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    Predefinito Paganesimo evoliano e tradizionalismo romano: cosa ne pensate?

    TRADIZIONALISMO ROMANO

    Un interesse per la spiritualità romana in Italia risale al Rinascimento – con l’Accademia neoplatonica fiorentina, influenzata dal greco Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452), e con l’Accademia Romana di Giulio Pomponio Leto (1428-1497) – e arriva a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento fino alla cosiddetta Schola Italica – pitagorica e “imperialista pagana” – di Amedeo Rocco Armentano (1886-1966) e Arturo Reghini (1878-1946), manifestandosi pure entro l’ermetismo di Giuliano Kremmerz (Ciro Formisano, 1861-1930) – di cui si tratta in altra sezione di questo progetto – e, secondo alcuni, di Leone Caetani (1869-1935). Né vanno dimenticate, in questa chiave, le attività dell’archeologo ed esoterista Giacomo Boni (1859-1925) e le speculazioni di quanti ritengono di trovare in Italia collegamenti con l’antica Atlantide. Più tardi è influenzato da questa corrente – e la influenza a sua volta – Julius Evola (1898-1974), senza dimenticare il tentativo di dialogo fra “via romana” e cristianesimo di Guido De Giorgio (1890-1957). A quest’ultimo s’ispirerà parzialmente il medico di Evola, Placido Procesi (1928-2005), interessato sia alla spiritualità romana sia alle tradizioni tibetana e giapponese: nell’ambito di quest’ultima coltiverà le tradizioni dell’arco (kyudo) e della spada (iaido), tuttora insegnate dall’Accademia Romana Placido Procesi per il Kyudo e lo Iaido, che ne continua le attività.

    Se Evola ha sempre messo in guardia contro la formazione di gruppi e movimenti “evoliani” – e tuttavia, attorno alla metà degli anni 1920, in un certo senso su suggerimento di emanazioni del milieu kremmerziano, egli si trovò a essere il punto di coagulo di un drappello di esoteristi, i quali agivano al fine di una riaggregazione degli ambienti del Tradizionalismo romano, finalizzata a formare un’élite spirituale da porre alla guida dello Stato nell’ottica di un “imperialismo pagano”: da qui l’esperienza del Gruppo di Ur (1927-1929), che ci porterebbe lontano dal nostro discorso ma che è a tutti gli effetti un crocevia essenziale per la storia del pensiero magico in Italia nel secolo XX –, alla tradizione di Caetani e Reghini s’ispira in parte l’Associazione di Studi Tradizionali “Senatus”, discussa in altra sezione fra i gruppi dell’ermetismo kremmerziano. Una “via romana” riferita a una fase del pensiero di Evola ha peraltro ispirato il Gruppo dei Dioscuri che agiva nell’ambito dell’estrema destra romana, napoletana e messinese negli anni 1970, il cui nome fu suggerito inizialmente da Procesi, che ha avuto influenza – pur essendo attraversato nella sua storia da notevoli turbolenze, riflesso pure a loro modo di vecchi contrasti nel Gruppo di Ur fra Evola, che finiva per privilegiare una tradizione “nordica” e Reghini, sostenitore invece del primato della tradizione romano-mediterranea – su organizzazioni degli anni 1980 come il Centro Studi Tradizionali Arx di Messina. Questo gruppo è alle origini, dal marzo 1984, del trimestrale La Cittadella ‒ pubblicato dal 1984 al 2008 ‒, fondato e diretto nella sua prima serie (1984-1999) da Salvatore Ruta (1923-2002) – aderente fin dal 1970 al nucleo messinese del gruppo dei Dioscuri, cui si dovrà un decisivo impulso alla creazione di una corrente pagano-romana nel tradizionalismo italiano, nonché Princeps di un ordine emanazione di quel nucleo, da cui poi, nel 1980, deriverà, sempre a Messina, il già menzionato Centro Studi Tradizionali Arx – e nella sua seconda serie (dal 2001), stampata a Roma e diretta da Sandro Consolato.

