di Adolfo Omodeo – da «Critica», 1928, p. 355; ristampato in “Tradizioni morali e disciplina storica”, Laterza, Bari 1930, p. 217; poi in “Difesa del Risorgimento”, Einaudi, Torino 1955, pp. 520-526. [Recensione a L. Russo, “Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-65)”, Nuova Italia editrice, Venezia 1928].



Grandeggiano, nel presente rigoglio degli studi sul Risorgimento, i patrioti meridionali, più che per la scoperta di fatti e documenti nuovi, per il permanente valore del loro pensiero (eran quasi tutti uomini di scienza) e dei loro ideali; per la matura coscienza dei doveri civili e dei doveri scientifici, per lo sviluppo della loro fede liberale in una robusta dottrina dello Stato, per la ferma difesa della civiltà moderna contro l’invadenza ecclesiastica: senza che per questo il loro ideale si depauperi di sostanza religiosa, d’umana tolleranza e d’umana simpatia. Rappresentano un mirabile equilibrio di attività svariate entro la coscienza della civiltà moderna. Nel vigore delle loro sintesi, le linee del nostro Risorgimento emergono nitide, chiara è la visione dei compiti della nazione oltre la compiuta unificazione, e realistico il concetto dei rapporti d’Italia con la vita europea. Attraverso lunghe e dure esperienze, il pensiero meridionale, che nel secolo XIX è tutt’uno col patriottismo, ha perduto le illusioni utopistiche, ma più che mai salda è la fede nell’ideale, temprata è la volontà.
Nulla di strano perciò che il figlio di un’agiata generazione si affisi lungamente nei ritratti di questi avi, come per chiedere una nuova ispirazione, e nella Napoli d’allora senta come la patria ideale del suo spirito. Questo è l’atteggiamento del Russo: e gli consente una commossa rievocazione, ricca di poesia, della Napoli del ’60, e insieme una precisa acuta critica delle idee, perciò stesso ch’egli sperimenta la continuità e la connessione del proprio problema con quelli di tutta la pleiade della cultura napoletana. Quel che il Russo meglio apprezza – e lo guida il pathos della nostra età – è l’armonia di vita in tutte le forme in tutti i campi. Lo dimostra anche l’aspetto esteriore dell’opera. Il lavoro iniziato nel 1924 come saggio sull’università napoletana fra il 1860 e il ’75, in occasione delle feste del VII centenario, si è sviluppato per forza propria in istoria intima della cultura. Quel periodo – uno dei più luminosi dell’Ateneo – è tutto improntato dal De Sanctis: l’opera esterna parla dell’animo di lui che nel ’60 riedificò l’Università. Il segreto di quella generazione, il Russo lo ritrova nella fede religiosa nel pensiero. In contrasto con ciò che è comune giudizio sui Napoletani e sul Mezzogiorno in genere, dal Bruno in poi la cultura napoletana ha per carattere una fede eroica nel pensiero, pertinace fino al martirio: dal Campanella in poi col pensiero si cerca di rinnovare la vita civile. È difficile trovare una cultura che abbia dato tanti martiri e confessori: e il Bruno, e il Campanella, e il Giannone, e gli uomini del ’99, e gli ergastolani delle galere borboniche. Anche quelli che non ebbero a patire, come il Vico e il Filangieri, sono pervasi da un sacro fuoco interiore. Per questo rispetto, la fede nel pensiero della cultura napoletana è un corrispettivo insieme più aristocratico e più angusto della fede nella coscienza, propria della Riforma. Ora, nel compenetrarsi di quella cultura col movimento della nazione italiana, il Risorgimento ebbe i suoi sacra in una concezione immanentistica della vita e fu possibile l’eliminazione del misticismo mazziniano, dell’equivoco cattolicesimo giobertiano e dell’utopia della riforma cattolica carezzata dal gruppo toscano. Assimilò un’esperienza statale assai ricca che integrò quella piemontese. Ma, soprattutto, la centrale religiosità consentì un’armonica irradiazione in tutte le forme della vita: il Risorgimento assume spunti di rinnovamento di civiltà. Non a torto il Russo parla di un nuovo cristianesimo.
