di Adolfo Omodeo – Scritto nel 1928 e pubblicato in “Figure e passioni del Risorgimento”, Milano 1945, p. 135; poi in “Difesa del Risorgimento”, Einaudi, Torino 1955, pp. 427-436. [Recensione a B. Croce, “Storia d’Italia dal 1871 al 1915”, Laterza, Bari 1928].

Benedetto Croce, negli anni avversi, ha intensificato i suoi studi storici e vi ha serenato il suo spirito. Il culto delle memorie gli ha infuso una nuova giovinezza, un rigoglio nuovo di pensiero e, insieme, un nuovo calore di passione. In questa sua recentissima opera, quel che colpisce è la nota profonda, il sentimento religioso della vita, la vasta capacità di simpatia umana, mai disgiunta da un austero senso di giustizia.

E, intanto, quest’uomo, che sui sessant’anni si piega infaticato alle lunghe e dure ricerche storiche e restaura nelle memorie una fase della vita della patria, è un esempio e una silenziosa rampogna a noi più giovani che ci attardiamo a ciarlare per le colonne delle riviste e dei giornali.
Il Croce si volge indietro a riguardare la generazione che in gran parte fu sua, quella che comunemente si presume di conoscere e giudicare da brandelli sconnessi di cronaca giornalistica. Di questa generazione, in cui ha svolto tanta parte della sua azione, con cui spesso battagliò, egli esige una più esatta conoscenza, un più meditato giudizio. La posizione di storico dei contemporanei è ardua: ma egli si fa ad esaminare uomini e problemi con sete di equità.
La sua posizione storiografica (ch’egli ama designare etico-politica, e talora, forse più esattamente, etico-religiosa) gli consente vaste sintesi; di abbracciare tutti gli aspetti del periodo nelle loro reciproche interdipendenze, movendo sempre da quegli imperativi che sono alla radice di ogni evoluzione. Attinge, perciò, quella pienezza sintetica della vita spirituale, che molti dicevano negata al Croce.
Nessuna tesi, nessuna rivendicazione artificiosa, perché tale non può essere considerata l’esigenza che ci si spogli delle intemperanti antipatie, che spesso i figli hanno per l’età dei padri loro, e l’altra che le azioni non siano misurate con criteri ed esigenze anacronistiche e fuori del quadro delle necessità e dei doveri impellenti: ciò che è primo canone d’ogni raccolta storica.
La tecnica narrativa è la stessa della Storia del regno di Napoli, una rielaborazione e un approfondimento di ciò che si ritiene patrimonio della cultura comune, presupponendo senza narrarli, molti fatti, e suggerendo di essi la più esatta interpretazione. Tecnica non senza rischi per chi non possedesse lo sterminato sapere del Croce: come quella che oltre un certo segno romperebbe l’unità del fatto e dell’apprezzamento e trascurerebbe una delle funzioni principali della storia, quella del proporzionamento dei fatti in una architettura complessiva, in cui deve risolversi e con cui deve conguagliarsi l’apprezzamento dello storico.
Ma il sicuro possesso dei fatti in tutta la ricchezza dei particolari ora raggiungibili, consente al Croce questo procedimento che non oserei consigliare ai facili imitatori; senza che mai si constati una pericolosa tumescenza delle considerazioni sulla storia: cosa che apparirà chiara a chi riavvicini, in confronto, le opere di quell’altro indirizzo storiografico che ha i suoi inizi in Giuseppe Ferrari e si continua con l’Oriani, il Missiroli, il Gobetti. Inoltre, questa forma più apertamente riflessiva consente al Croce di dar rilievo ai problemi metodologici da lui fortemente sentiti. Il punto di partenza è nel superamento degli idola fori, dei pregiudizi dei contemporanei: pregiudizi che vanno considerati elementi di storia, e non criterio storiografico.
Il Croce spazza via subito molto di questi pregiudizi: e quello della prosaicità del periodo che s’inizia col ’70, e quello anglomane che considerava una corruzione del regime parlamentare il venir meno della distinzione dei partiti.