    Nel 1981 una manifestazione pubblica tenuta a Cortona il 1° Marzo – giorno che segnava l’inizio dell’anno sacro romano – e un convegno di studio, pure caratterizzato da divergenze, riuniscono – su iniziativa della rivista Arthos, fondata nel 1972 da Renato del Ponte (1944-2023) in un ambiente di discepoli di Evola – i diversi gruppi di tradizione romana presenti in Italia, seguiti da un secondo convegno a Messina nel dicembre dello stesso anno. Fra il 1985 e il 1988 si tengono in Sicilia tre incontri – chiamati I, II e III Conventum Italicum – da cui nasce, con l’incontro fra i gruppi di Ruta e del Ponte con un terzo nucleo fondato a Palermo da Roberto Incardona, un Movimento Tradizionalista Romano – poi chiamato anche Movimento Tradizionale Romano –, che definendosi non politico, intende riunire i gruppi che propongono in Italia la via romana. Nel 1988 il Movimento pubblica l’importante volume Sul problema di una tradizione romana nel tempo attuale, redatto da Incardona e ai cui contenuti aderiscono anche due gruppi che avranno esistenza breve, il Centro Studi “Claudio Flavio Giuliano” di Vignola (Modena), diretto da Steno Lamonica, e il Centro Studi “Giorgio Gemisto Pletone” di Rimini, diretto da Gianfranco Nini. Nel 1992 si tiene il IV Conventum Italicum a Forlì, presso la sede dell’Associazione Romania Quirites, un’organizzazione diretta dai coniugi Loris Viola e Marina Raggi che si era avvicinata al Movimento nel 1991 entrandovi nello stesso 1992 come Gens Apollinaris – ne uscirà poi durante l’autunno 1998 per continuare un’attività indipendente che prosegue ancora oggi – e l’unica di quest’area strutturata comunitariamente, con aree agricole e attività artigianali in Romagna, e una casa editrice, la Victrix, che oltre ai libri pubblica il periodico Saturnia Regna.

    Il Conventum decide che accanto al Movimento Tradizionalista Romano, struttura federativa, nasca una Curia Romana Patrum, con compiti d’indirizzo dottrinale e rituale. Frutti di questa decisione sono la preparazione di un Kalendarium comune, che indica le date essenziali per le celebrazioni cultuali comunitarie personali, e la celebrazione di matrimoni – i primi in Sicilia nel 1989, già antecedentemente al Conventum, e in Romagna nel 1992 – secondo le linee dell’antica confarreatio o “comunione del farro”. Nel 1993 entra nel movimento un nuovo gruppo romano, la Gens Iulia Primigenia, diretta da Daniele Liotta, mentre altri gruppi nascono a Firenze e – con un’esistenza che sarà peraltro effimera – in due località degli Stati Uniti, Tucson (Arizona) e Fort Lauderdale (Florida). Negli stessi anni si svolgono trattative per una maggiore integrazione fra l’area tradizionalista romana e quella ispirata a Reghini e a Kremmerz, che non andranno a buon fine ma porteranno comunque alla celebrazione di alcuni rituali comuni.

    A Roma, fra il 1994 e il 1996, è uscita la rivista Mos Maiorum, con rapporti ma non aderente al Movimento Tradizionalista Romano, il cui animatore, l’attore Roberto Corbiletto (1949-1999), è stato trovato morto in casa sua nel marzo 1999 colpito da un fulmine entrato da una finestra, episodio sul quale nell’ambiente esoterico non sono mancate interpretazioni fantasiose. La scomparsa, nel 2002, di Ruta – che fino alla morte era sempre stato rieletto all’unanimità “Princeps” del Movimento – determina diversi problemi organizzativi e nel 2007 il distacco di Incardona, cui si accompagnano d’altro canto importanti contatti internazionali e l’adesione, sempre nel 2007, al World Congress of Ethnic Religions guidato dal lituano Jonas Trinkunas (1939-2014), fondatore del vivace movimento neo-pagano Romuva, in seguito denominato European Congress of Ethnic Religions e che nel 2010 ha tenuto il suo congresso internazionale in Italia, radunando pure varie associazioni del nostro Paese, peraltro non senza qualche polemica fra loro.