Più volte dispersa e perseguitata, la classe colta napoletana trionfava finalmente nel ’60. Ministro della dittatura, il De Sanctis la richiamò nel suo centro. L’opera fu semplice e pochissimo dottrinaria. Il De Sanctis epurò l’Università borbonica, caduta in estrema abbiezione. Non fu rappresaglia politica, che anzi i borbonici più intelligenti e colti, e perciò presumibilmente più pericolosi, rimasero; rese inevitabile l’epurazione l’inverosimile nullità e ignoranza dei docenti scelti, mentre i migliori erano negli ergastoli o in esilio, da un governo che aveva paura del pensiero, e avvilitisi fino alla delazione. Nell’Università il De Sanctis immise la ben più fiorente e libera scuola privata. Esuli reduci, e superstiti dalle galere borboniche saliron le cattedre: eran i «pennaruli» detestati e perseguitati da Ferdinando II: il De Sanctis, il Settembrini, il De Meis, Paolo Emilio e Vittorio Imbriani, Bertrando Spaventa, il Tari, il Tommasi, e molt’altri minori. Secondo il vanto del De Sanctis, l’Università di Napoli diventava – e rimase per circa un quindicennio – la prima d’Europa.
Era l’epinicio d’una classe colta, da più di mezzo secolo perseguitata ed oppressa. Ma l’inno fu più nelle cose che nelle parole. Un’austerità pensosa domina quegli uomini nel faticato trionfo. Bertrando Spaventa spazza via, amaro, i vaniloqui dei giobertiani sul primato italico, e sprona al lavoro concreto, e a prender contatto con la filosofia europea; il De Sanctis nella sua seconda scuola reagisce contro la flaccida letteratura del tardo romanticismo; gli Imbriani portano nell’insegnamento la loro austerità aspra; i giuristi secondo la tradizione vichiana resistono all’intemperante centralismo piemontese. V’è in tutto come una preoccupazione per ciò che rimane da fare. Intanto, tengon fronte all’ondata radicale e alla divulgazione spicciola del positivismo. «Ma – osserva il Russo – la nostra simpatia morale è tutta per quegli spiriti scontrosi e solitari, che nella fedeltà alla loro profonda e originaria educazione mentale, resistettero; resistettero non sordi, ma intelligenti delle nuove esigenze, e, a loro modo, corroboranti, in opposizione polemica, a un rafforzamento, rischiaramento e purificazione di quelle». L’agilità e la duttilità poteva non essere molta; ma coloro che affermavano la costruttività civile e politica del pensiero, sapevano benissimo che il pensiero e la scienza vanno serviti per se stessi. Non si possono prescriver loro preventivamente i risultati sociali e le utilità pratiche. L’opera mondana, che sorge dalla scienza, è di solito al di fuori delle previsioni e della volontà; e, del resto, perché le utilità sociali vi siano, bisogna che la scienza sia scienza, cioè vi sia la completa disinteressata dedizione spirituale.


La scienza, è vero, non vive, in una specie d’iperuranio eterea, astratta, astinente, incontaminata, estranea alle prosaiche cose di questo mondo; ma essa non si mondanizza artificialmente, perché già animata da una superiore mondanità, che è la ragione stessa del suo sviluppo e della sua potenza; né abbisogna di apostoli, ma solo di costruttori, perché essa è ricerca e processo e non domma, e non diventa politica perché essa non è mai agnostica. La scienza nasce come concezione politica, come filosofia, come visione della vita; e barattare la fede nativa della Scienza con un’altra fede, val quanto tradire la Scienza e ingannare quell’altra cosa che si vorrebbe assumere per novello simbolo. Chi tradisce la Scienza, tradirà tutte le altre fedi; le tradisce già nell’atto stesso in cui cortigianamente le accoglie. E non ci può essere uomo di fede politica sicura che non sia di fede scientifica sicura. E per ultimo: la Scienza non si onora mai di alcun aggettivo che la definisca e l’arricchisca, perché essa, come tutte le cose eterne, è soltanto sostantivo. L’aggettivo in questo caso, mentre corrompe il sostantivo, distrugge la sua stessa ragion d’essere. E il positivismo, per l’appunto, si compiacque di convertirsi in scienza con l’aggettivo, scienza massonica, scienza democratica, scienza socialista, scienza popolare, scienza utile, e però si negò come scienza e affrettò anche la sua morte come politica.