E vede chiaramente l’angustia oligarchica, che s’insinua in molte pur nobilissime critiche avanzate dagli uomini – per tanti rispetti affini al Croce – della Destra storica. La caduta della Destra non è una vicenda parlamentare, ma l’esaurirsi di un ciclo. Il fatto che quasi tutti i metodi di governo della Destra sono continuati dalla Sinistra, mostra che l’opera sua era ormai patrimonio assorbito dalla nazione: ma ciò stesso rendeva impossibile il ritmo inglese al parlamentarismo italiano. Lo sviluppo democratico era poi, contro le obiezioni della Destra, una necessità ineluttabile, per mantener fede al programma del Risorgimento: per far sì che il popolo italiano fosse, e l’opera della minoranza fattiva non assumesse l’aspetto d’egoismo di consorterie.
Il Croce determina, quindi, nettamente le caratteristiche di questa fase di sviluppo, diciamo così, «cellulare» della vita italiana, in cui l’unità nazionale deve metter radici, con un processo lento, poiché la vittoria ci aveva negato il suo sorriso a Custoza e a Lissa; in cui gli artefici stessi del Risorgimento trepidavano sull’avvenire d’Italia e avevano sgomenti che a noi paiono infondati oramai, ma che sarebbe stato delitto di lesa patria non provare. Tutta questa fase non va giudicata né col cànone mazziniano della missione della terza Italia, né col cànone del sogno eroico dei Giambi carducciani. L’infaticato lavoratore sa apprezzare l’opera e il lavoro, anche quando paiono senza fulgore; sa che l’eroismo scaturisce solo in rari momenti storici, ma dalla stessa tela dei doveri comuni di ogni giorno: esso è il diapason del dovere il quale è tale solo quando sa prescindere anche dal fulgore della gloria eroica. Sa che trapassare da quel sincero rimpianto poetico per i momenti epici – che è proprio della poesia carducciana – a una ricerca scenografica dell’eroismo è un decadere nella retorica dannunziana.
Il positivo dei primi decenni del regno d’Italia è nel superare le scogliere in cui pareva dovesse incagliare la conseguita unità; nell’evitare l’onta del fallimento finanziario, nel ricercarsi e ritrovarsi delle diverse parti d’Italia con molto minori attriti di quanto si temeva, nel vincere con la superiorità intellettuale e morale degli uomini dirigenti, la crisi della questione romana, senza creare lotte religiose; nel lasciare affiorare la vera fisionomia d’Italia, anche in ciò che poteva parere la corruzione dell’ordinato parlamentarismo, nell’allacciamento ferroviario della penisola, nella graduale creazione di una nuova economia industriale, nel rinnovamento delle città, nella libera esplicazione degli individui che erano poi la ricchezza della nazione. Opere tutte sagge, compiute con prudenza e con superiore onestà dagli uomini del tempo. La grandezza di tali opere si può misurare con la rievocazione dell’Italia avanti il ’60, e non proiettando nel passato l’Italia di successive età.
Quegli uomini ci possono parere forse troppo prudenti e perché temevano troppi pericoli regionalistici, clericali, socialistici, che poi non affiorarono, e perché avevano, quasi sempre, il cuore serrato da una sincera angoscia patria. Ma può anche osservarsi che quei pericoli ci paiono chimerici, perché quella prudenza li seppe lasciare estinguere; e, forse, non sarebbero stati tali, se la nuova compagine fosse stata avventurata impazientemente ad ardui cimenti.
A rigore anche quelli che passano per insuccessi esterni, il congresso di Berlino e la questione tunisina, giudicati nel loro momento storico, possono rivelarsi non più tali, o esserlo soltanto perché non si seppe aver l’animo virile di accettare senza lagnarsi situazioni ineluttabili: la disfatta consiste nel vano rimpianto.