    Agli inizi del 2009 il Movimento Tradizionalista Romano consta della Gens Pico-Martia a Genova con del Ponte, della Gens Aurelia con Consolato a Messina, della Gens Iulia Primigenia con Liotta a Roma, della Gens Castoria con Gaetano Vaccaro a Palermo. Senonché, nel corso del 2009, prima esce dal movimento Consolato, che riporta La Cittadella da organo dello stesso movimento a rivista indipendente, quindi si determina una grave crisi nel gruppo di Roma, che porta all’espulsione di Liotta dal Movimento Tradizionale Romano. Tuttavia, da questo momento Liotta – in conseguenza di una registrazione notarile, in precedenza mai fatta – usa il nome Movimento Tradizionale Romano, cui fa capo il sito www.saturniatellus.com, mentre il nucleo originario, che si era raccolto intorno a del Ponte, usa il nome Movimento Tradizionalista Romano, mantiene buoni rapporti di collaborazione con il gruppo messinese, che resta però autonomo, e consta delle due Gentes Pico-Martia a Genova e Castoria a Palermo, nonché di un nucleo a Roma che non ha seguito Liotta. La sigla MTR indica dunque oggi sia il Movimento Tradizionalista Romano guidato da del Ponte sia il Movimento Tradizionale Romano che fa capo a Liotta, di fatto due realtà separate e rivali, mentre fino al 2009 uno stesso movimento utilizzava sia il nome Movimento Tradizionalista Romano sia – a partire dal 1998 – quello Movimento Tradizionale Romano. Gruppi diversi si ritrovano peraltro ogni anno il 21 aprile per celebrare il Natale di Roma, che resta la principale ricorrenza per l’intera corrente.

    In apertura di questa scheda abbiamo menzionato il filone della Schola Italica di Amedeo Rocco Armentano e Arturo Reghini. Quanto al secondo personaggio – matematico fiorentino e dignitario della massoneria prima del suo scioglimento a opera del fascismo –, egli fu indubbiamente il più noto esponente del neo-pitagorismo nel secolo XX e teorico dell'”Imperialismo pagano”, nonché personaggio di punta della scapigliatura fiorentina all’epoca delle riviste Leonardo, Lacerba e La Voce, e ancora fondatore delle riviste Atanòr (1924), Ignis (1925) e – con Julius Evola – Ur (1927-1928). Iniziato alla massoneria nel 1902 – dopo avere partecipato sul finire del secolo XIX alla nascita in Italia della Società Teosofica –, partecipa attivamente al mondo della “frangia massonica”, e particolarmente al Rito Filosofico Italiano, la cui storia s’intreccia con l’Ordine Antico e Primitivo di Memphis e Misraim, “che un competente studioso ha definito come ‘un approssimativo adattamento, in veste italiana e con ibrida mescolanza di cognizioni pitagoriche e gnostiche, al Rito Nazionale Spagnolo'” (Natale Mario di Luca, Arturo Reghini. Un intellettuale neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma 2003, p. 45). Nel 1910 conosce Amedeo Rocco Armentano, da cui riceve una “iniziazione pitagorica”, e il 18 dicembre 1923 – qualche mese prima della partenza del suo maestro per il Brasile, avvenuta il il 3 maggio 1924 – fonda a Roma un’Associazione Pitagorica, in qualche modo rivitalizzata – comunque, costituitasi a Crotone, il 22 dicembre 1983 – nei decenni successivi da Sebastiano Recupero (1954-1988), e a sua volta sciolta dopo la morte del presidente, che si voleva “emanazione diretta e visibile del Centro iniziatico della Tradizione metafisico-sacrale di Roma pagana [ricollegata], nella più assoluta e rigorosa ortodossia, al nucleo esoterico-sapienziale della Schola Italica” (premessa ad Arturo Reghini, Paganesimo Pitagorismo Massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Società Editrice Mantinea, Furnari [Messina] 1986).

    Alle attività dell’Associazione Pitagorica – sia nella versione “originale” di Reghini, sia nella prosecuzione ideale di Recupero – fa ora seguito l’Associazione Culturale Ignis, che nel proporsi “di far conoscere gli scritti e l’opera del filosofo e matematico Arturo Reghini, delle Istituzioni cui appartenne, dei Sodalizi da lui promossi e della Scuola Pitagorica”, ha intrapreso inoltre un ambizioso programma editoriale, comprensivo di un bollettino online (Flauto di Pan), dal quale emerge fra l’altro un qualche genere di rapporto fra tale “sodalizio reghiniano” e la corrente kremmerziana – di per sé non presente in forma diretta durante la vita di Reghini e Kremmerz – per tramite di una Segreteria Latino-Americana della Schola Philosophica Hermetica Classica Italica – la Fratellanza di Miriam di Giuliano Kremmerz –, che su tale bollettino ha pubblicato articoli “sulle proprietà magiche e curative dell’ayahuasca” – sostanza psicotropa utilizzata per riti enteogenici dalle Chiese del Santo Daime (cfr. Flauto di Pan, n. 2, marzo 2005) – e sugli “influssi sciamanici sulla S.P.H.C.I.” (cfr. Flauto di Pan, n. 3, giugno 2005).