Quella dei Napoletani è una posizione socratica, che ha una certa fragilità nelle vicende estrinseche. Contro il magistero della cultura, è sempre pronta a disfrenarsi la plebe, reazionaria o rivoluzionaria secondo il colore dei demagoghi, perché oscuramente intende che nella cultura è una nuova religione. Un’eco della tragedia del 1799 risuona ancora negli articoli su Il Sovrano che il De Meis pubblicò dopo il suo trasferimento a Bologna. La jacquerie torna a imperversare, vuole scuotere il giogo del pensiero, del filosofo, «l’empio, il sofista, il mostro infernale che non fa che pensare». Il De Meis, che l’aveva veduta potenziare la tirannide di Ferdinando II, la sentiva ancora ruggire nel brigantaggio. Ma, nonostante questo, quegli uomini ardevano per la libertà, perché pensiero è libertà, e non vedevano altra soluzione dei danni e dei pericoli fuori della libertà stessa. Perciò, essi erano portati ad approfondire in ogni senso il loro liberalismo. E mentre il De Sanctis, giovanilmente, col suo passaggio alla Sinistra tentava di incanalare le forze incomposte e torbide negli ordinamenti costituzionali (uno dei primi tentativi di assimilazione), gli Spaventa, il De Meis, il Fiorentino e nell’azione politica e nella speculazione dottrinale cercavano di correggere la così detta dottrina dello stato neutro: dello Stato presidio giuridico dello sviluppo dei singoli e indifferente di fronte alle lotte sociali.
Bertrando Spaventa avanzava la teoria dello Stato etico che il Russo nitidamente così riassume:


Un liberalismo che concepisce lo Stato non come semplice finzione universale, ma come una concreta universalità; uno Stato che è potenza etica, ha cioè una vita propria, positiva, sostanziale, e il quale non tutela soltanto, ma crea gl’interessi particolari, e non è un grande individuo distinto e contrapposto ai piccoli individui, una potenza contro un’altra, ma vive in interiore homine, è la libera energia, la libera personalità dell’individuo, e la sua forza, poiché esso è l’individuo stesso concretamente intero, l’individuo universale, un’originale individuazione del tutto. Come vita etica consapevole di sé, cotesto Stato dunque non può non avere una coscienza direttiva, la quale avvia la società per le sue vie, come il maestro, che sia veramente maestro, avvia lo scolaro per il cammino del sapere e della virtù pur rispettando l’autoesperienza dello scolaro.



Acutamente, però, il Russo osserva che se la così detta dottrina dello Stato neutro inclina verso la sua dissoluzione nel cieco arbitrio individuale, lo Stato etico è portato a distruggersi in una forma autoritaria, e che invece il concetto classicamente liberale è nella mediazione di questi due estremi: del liberalismo inteso alla tutela dei singoli, e del liberalismo creatore dello Stato. Questa mediazione nella forma più elevata fu espressa da tutta l’opera di Silvio Spaventa.