Aveva, nel ’78, l’Italia forze sufficienti per impedire le decisioni di Berlino, e anche le avesse avute, avrebbe avuto convenienza a rinnegare lo spirito del proprio Risorgimento per ingolfarsi in una politica di spiriti austriaci? E per Tunisi – poiché per la Francia l’impresa tunisina era il corollario della lotta quinquennale per l’Algeria e una ripresa dopo la disfatta del ’70 – l’opposizione italiana avrebbe dovuto giungere fino ad una guerra in cui sarebbe mancato l’appoggio inglese, che non poteva vedere di buon occhio che le due rive del canale d’Africa venissero nelle mani della stessa potenza. Era conveniente impegnarsi in tale lotta? La delusione tunisina era inevitabile, perché l’Italia arrivava effettivamente tardi: doveva aprirsi la via, come nazione nuova, fra gli interessi consolidati di nazioni che avevano secolari tradizioni politiche e maggiore sensibilità dei propri interessi; proprio mentre all’interno non era ben costituita la classe dirigente, ed era grave problema l’assimilare sempre più vasti ceti nella vita statale.
La chiave per intendere gli ultimi decenni del secolo scorso il Croce la ricerca in tutta la storia europea, a cui l’Italia partecipa anche là dove non se ne accorge. L’Italia si era formata sotto il segno delle idee della prima metà dell’Ottocento, nella fede e nella civiltà liberale; era il massimo monumento della religione della nazionalità, che dai campi di Lipsia e dalle tre giornate di luglio aveva conquistato il mondo. Ma Sedan aveva scosso quella fede e ottenebrato gli entusiasmi.


Lo schiacciamento, che seguì della Francia da parte delle genti germaniche, e l’esegesi storico-filosofica, che ne dettero i pensatori e i professori d’oltre Reno, sembrarono avvolgere nel funebre sudario tutte le razze latine: la battaglia di Sedan prendeva l’aspetto di una nuova finis Romae. Nel 1870, Napoleone III era sopraffatto e sostituito dal conte di Bismarck, che rappresentava non già la politica realistica (rappresentava anche questa contro i romantici alla Federico Guglielmo IV, e i democratici sognatori alla Mazzini, e non certo contro un Cavour sommamente realistico e diplomatico non punto a lui inferiore) sibbene quella reazionaria del governo semiassoluto e burocratico, col vecchio re e col vecchio Dio, più o meno biblico. Tale il significato specifico della forza di cui egli parlava, ossia non la forza che è di ogni politica seria, ma la forza degli antichi regimi e degli antichi istituti e costumi, e dei loro uomini, signori di spiriti e costumi feudali, e soldati del re e dell’imperatore. Senonché (e qui stava il punto nuovo ed originale del suo carattere e del suo pensiero) la sua etica avversa all’etica liberale, straniera agli ideali della civiltà moderna, operava con franchezza il congiungimento con l’economia del mondo moderno, con la tecnica, l’industrialismo, il commercio, la banca, l’espansione illimitata, la scienza promossa, l’istruzione diffusa, e perfino col suffragio universale e col socialismo nella forma di leggi sociali, e di socialismo di stato. Ciò dava al sistema da lui inaugurato una forte presa sul mondo moderno, tanto che in molte sue parti fu riprodotto in Inghilterra dal Disraeli, conservatore a lui affine, ed ebbe efficacia in ogni paese, generando una nuova disposizione degli animi e un nuovo fare e un nuovo linguaggio.

Avviene, quindi, un turbamento morale e spirituale in tutta Europa e profondissimo nell’Italia risorta, che nella sua struttura era spiritualmente pre e anti-bismarckiana:

Nel 1870, mentre l’Italia portava a compimento la sua unità con l’acquisto della capitale, la politica europea mutava indirizzo, gli ideali, che l’avevano guidata fino allora, si dissolvevano o prendevano un temporaneo ma lungo riposo e, come scrisse il De Sanctis… pareva come se formata l’Italia si fosse sformato il mondo intellettuale e politico da cui essa era nata.