    B.: Essenziali per la storia del movimento rimangono: Fabrizio Giorgio, Roma Renovata Resurgat. Il Tradizionalismo Romano tra Ottocento e Novecento, 2 voll., Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2011; Movimento Tradizionalista Romano, Sul problema di una tradizione romana nel tempo attuale, SeaR, Scandiano (Reggio Emilia) 1988; Renato del Ponte, Il movimento tradizionalista romano nel Novecento. Studio storico preliminare, SeaR, Scandiano (Reggio Emilia) 19872; Idem, “Les courants de la Tradition païenne romaine en Italie”, Antaios, 10 (giugno 1996), pp. 166-171, di cui una versione italiana è “Le correnti della tradizione pagana romana in Italia”, Algiza, 7 (aprile 1997), pp. 4-8; Hans Thomas Hakl, “Das Neuheidentum der römisch-italischen Tradition: Von der Antike in die Gegenwart”, in René Gründer – Michael Schetsche – Ina Schmied-Knittel (a cura di), Der andere Glaube: Europäische Alternativreligionen zwischen heidnischer Spiritualität und christlicher Leitkultur, Ergon Verlag, Würzburg 2009, pp. 57-75. Le prescrizioni rituali e cultuali sono riportate in Movimento Tradizionalista Romano (a cura di), Memoranda et Agenda, Edizioni del Tridente, La Spezia 1996. Sul Gruppo di Ur, cfr. R. del Ponte, Evola e il magico “Gruppo di Ur”. Studi e documenti per servire alla storia di “Ur-Krur”, SeaR, Scandiano (Reggio Emilia) 1994. Sull’influenza del Gruppo di Ur sul Gruppo dei Dioscuri, cfr. Piero Fenili (1936-2021), “Il Gruppo dei Dioscuri come tentativo di ripresa dell’esperienza del Gruppo di Ur”, Elixir. Scritti della tradizione iniziatica e arcana, n. 9 (2010), pp. 8-10. Di Amedeo Rocco Armentano, cfr. Massime di scienza iniziatica, Associazione Culturale Ignis, Ancona 2004. Di Arturo Reghini, cfr.Paganesimo Pitagorismo Massoneria, a cura dell’Associazione Pitagorica, Società Editrice Mantinea, Furnari (Messina) 1986; Considerazioni sul Rituale dell’apprendista libero muratore, Studi Iniziatici, Napoli s.d.; e Dei numeri pitagorici – Libri Sette – (Prologo), Associazione Culturale Ignis, Ancona 2004. Sul Rito Filosofico Italiano, cfr. Roberto Sestito, Storia del Rito Filosofico Italiano e dell’Ordine Orientale Antico e Primitivo di Memphis e Mizraìm, FirenzeLibri, Firenze 2003. Su Arturo Reghini, cfr. Natale Mario di Luca, Arturo Reghini. Un intellettuale neo-pitagorico tra Massoneria e Fascismo, Atanòr, Roma 2003; R. Sestito, Il figlio del Sole. Vita e opere di Arturo Reghini. Filosofo e matematico, Associazione Culturale Ignis, Ancona 2003; e Arturo Reghini. La Sapienza pagana e pitagorica del ‘900, quaderno monografico della rivista La Cittadella, anno VI/VII nuova serie, n. 23-24-25, luglio-dicembre 2006 / gennaio-marzo 2007.

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    Predefinito Re: Paganesimo evoliano e tradizionalismo romano: cosa ne pensate?

    Evola e la sua rivoluzione
    Il superamento del Tradizionalismo e della Tradizione

    GIACOMO MARIA PRATI


    (Julius Evola, Il problema dello spirito contemporaneo)

    Le rivoluzioni in piazza le fai per conto della borghesia, che crea falsi miti di progresso.

    (Franco Battiato, Up patriots to arms)

    Siamo sicuri che Evola non sia stato ad oggi incompreso? Siamo sicuri che la sua opera possa ridursi ad un’esaltazione di una Tradizione universale, autosussistente, fine a se stessa? Dal punto di vista spirituale certamente il pensiero di Evola appare simile a quello di Guenon nel ritenere esistente una Tradizione vivente universale sovrastorica e sovraconfessionale, di cui Guenon esprime l'aspetto sacerdotale-contemplativo ed Evola l'anima eroica-aristocratica, il carisma guerresco. Ma questa non è un’idea tradizionalista, ma un'idea sì antica ma nomade e metamorfica, in quanto già gnostica, manichea, alessandrina.