Per intendere questo rilievo del Russo, conviene fermar l’attenzione su alcune difficoltà che presenta la teoria dello Stato etico. Si afferma l’eticità dello Stato, in contrasto col così detto Stato neutro, perché lo Stato ha un determinato contenuto etico: può, per esempio, volere un determinato abito morale, può voler creare una determinata attività. Ma, contro questa tesi, val sempre il principio kantiano che l’eticità di un soggetto si può affermare non in base a un contenuto, ma in base alla forma. Allora per ritrovare la forma etica dobbiamo abbandonare la morale contenuto, e discendere nell’atto intimo per cui l’uomo vuole come volontà sociale, come imperio. Ma quest’atto non si distingue in alcun modo dall’eticità in genere: e non possiamo dedurne altro che il fatto ben noto dello sviluppo dello Stato commisurato alla coscienza morale. In quell’atto noi troviamo lo Stato come termine ideale del nostro volere. Volerlo ipostatizzare crea gli stessi inconvenienti che ipostatizzare Dio fuori dalla nostra moralità. A quel Dio ipostatizzato potremo attribuire come contenuto tutta la moralità, ma mancherà delle condizioni per essere effettivamente soggetto morale: e se vorremmo concepirlo come moralità in atto, quel Dio, si troverà come l’Io di Fichte, che deve porre un non Io. Non solo, ma in interiore homine lo Stato come ideale di vita deve avere valore universale di norma. Di fronte a quello Stato, noi non possiamo non sentirci nel vincolo del dovere: la vita morale che l’instaura per prima piega le ginocchia. Ma lo Stato in interiore homine, perciò stesso che è norma universale, è Stato inter homines, e ci riconduce all’umiltà che ad uomini si addice. E per la stessa dialettica che condusse il cristianesimo a concepire il Cristo fra i cristiani come il primo fra molti fratelli, lo Stato è vincolato dalla sua stessa norma giuridica: è Stato umano.
Per tutto ciò, la concezione giuridica dello Stato di Silvio Spaventa è più matura di quella del fratello Bertrando, e ne risolve le esigenze. È il concetto di legalità, per cui Silvio Spaventa mosse aspre rampogne agli uomini della Sinistra inclini ad ottunder la legge; è lo Stato superiore agl’individui che lo rappresentano, e che accoglie come sua propria funzione e la critica delle opposizioni parlamentari e il controllo sui propri atti amministrativi da parte di una speciale magistratura.
Sarebbe interessante, se non si corresse il pericolo d’eccessiva prolissità, seguire il Russo nella disamina di tutti i problemi maturati nella cultura napoletana: per esempio, la critica felice del De Sanctis delle cosiddette rivendicazioni della libertà della Chiesa, merita d’essere ancora meditata profondamente. Interessante è anche il problema di scienza e vita, dibattuto dal De Sanctis nella sua nota prolusione. V’è, però, una certa torbidezza, perché se il De Sanctis a ragione combatte e l’astratto intellettualismo e la scienza pragmatistica e l’irrazionalismo di vita, ha però il torto d’accettar senz’altro dall’opinione la distinzione di scienza e vita; mentre la scienza, quand’è veramente scienza, è vita potenziata da austeri doveri ed incremento di moralità.
Alla fine del volume, si rimane come sorpresi che una vita culturale così intensa, così ricca di ardori e di problemi si spegnesse dopo circa un ventennio, con la scomparsa dei protagonisti, senza echi, senza continuità. Toccava ad uomini che non avevano conosciuto i patrioti napoletani riprendere e svolgere quei motivi, dopo quasi una generazione.
Ma questa dissoluzione e quest’eclissi, che il Russo acutamente spiega, non esclude la vitalità di quei germi e di quegli ideali, non implica la distruzione dell’ideale di vita, che l’età desanctisiana rappresentò. I Napoletani avevan attuato l’equilibrio di tutta la cultura morale del secolo XIX. I parziali sviluppi dovevano fatalmente rompere le sintesi, ma, insieme, ponevan l’esigenza di una riedificazione.
La vitalità dell’ideale desanctisiano giubila nel Russo in un inno a Napoli, patria ideale della cultura italiana, contrapposta a Firenze, che ha il retaggio d’una cultura umanistico-filologica ormai esausta nello scetticismo.


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