di Adolfo Omodeo – Da «Critica», 1935, p. 139; 1939, p. 131; ristampato nel testo attuale in “Figure e passioni del Risorgimento”, Milano 1945, p. 159; poi in “Difesa del Risorgimento”, Einaudi, Torino 1955, pp. 479-484. [Recensione a “Storia del Risorgimento e dell’Unità d’Italia” di C. Spellanzon, voll. I-IV, Rizzoli, Milano 1933].



L’opera dello Spellanzon è giunta al quarto volume, che va dall’inizio della guerra del 1848 all’armistizio Salasco. Vedo con piacere che ormai si è accettato da tutti quel che ebbi ad annunziare: che questa storia pubblicata a dispense, non è un’opera popolare, sia pure riccamente, anzi superbamente illustrata con riproduzioni di stampe e di documenti, ma è un ripensamento complessivo ed originale, con l’uso e il dominio di una letteratura sterminata e di tutti i documenti accessibili; è, insomma, sul Risorgimento, uno dei più importanti lavori dei nostri giorni, compiuto da un unico studioso, in condizioni di lavoro quanto mai difficili e con abnegazione rara. La cosa sarà mortificante per i diversi istituti storici burocratizzati, che costano molto e rendono poco, ma è consona al fatto mille volte constatato: che solo un individuale ardore di ricerca crea le opere della scienza, e che gl’istituti e le società sono vitali solo quando sian permeati da uno spirito superiore che li usi razionalmente. La narrazione dello Spellanzon si svolge su di una scala molto, oserei dire troppo, ampia, con grande ricchezza di particolari, talvolta di cronaca. Ma ciò, d’altra parte, ha un vantaggio: mentre viene connettendo e mettendo in armonia i diversi documenti (e talora lo stile delle fonti, per una sorta di mimetismo, si ripercuote sul suo), l’autore li tratta criticamente e assegna loro un valore con un processo di onesta intellezione e di acuta disamina. Le mille voci, i mille diversi ricordi si ricompongono in un prospetto complessivo dei fatti, che emerge come un’immagine su di una lastra fotografica. La personalità riflessiva dello storico par quasi occultarsi; ma, nella sua modestia, è pur sempre viva ed attiva, perché ciò che nasce in questo sforzo di obiettività paziente, non è un aggregato cronachistico, bensì una salda struttura.
Il punto di vista è al di sopra della vecchia agiografia, e della conseguente reazione denigratoria: è quello dell’uomo dei nostri giorni che vuole intendere la risurrezione d’Italia. Forse, lo Spellanzon non è felice nell’esprimersi, nell’introduzione al secondo volume, là dove contrappone la tradizione ai documenti d’archivio, quasi due fonti distinte: ma sostanzialmente dice cosa esattissima: la communis opinio, il giudizio dei fatti recato dalla coscienza pubblica non va scartata a cuor leggero, e un attento esame finisce a dimostrare che le nuove ricerche, la scoperta di nuovi documenti, ben più che rivoluzionare, perfezionano e arricchiscono il giudizio tradizionale.
In ciò è soprattutto il pregio dell’opera dello Spellanzon: pregio scientifico, che rende utile la lettura dei suoi volumi anche allo specialista. Avendo dovuto raccogliere e congiungere, proporzionandoli ad un’unica scala, risultati svariatissimi di numerosi studiosi, ha dato la giusta misura dei fatti e documenti gonfiati dai primi illustratori come rivoluzionanti la tradizione. Valga qualche esempio. Non mai come oggi è stato di moda un goffo autoctonismo di sapore giobertiano: di far rimontare il Risorgimento alle riforme settecentesche e di considerare il periodo 1789-1815 come un’irruzione perturbatrice. Lo Spellanzon non ha partiti presi, ma narra pacatamente tutta l’immensa opera di rinnovamento del periodo francese-napoleonico: la nuova struttura sociale-politica, il nuovo ordinamento giudiziario, il risveglio militare, la formazione delle classi dirigenti, la ventilazione delle idee, il potere temporale vulnerato d’una ferita insanabile, la mescolanza degl’Italiani di ogni provincia: e deve convenire anche lui «che l’Italia del 1815 non era più quella del 1745». Il moto degli spiriti del Settecento si riduce a un modesto preludio. E io son convinto che, continuando senza pregiudizi, per questa via, si arriverà a scorgere la vera grandezza del Risorgimento, vertice della moderna civiltà europea in terra d’Italia.
Tutti conoscono il secondo spietato processo inflitto dal Luzio ai patrioti del 1821 in base ad un’astratta misura d’eroismo. Il proporzionamento dei risultati consente allo Spellanzon di considerare umanamente quelle vicende, e di dare il giusto rilievo all’epilessia che travagliava il Confalonieri. Così pure per Carlo Alberto. Lo Spellanzon non ricusa i documenti addotti dalla recente storiografia aulica; ma li inserisce nella vasta tela dei fatti, e automaticamente essi divengono presso che insignificanti.
Nei riguardi poi della congiura estense lo Spellanzon ha vedute che mi paiono acute e originali.
Felice assai mi sembra l’interpretazione del ’48. La guerra non pare all’autore un’impresa molto brillante, in quanto «finita con poca gloria e nessuna fortuna nell’armistizio Salasco». Ma il fermo giudizio sulla condotta politica e militare gli lascia comprendere la funzione dell’apparente fallimento del ’48:


Caddero taluni presupposti di conio recente, che pareva dovessero nuovamente presiedere alla rinascita politica e civile di questa antica terra, cosicché, sgombra la strada da tali elementi imbarazzanti, riuscì men difficile negli anni avvenire indirizzare, per sentieri più sicuri e spediti, il passo della risorgente nazione: la questione italiana cominciò ad essere veramente questione europea, dato che a molti fu chiaro come ormai fosse incompatibile la dominazione straniera con la nuova coscienza nazionale.