    Fu dentro l'Ellenismo che tradizioni ebraiche, culture greche neoplatoniche ed eresie cristiane si incrociarono e contaminarono, nella ricerca di una colta e raffinata compresenza che da un lato il Cattolicesimo romano e dall'altra l'Islam politico avversarono e spazzarono via nei secoli. La stessa idea tradizionale-antitradizionale la ritroviamo nell'opera I grandi iniziati di Edoardo Schurè e nella Filosofia perenne di Aldous Huxley, in Eliott e Joyce, nella Golden Dawn, nell'esoterismo volitivo e demiurgico di D'Annunzio, nei simbolismi evocativi di Ezra Pound. Non è una novità di Evola l'idea di una tradizione occulta che emerge fino a noi dalla notte dei tempi. È una mitologia che usarono gli stessi massoni settecenteschi per legittimare un'antichità che la massoneria moderna non possedeva. La novità di Evola, ancora oggi dirompente e originalissima è data da due fattori: l'aver sistematizzato a livello di teoria filosofica questa idea, esaurendo e superando ogni idealismo e convertendolo in un nuovo/antico “oggettivismo-realismo trascendentale” e l'aver spostato il baricentro sul singolo e sulla sua “autoevoluzione”. La componente tradizionale postula un rivivere di capacità mitopoietiche e proiettive dal gusto antico ma questa è solo una delle polarità di tale pensiero. La sua anima decisiva è un'anima irradiante tesa al futuro. Quello di Evola è un futurismo esoterico, spiritualista, dove la Tradizione è supporto ma non fine in quanto il fine è una vita superiore a cui attingere e da inverare per via sperimentale. L'aspetto automanipolativo e sperimentale rivela un'anima profondamente e spiritualmente rivoluzionaria, rispetto ad ogni precipitato storico, religioso e rituale. Rivoluzionaria in quanto teurgica, magica, demiurgico-prometeica. Il protagonista primo non è la Tradizione, termine neutro e tecnico, non direzionale, mero presupposto formativo-culturale, ma l'Individuo Assoluto, entità postulata quale indistruttibile, immortale, stabile e metamorfica come un Deus interior ancestrale, simile al daimon greco-romano. La Tradizione serve l'Individuo Assoluto quale Ideale, quale realtà latente da realizzare in modo totale, sia individualmente che socialmente. La Tradizione che Evola esalta è quella che ritualizza nei millenni le “uscite dal mondo” celebrate da Elemire Zolla. Una Tradizione non conservativa ma iniziatica dove l'eroe è l'illuminato, l'iniziato, non il difensore di un ordine politico precostituito. Una tradizione solare e teurgica che continua Plotino nel voler “attirare gli dei” all’individuo e non allontanare l'uomo da se stesso.

    In questo Evola appare sommamente rivoluzionario e postmoderno nel recuperare dell'Antico quanto di più individuale vi sia: Plotino, la teologia negativa di Eckart e Silesius, l'aristotelismo sperimentale di Francesco Bacone, le forme e i miti della cavalleria ghibellina. Evola filosoficamente è l'ultimo pensatore integrale e totale dopo Schopenhauer e insieme ad Heidegger: unisce scienza e meditazione, filosofia della storia e valutazione teologica, estetica e iconologia, dottrina politica e ascesi interiore. Evola è un pensatore totale, che espone e sistematizza il suo pensiero, cioè la sua versione individuale di una Tradizione elitaria millenaria, in tutte le dimensioni dell'esistere: dal sesso alle scalate in montagna. Un pensatore che unisce i tempi e che possiamo considerare l'“Aristotele del Novecento”, tanto quanto Heidegger è stato ed è l'insuperato Platone del Novecento. Sono certo di non esagerare ma di voler affermare meri dati di fatto. Evola infatti è l'ultimo a recuperare il concetto, riformulandolo, di “causa formale” e di causa finale” nella sua profonda Teoria dell'Individuo Assoluto. Come per i filosofi antichi, Pitagora, Epimenide, Proclo, Anassimandro, così in Evola non si può separare il pensiero magico da quello scientifico, il ragionamento logico dallo slancio ideale. Tanto basti per incoraggiarne la (non facile) lettura, oggi assolutamente stimolante per il pensiero etico ed estetico. Può una società iper-individualistica (e anche ipo-individuale) non apprezzare il massimo teorico di un “Individuo Assoluto” nella storia del pensiero umano? Per questo semplice motivo il pensiero filosofico non cristiano è morto dopo il 1945: si è censurato e demonizzato Evola, la cui sperimentalità radicale appare ancora oggi attuale e creativa.