Da ciò un disorientamento profondo, il pessimismo amaro che toglie agl’Italiani la gioia delle opere non ispregevoli che si compiono, e che costituisce la fonte perpetua di quelle rampogne non mai cessate al carattere degli Italiani, alla loro qualità di popolo vecchio; da ciò il soggiacere – per debole vigore critico – ai miti pangermanistici delle razze giovani: lo smarrire, abbacinati dall’ammirazione per i Tedeschi, i motivi più profondi delle nostre tradizioni e la visione dei danni e dei difetti organici intrinseci allo stesso rigoglio tedesco.
Ma, se questa scarsa reazione critica nel campo culturale costituisce il difetto più grave dell’età umbertina, politicamente si fece tutto quello che si poteva e si doveva.
Di fronte alla sorda ostilità francese, alla crisi tunisina, alla preponderanza tedesca, ad una situazione che non era in potere dell’Italia mutare, il meglio era garantire la pace e il raccoglimento, e insieme mantenere fede agli spiriti che avevano ricostruito la nazione.
Certamente, ogni situazione si può modificare per via esplosiva: ma lanciarsi all’avventura per l’avventura senza chiarezza di fini, senza la certezza della coerenza di questi fini alla spiritualità della nazione è politica inferiore; quella appunto che ha portato la Germania al disastro di nove anni fa. Ciò non vollero gli uomini di stato italiani di allora. Accedettero alla Triplice e strinsero accordi mediterranei con l’Inghilterra per ottenere queste garanzie di sviluppo all’Italia.
Nella prima stipulazione della Triplice, commisero l’errore di essere i primi a chiedere, di mostrare l’angoscia di un isolamento non bello. Ma, nella successiva rinnovazione, il di Robilant con tutta fermezza seppe correggere gli errori e ottenere le garanzie necessarie, che ci consentirono una nostra politica mediterranea, e ci salvarono nel 1914 dal casus foederis. La reazione sentimentale alla Triplice generò all’interno l’irredentismo: continuazione degli spiriti del Risorgimento, esso ebbe il suo martire nell’Oberdan, e fu forza del domani, la politica di riserva dell’Italia. Non si può affermare che la posizione fosse senza difficoltà: si era legati ad un’alleanza della cui solidità, in caso di guerra, non era certo neppure il di Robilant e, all’interno, si aveva la controcorrente dell’irredentismo.
Ma, in complesso, non è senza fondamento la conclusione del Croce: che «sia, se non da rovesciare, da correggere l’ordinario giudizio su quel periodo, che si disse dalla sciagurata politica estera italiana, se in esso l’Italia con l’irredentismo, con le aspirazioni africane, con gli accordi inglesi, con gli impegno presi e ricevuti nel trattato della Triplice, con le clausole di cautela contenute in questo, pose tutte le premesse della sua futura politica internazionale, sboccata, in ultimo, nella partecipazione alla guerra mondiale».
Una cosa notevole in questa sintesi: che mai prima del Croce era stato con tanto vigore affermato il pericolo tedesco per l’Italia: pericolo non militare, ma spirituale di soffocazione dei germogli vitali della nazione, di mortificazione delle fedi e delle ambizioni costitutive della nostra patria. Ciò, a lungo andare, avrebbe ucciso l’Italia negandone la funzione nel mondo e nelle civiltà. La più nitida spiegazione della guerra italiana nelle radici spirituali vien data così da colui che una banale accusa taccia di tedescofilia. Gli è che le vie del pensiero critico sono profondamente diverse dalla contumelia giornalistica e dalla dogmatica contrapposizione di borie nazionali.
In questo sfondo viene restaurata, al di sopra dei codardi oltraggi dei contemporanei e delle indefinite apologie, la fisionomia del Crispi: una specie di sfortunato Clemenceau italiano.
