniziativa, lo schema delle ère storiche e la formula «Dio e Popolo», ché l’umanità deve rivelare tutte le idee divine, tutto il Dio, che reca in seno. Le idee nuove, contenute in un involucro ancora mitico (mito vissuto e non machiavellicamente escogitato), oltre che luce di pensiero irradiavano ardore religioso d’azione. Il culto del popolo, non tanto del popolo come sintesi di tutte le classi, ma del popolo in quanto volgo iniquamente depresso, muove da questo convincimento che, in ogni cuore umano, è occulto un tesoro divino da rivelare, e che, prorompendo, questa ricchezza di luce deve ravvolgere l’umanità in una sintesi superiore agl’individui, di patrie e di patrie consociantesi nell’umanità. Il motivo di classe, perciò, nel Mazzini si affaccia soltanto come esigenza di recupero e di attivazione d’energie disconosciute, ma non rientra nei fini: esso è riassorbito. L’idea della patria deve elevare al disopra del calcolo economico ogni uomo, e la patria deve avere tale ampiezza da dar campo d’azione all’umile, e deve sapersi associare alle patrie sorelle, all’opera collettiva dell’umanità. Da questo punto di partenza, si spiega perché mai pel Mazzini la repubblica fosse un «principio» e non una forma contingente di governo. Il libero servizio all’universale, la dedizione all’opera di Dio nel progresso non ammette limiti, e perciò la repubblica ha il significato ideale di questa milizia di fede oltre gl’interessi:


Le monarchie possono capitolare, le repubbliche muoiono: le prime rappresentano interessi dinastici; possono quindi aiutarsi di concessioni ed occorrendo di codardie per salvarli; le seconde rappresentano una fede e devono testimoniare fino al martirio[3].



E, poche pagine dopo, insisteva differenziando il moto italiano dalla rivoluzione francese del ’48:


La democrazia italiana non è reazione ma fede: non è grido d’emancipazione cacciato da una sola classe ostile dall’altra e irritata; è programma di associazione di tutte le classi, o meglio di tutte le frazioni sociali in un solo intento: costituire una, libera, forte la grande famiglia italiana a benefizio della più grande famiglia umana: la patria a beneficio di tutte le patrie[4].



E capiva che il criterio d’interesse poteva corrompere il concetto di patria e svolgeva l’antitesi, su cui tornerà più volte, fra nazionalismi e nazionalità che poggiano sull’umanità[5].
In complesso, è la storia di un’idea religiosa quella che il Mazzini ci narra, e la vicenda dell’intuizione della terza Italia nella cella di Savona (pur così incastrata negli episodi argutamente raccontati della prigionia), l’ampliamento del mandato e del compito nella crisi del dubbio, le pagine dedicate alla difesa di Roma, sono episodi degni di una grande storia religiosa: ché tale indubbiamente fu nelle sue prime radici il Risorgimento. E, per questo, egli poteva rivendicare di fronte ai suoi denigratori il valore di quell’iniziativa senza di cui l’idea dell’Italia e l’unità non si sarebbero mai affermate. E, come credo d’aver dimostrato, aveva pienamente ragione.
Ma, nondimeno, anche contro di lui, la politica doveva affermare la sua ragione d’essere. La religione romantica del Mazzini voleva balzar fuori dai limiti dell’umano: ciò che non era adeguato all’ideale doveva spezzarsi, fosse pure l’Italia faticosamente raccozzata nel ’60. L’apocalisse d’una perfezione divina doveva compiersi in terra: da ciò, la serie di tentativi disperati, susseguentisi in serie, senza un processo d’incremento e di concatenazione. Era qui la debolezza costruttiva, di cui doveva approfittare il partito moderato-monarchico.
Gli è che il Mazzini, l’uomo che più d’ogni altro ebbe a soffrire dagli uomini, credeva in un progresso umano nella sfera morale quasi come processo di angelificazione, contrario alla degenerazione delle stirpi cantata dal poeta latino. Il progresso, invece, si attua nel costume e nelle tecniche, non nell’intima moralità, e l’uomo, per essere uomo, deve trovarsi sempre nella responsabilità del bene e del male, e il giorno che compisse automaticamente il bene sarebbe spenta la storia e l’uomo stesso. Invece, il grande avversario del Mazzini, il Cavour, anch’egli tenace fedele del progresso, osservava da giovane che «tout progresse hors, peut-être, que ce coquin de l’homme»! Il che è giusto, e conserva meglio il criterio di prudenza nell’azione. L’uomo potrà non pascersi più di carni umane, non sacrificar più i vinti nemici alle are degli dèi o al rogo degli amici estinti, ma la possibilità di operare il male, in cui il valore s’inabissa, è eternamente presente in lui in ogni palpito vitale, e guai se così non fosse.

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[1] […] Ora l’edizione si conclude col centesimo volume.
[2] Solo in una tiratura divulgativa di questo volume di memorie autobiografiche del Mazzini, il Menghini ha posto per la prima volta il suo nome.
[3] GIUSEPPE MAZZINI, Scritti editi e inediti, cit., p. 350.
[4] Ibid., p. 369.
[5] Ibid., p. 235.