    Da un certo punto di vista oggi chiunque abbia una sua ricerca spirituale libera e solitaria, non del tutto inclusa nel mondo cristiano, non può non fare i conti con il pensiero di Evola, non può non dirsi, anche se in parte e inconsapevolmente, evoliano. Dal punto di vista delle Religioni rivelate, delle Tradizioni religiose storiche il pensiero di Evola è un pensiero del tutto sovversivo in quanto pone un Infinito non personale, e lo pone non tanto fuori dall'individuo quanto sua radice interna. Evola quale il più grande anarchico, quale massimo sistematizzatore di un pensiero magico autarchico, libero dai limiti della “natura” e del “cosmo” presenti in Aristotele e nella cultura rinascimentale. Nessuna Tradizione religiosa potrebbe accettare la libera ed eroica sperimentabilità evoliana, neppure il Buddismo e il Taoismo di oggi. Questo perché per Evola la Tradizione è una prima via, non la destinazione finale. La Tradizione eroica e iniziatica serve per iniziare un viaggio che solo la propria volontà può decidere di continuare e di concludere attingendo alle profondità dell'Individuo assoluto quale status sovrapersonale e sovratemporale. In questo status il concetto di ordine e di tradizione sfuma, evapora, perde la propria dicibilità e definibilità. Come tutti i raggi convergono nell'unico centro della ruota così le vie delle Tradizioni in questa logica esoterica sono destinate ad essere superate e trascese in un Ordine superiore, trascendente, ma accessibile per via individuale, solitaria.

    Oggi che ogni senso di qualsivoglia ordine sta venendo meno o è già smarrita l'epica della volontà propria di Evola quale sorta di “alchimia del Sé” mostra tutta la sua potenza sovversiva, insurrezionale e ribellistica, ergendosi mitogonicamente sul “nichilismo dell’indifferenziato” oggi dominante. Il porre l'Assoluto quale bersaglio e conquista, dentro e non fuori, vicino e non lontano, dinnanzi e non indietro, impersonale ma pure individuale, fa dell'asceta-eroe-iniziato il demiurgo della propria Via, l'araldo delle proprie vittorie, l'epifania dell'Assoluto quale singolarità e del singolo quale baconiana forma formante di assolutizzazione dell'esistere. L'ethos evoliano è una Via della scelta e della differenziazione, della responsabilità totale e dell'assunzione eroica e fatidica dell'hic et nunc. La singolarità irriducibile dalla radice dell'individuo è il centro del cosmo. “Teoria dell'Individuo Assoluto” ruota tutta attorno a questa antica intuizione romano-stoica rinnovata dal nostro pensatore: la scelta del singolo è matrice universale di valore in quanto perimetra l'a-peiron che si apre prima della scelta e l'indeterminato che si richiude dopo di essa. Ciò che è determinato si rivela superiore all'infinito quale indeterminatezza.