Nella sua intima struttura, il Crispi è sempre un radicale; un democratico che, però, dai fervori repubblicani è passato ad una devozione ardente per la monarchia. Vecchio cospiratore, grande artefice dell’impresa del ’60, vuol sollevare l’Italia dalla stasi in politica estera: all’interno, la vuol sollevata dal pavore agghiacciante del socialismo, dal senso d’impotenza della classe dirigente a risolvere il problema sociale. L’Italia per cui il vecchio aveva sfidato il «tetro delle borbonie scuri balenar» doveva essere e avere una funzione e un rigoglio nel mondo: era questa la sua magnanima ostinata fede. Ma alla fede non corrispondeva una lucida visione delle situazioni.
La volontà non trovava gli addentellati su cui aver presa. Quindi, una irrequietezza torbida e incomposta, più che uno spiegato piano di azione, col conseguente rischio – già rilevato – della politica esplosiva. Esaspera all’estremo l’antagonismo colla Francia, ed è convinto che una guerra colla Francia sarebbe poco meno di una guerra civile; disapprova l’impresa d’Africa e ad essa si appiglia come a via di gloria; tenta con iscarsa ponderatezza la conciliazione col Vaticano, per poi ripiombare in un più violento anticlericalismo; si assume coraggiosamente la repressione degli sconsiderati moti dei fasci siciliani, ma limitandosi a repressioni di polizia, non fa che comprimere una molla che scatterà più violenta. La conseguenza di questa smaniosa politica sarà Adua, che farà risanguinare la piega di Custoza e di Lissa e ribadirà nello scoramento la nazione ch’egli voleva risollevare.


C’era, in quel vecchio ingenuo e focoso, del fanciullo, del poetico fanciullo; e la riverenza, che spira dalla sua sventura al ricordo delle sue opere e del suo lungo assiduo travaglio per la patria, si ammorbidisce talora in una tenerezza di partecipe pietà, come quando si vede ad alcuno portar via, ancorché per effetto dei suoi propri errori, quel che pure aveva formato l’alto e unico oggetto delle sue devote sollecitudini, del suo orgoglio, della sua gioia; e una vita trascorsa tutta nell’ardore pugnace dell’azione, fra il clamore dei combattenti, spegnersi sconsolata nel silenzio e nel deserto che le si è steso intorno.

Eppure, un nuovo rigoglio di vita venne all’Italia proprio da quel socialismo che faceva paura; nella sua prima fase esso era ricco di fermenti nuovi.

Nella vita culturale, il marxismo dissolve la grettezza del positivismo fin allora dominante; arricchisce poi il ritmo politico della vita nazionale, porta all’azione moltitudini prima apatiche, rappresenta nell’evoluzione spirituale di molti suoi rappresentanti un collaudo e un riconoscimento delle superiori necessità della vita nazionale. Ed ecco che il Croce afferma energicamente lo spunto per la storia per il primo quindicennio del secolo.
La crisi socialista è superata col metolo liberale: col fare effettivamente esperimentare che la libertà, considerata «menzogna borghese» dai socialisti, è una condizione vitale superiore alle classi e che solo in essa può concentrarsi l’elevazione delle classi proletarie. Nella resistenza ai tentativi reazionari post-crispini in unione con le forze liberali, il socialismo perde l’aspetto di scisma irreconciliabile: deve assumere contro il puro marxismo le forme di socialdemocrazia.
Simultaneamente, nel campo culturale, il mito marxista viene smantellato in Italia anche più vigorosamente che altrove.
Nell’aria serenata dalle tempeste, fiorisce in un nuovo rigoglio l’economia. La vita culturale s’estende, perde i pavori e le angustie del pericolo precedente, gareggia con quella estera e per molti aspetti prende il sopravvento.
Questo rigoglio si riflette anche nella politica estera. Pur nell’ambito della Triplice, l’Italia partecipa in vista dei suoi interessi mediterranei alla politica di raffrenamento delle esorbitanze tedesche, guidata da Edoardo VII d’Inghilterra.