L’inaridirsi dei diversi stati regionali e del potere temporale, commisurati all’idea d’Italia, non sfugge allo Spellanzon. In questa prospettiva, il ’48 acquista un significato ben altrimenti alto che non le esagerazioni intorno alla carica di Pastrengo e al bombardamento di Peschiera. L’anno fatidico si presenta come una ben rude scuola per gli Italiani, che spesso cercavano il vivente fra i morti, cercavan l’Italia o nel papato o nello stato regionale – fosse il regno di Napoli o la vecchia repubblica di San Marco – e confondevano la guerra d’indipendenza nazionale con la vecchia politica lombarda dei Savoia.
Per quanto riguarda la guerra, vedo con piacere che la paziente disamina dei documenti porta lo Spellanzon a quegli apprezzamenti, da me più volte ribaditi: che l’esercito piemontese non era stato affatto preparato moralmente e militarmente dal re Carlo Alberto per una guerra nazionale; che il suo intervento fu troppo tardivo e lento per afferrare l’attimo propizio; che gli ufficiali e i generali reazionari non seppero o non vollero inquadrare lo sforzo dei volontari di Lombardia; che la pretesa di Carlo Alberto di separare la causa della libertà da quella dell’indipendenza gli creò intorno le diffidenze che paralizzarono lo sforzo di tutte le volontà; che grosso errore fu quello di frammischiare l’azione militare con la politica della fusione, ottenuta con pressioni non belle, e che non conseguì altro effetto fuori di quello d’inasprire le difficoltà. Nulla appare così evidente nella narrazione dello Spellanzon come l’accavallarsi di due politiche diverse: la politica del «carciofo», meramente dinastica ed opportunistica, e la politica nazionale. La prima, la politica della ragion di stato e della ragione dinastica, fu un vero impaccio, perché al momento decisivo, quando si trattava di raccogliere i frutti che sarebbero parsi esuberanti a qualsiasi predecessore di Carlo Alberto, di ottenere la Lombardia, accettando le proposte dello Hartig e dello Hummelauer, il ricordo di Campoformio e la nuova idea nazionale sorsero come impedimento insuperabile, e il risultato del tradizionalismo dinastico fu solo quella d’aver impedito alla guerra nazionale di divampare e di travolgere nel momento critico l’esercito di Radetzky. Non solo le critiche del Mazzini, ma anche quelle di Angelo Brofferio, appaiono fondate.
Una crisi analoga accadeva nello stesso tempo nello Stato pontificio: il sogno neoguelfo d’inserire il papato nella nuova Italia era sperimentato assurdo dai Mamiani, dai Farini, dai Minghetti; e, dopo questa esperienza fatale, dopo il duro linguaggio delle cose e delle situazioni, quegli uomini alla fine s’accorsero dell’impossibilità di conservare il potere temporale. Per molti rispetti, il ’48 è una correzione a tanto pseudorealismo tradizionalistico dei moderati, che temevano di affermare arditamente col Mazzini che la politica delle piccole dinastie e il fondamento morale e giuridico del potere temporale dei papi erano ombra del passato. Se la relazione neoguelfa antimazziniana valse a dare un più ampio reclutamento di uomini per la causa nazionale, invece come programma politico fallì in pieno.
Forse, alquanto trasmodante, è la dimostrazione che Pio IX non si era mai effettivamente compromesso nel moto liberale italiano. L’autore non ha torto per quanto si riferisce all’individuale psicologia di Pio IX. Ma il papa, come del resto tutti gli uomini politici, è qualcosa che non coincide con l’individuo: è la sintesi degli indirizzi che a lui fanno capo. E a me pare che non mancarono nella Curia coloro che volevano sfruttare l’infatuamento per Pio IX: e l’enciclica del marzo 1848 ai popoli d’Italia, come ho già sostenuto a proposito di un saggio del Palmarocchi, mi pare non debba essere sottovalutata.
Circa la situazione napoletana, l’esame minuto dei documenti porta lo Spellanzon a riconoscere esatta la valutazione degli avvenimenti meridionali data dal Croce, contro la storiografia filoborbonica, e condotta come comparsa giudiziaria, degli scrittori del gruppo di Giustino Fortunato. Nulla in Napoli poteva restaurare la fiducia fra gli uomini della libertà e la dinastia dei Borboni. Pur con tutte le sue doti personali, Ferdinando II era un anacronismo nella nuova Italia.
Meno limpida, non tanto per colpa dello Spellanzon, ma perché il lavoro critico intorno ad essa è stato più scarso, appare la vicenda quarantottesca della Sicilia. Vediamo muoversi gli uomini, succedersi i fatti, ma difetta l’interpretazione coerente e complessiva. La storia ottocentesca dell’isola, a partire dalla costituzione del 1812, avrebbe bisogno del martellamento della critica. Bisogna ricostruire ab imis la storia sociale della Sicilia, la sua vita culturale, la sua forma mentis: siamo di fronte a un processo storico autonomo, diverso da quello del continente, e bisognerebbe che qualche studioso serio affrontasse in pieno il tema.
Circa la distribuzione della materia, difficilissima dati i diversi focolari della rivoluzione italiana e il sincronismo di tanti eventi, che poi devono essere analizzati a parte, mi par difficile poter far meglio di come ha fatto lo Spellanzon. Al quale auguro di poter felicemente condurre a termine il suo arduo lavoro.


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