    Quella di Evola è un'estrema filosofia del valore, che esaurisce ogni idealismo riportandolo nell'alveo di una metafisica oggettiva, sebbene impersonale, dove l'unico assoluto dinamico è quello delle possibilità del singolo. L'autarca al posto della monade vuota, il Limite contro la nullificazione del senso, la Forma quale via di autoascesi in opposizione alla morale della resa, l'eros del conflitto avverso la sterilità del neutrale. Nulla di più totalmente antropocentrico e protagoriano, e, quindi, dialetticamente a-tradizionale. Nulla di più contemporaneo e post-moderno. Ma se oggi tutto il mondo è pagano in cosa si differenzia il paganesimo evoliano? I criteri di differenziazione vengono chiaramente forniti dallo stesso filosofo che spesso chiarisce in tutte le sue opere come vi siano da sempre due tipi di “paganesimi”, cioè due tipi di matrici archetipali: una solare, attiva, virile, eroica e guerresca, che mira all'ascesi, di cui la sua vita e la sua opera sono espressione e una lunare, passiva, femminea, caotica, orgiastica e tribale, che mira alla dissoluzione e alla sovversione (potremmo ridefinirla oggi: pseudo-dionisiaca o ipo-dionisiaca), oggi predominante ma inconcludente e insoddisfacente. Anche in questo Julius ci riappare nostro contemporaneo nella sua essenza anti-ideologica, vitale, sperimentale. La Tradizione rilanciata da Evola è una tradizione di spiriti ed esperienze “antitradizionali” per i più: una tradizione minoritaria, occulta, elitaria, ereticale. Evola ha indicato e promosso l'unico modo reale per superare il concetto di Tradizione: assumerla integralmente, nella molteplicità delle sue anime, e viverla. Finché la Tradizione resta un feticcio, un simulacro, allora perdurerà come cristallizzazione totemica, immagine autoreferenziale. Elusa e continuamente ritornante. Nulla di più assiduo e prossimo dei fantasmi nel villaggio stupido dei simulacri visivi.

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    https://www.meer.com/it/58351-evola-e-la-sua-rivoluzione

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    Predefinito Re: Paganesimo evoliano e tradizionalismo romano: cosa ne pensate?

    EVOLA E GENTILE

    Come preannunciato qualche tempo fa, vi proponiamo a partire da oggi, a chiusura dello speciale dedicato ai rapporti tra Evola, Gentile e l’idealismo, un’interessante intervista a Luca Leonello Rimbotti. Scrittore, laureato in storia contemporanea, si occupa di mito, filosofia e politica nella cultura europea, soprattutto tedesca. È autore – tra gli altri – dei volumi: Il fascismo di sinistra. Da Piazza San Sepolcro al Congresso di Verona (Settimo Sigillo, 1989); Il mito al potere. Le origini pagane del nazionalsocialismo (Settimo Sigillo, 1992); Globalizzazione (Settimo Sigillo, 2003); La rivoluzione pagana. Relativismo etnico e gerarchia delle forme (Ar, 2006); La Profezia del Terzo Regno: dalla Rivoluzione Conservatrice al Nazionalsocialismo (Ritter, 2011); Lebensraum: impero nazionalsocialista e rivoluzione conservatrice (Ritter, 2014); insieme a Federico Prati e Silvano Lorenzoni, Mistica Völkisch – mito del sangue e metafisica della razza nell’etnonazionalismo völkisch (Effepi, 2014).

    Ha collaborato con le riviste «Elementi», «Italicum», «Margini», «Linea», «Diorama letterario», «Trasgressioni» ed è autore di svariate prefazioni e introduzioni per le pubblicazioni dell’Editrice Thule.

    ***

    1) Dottor Rimbotti, come evidenziato da diversi ricercatori e studiosi, il rapporto tra Julius Evola e Giovanni Gentile fu tutt’altro che uniforme: dal 1922 al 1934, pur avanzando alcune critiche a Gentile, il giovane Evola cercò comunque un contatto diretto con il celebre filosofo, rappresentante italiano del post-hegelismo che di fatto occupava un ruolo importante nel processo di edificazione dello Stato fascista, nel tentativo di verificare quanto e come si potessero rettificare alcuni punti cruciali dell’attualismo, che pure a suo giudizio aveva aggravato gli aspetti più critici della concezione idealista tedesca.


    Giovanni Gentile (1875-1944)

    Il tentativo di Evola, di fatto, fallì. Gentile non valicò mai l’orizzonte della mera speculazione filosofica, Evola invece lo scavalcò e ruppe ogni schema, innalzando la filosofia alla metafisica, “contaminandola” con elementi tratti dalle dottrine spirituali tradizionali, ed elaborando una sua forma di idealismo, cd. “magico”: le posizioni tra i due rimasero dunque irrimediabilmente distanti. Evola stesso cercò di spiegare le ragioni di questo mancato incontro ne Il Cammino del cinabro.

    A suo giudizio, dottor Rimbotti, possiamo dire che tale fallimento si verificò perché per il mondo della filosofia fu di fatto più facile sbarazzarsi di un “pericoloso” contaminatore quale Evola, i cui riferimenti extra-filosofici, bollati puntualmente come “magia” (nel senso deteriore del termine) e “superstizione”, rappresentarono un comodo pretesto per un facile ostracismo? Oppure perché oggettivamente, trattandosi, per usare le parole di Evola, “di una introduzione filosofica ad un mondo non filosofico”, i precedenti filosofici, cioè “l’abito del pensiero astratto discorsivo”, rappresentavano la qualificazione più sfavorevole affinché la crisi esistenziale provocata dalle propaggini liminali della filosofia, nello specifico dall’idealismo post-kantiano, potesse essere superata nel senso di un “passaggio a discipline realizzatrici”?