Sorpresa dall’annessione della Bosnia-Erzegovina all’Austra, ultima conseguenza del trattato di Berlino, l’Italia si decide qualche anno dopo, appena rimessasi dal terremoto di Messina, all’occupazione della Libia. Vi sono oscillamenti dentro e fuori dell’alleanza, ma oramai l’Italia segue una via sua. La Libia cancella Adua. Nonostante gli antagonismi mediterranei con la Francia e anche con l’Inghilterra per l’espansione nostra nel Mediterraneo orientale, la Triplice non si consolida: il contrasto con l’Austria sia nelle terre irredente sia nella penisola balcanica diviene sempre più acuto, in occasione delle due guerre balcaniche.
Il divergente sviluppo interno dell’Italia e della Germania fa perdere i contatti fra le politiche di queste due nazioni. Uscita dal raccoglimento con l’impresa libica, l’Italia non poteva consentire che le sorti del mondo si decidessero senza di lei, in un’ignavia che avrebbe giustificato un nuovo Campoformio. Poiché appariva evidente che, in una pace tedesca, l’Italia non avrebbe potuto trovar posto, bisognò lasciar cadere l’alleanza della Triplice oramai svuotata d’ogni contenuto, e gettarsi nella fornace a lato alle potenze occidentali. Ciò era nel filo e nella logica di tutta la precedente politica; il coronamento di tutto uno sviluppo di circa un cinquantennio consisté nella suprema decisione: nel lanciarsi nella guerra, non perché l’Italia fosse travolta da un turbine come le altre potenze, ma nella matura riflessione di fini superiori, pur con la visione orrida dei travagli che ci attendevano.
Ma se, da un lato, il Croce vede il lato luminoso di questo periodo, non gli sfuggono i lati negativi. Il socialismo sopravvive al crollo del suo mito: gli uomini moderati del partito son come prigionieri in esso, non possono effettivamente dichiarare conclusa l’esperienza della lotta di classe per non essere abbandonati dalle moltitudini. V’è, perciò, un ristagno, l’esperienza non giunge alle sue più limpide conclusioni. Rimangono nel partito senza aver più la fede socialista. Cercano è vero di arginare – e talora con successo – col proprio prestigio le folle che hanno ridestate; ma rimangono in una perpetua ambiguità; dànno l’esempio rovinoso di una politica bifronte. Vulgus vult decipi: declamano a freddo su ciò a cui non credono e che sanno rovinoso se si conseguisse. Tristo esempio di servitù a tirannide di folle, di galvanizzazione sterile di moltitudini, rovinoso esempio per un paese non risanato bene dalla lue dell’ipocrisia. Né i vantaggi che se ne ricavano son duraturi, perché sulla stessa via, ma con ben altra spregiudicatezza altri concorrenti in popolarità al crollato mito marxista sostituiscono il puntello dell’irrazionalismo soreliano: il mito del mito. Ciò è sincrono al divulgarsi, sotto la buccia della nuova cultura, di correnti d’irrazionalismo più o meno mistico e di uno chauvinisme d’origine francese, che crede di poter soppiantare l’onesta forma del patriottismo italiano. Prorompe, insieme, l’irrequietezza delle nuove generazioni guaste dal dannunzianesimo: della nuova civiltà si afferrano solo le forme esteriori, meccaniche e si rinnegano gli spiriti etici che sostengono questa civiltà.
Nasce l’antagonismo fra civiltà (estrinseca) e cultura (intrinseca), già prevista cent’anni prima dal Pestalozzi. Anche qui si è di fronte a sviluppi non esclusivamente italiani, ma europei e mondiali.
In Italia avviene, pur nel pericolo di rigoglio dovuto al metodo liberale, un disaffezionamento dal liberalismo, considerato non già fede costitutiva della patria, ma presupposto su cui non giova tornare. L’uomo politico liberale di questa fase, il Giolitti, non ha quasi nessun contatto colla vita spirituale della nazione. Il suo liberalismo burocratico viene ini uggia, perché pare mera tecnica. V’è, in tutto ciò, un tarlo che rode la vita morale. La crisi è sostanzialmente crisi religiosa, perché nel mondo moderno il liberalismo è subentrato all’antica fede nel sostenere il consorzio civile. La meditazione storica del Croce sbocca così nel problema religioso.


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