    La cultura italiana in genere ha una scarsa tradizione filosofica. Modernamente, ciò che è venuto a prevalere è in ogni caso una sorta di accademismo, che ha spesso represso il talento innovatore e premiato una sterile dogmatica di scuola. In Germania, al contrario, accanto ad un formidabile livello di ricerca legato alle Università, si sono avuti nella prima metà del secolo XX notevoli casi di pensiero alternativo, per di più seguito da vasta attenzione da parte del pubblico colto. Basta pensare ai “successi” di notorietà registrati da uno Spengler, da uno Steiner o da un Keyserling, impensabili presso di noi. In Italia – eccetto per alcuni casi storici di gran rilievo come il futurismo o l’ambiente di Papini e Prezzolini nel primo anteguerra – nel Novecento l’alta cultura è stata faccenda di istituzioni, quindi di potere ufficiale.

    Le smarginature di Evola dal conformismo filosofico dell’epoca (pensiamo al predominio dell’Idealismo neo-kantiano ma, soprattutto, al ben più pernicioso neo-tomismo cattolico) ne garantirono la messa all’angolo. Un approccio “eversivo”, come quello evoliano, a fonti di sapere eterodosso, come il pensiero orientale, il magismo oppure il paganesimo, diversamente da altre realtà europee della prima metà del Novecento, non poteva avere e non ebbe allora in Italia alcuna sanzione di diffusa notorietà e tantomeno di ufficialità, mantenendosi nel circuito marginale di un pensiero alternativo potente, ma fortemente minoritario.


    Martin Heidegger (1889 – 1976)

    Tuttavia, non credo che Gentile si sia arrestato ad una “mera speculazione filosofica”. Il suo fu il tentativo di potenziare la nazione. Si tratta in ogni caso di filosofia politica. Aggiungo che Gentile – ma anche Evola, sia pure diversamente – rappresentò al meglio ciò che si intende per “intellettuale militante”, giungendo a ricoprire (anche con sconfitte pesanti, ma questo è un altro discorso) il ruolo che Heidegger voleva ricoprire nel Terzo Reich: condizionare il potere a partire dalla propria filosofia. Non è poco. L’attualismo gentiliano, comunque lo si giudichi, avrebbe voluto presentarsi come “disciplina realizzatrice”; la sua predicazione idealistica (alle volte utopistica, altre volte accademica e di antico sapore scolastico) voleva essere formatrice, e l’uomo nuovo fascista immaginato da Gentile avrebbe dovuto avere in sé, in interiore homine come si diceva, la sostanza di uno spirito in lotta con il proprio tempo. Questa didattica, questa etica era – come in Evola – aristocratica e selezionatrice. Pensiamo alla concezione gentiliana di cultura, quando ad esempio affermava che “lo Stato deve bensì aprire una porta verso l’alta cultura, ma piuttosto stretta che larga, perché non vi precipiti dentro una folla…”. Non si trattava più di vecchio elitarismo liberale, ma già di aristocraticismo fascista…

    ***

    2) Fallito ogni tentativo di collaborazione, Evola (che pure nel dopoguerra avrebbe riconosciuto a Gentile carattere e coerenza personale nel mantenersi fedele al fascismo fino al sacrificio della propria vita) dalla seconda metà degli anni Trenta accentuerà le divergenze concettuali con il filosofo di Castelvetrano, ed anche i toni della polemica si faranno più accesi ed intransigenti.

    Evola ritenne che Gentile, di fatto, fosse sempre rimasto un esponente della borghesia intellettuale erede del Risorgimento e, malgrado certe sfumature nel senso dell’autoritarismo, a suo giudizio il pensiero gentiliano rimase “della stessa sostanza di quello laico-illuminista e antitradizionalista-massonico che cementò la rivoluzione del Terzo stato”.

    Anche l’interpretazione gentiliana del fascismo come una specie di continuazione e di integrazione del Risorgimento era particolarmente malvista da Evola, così come da diversi esponenti dell’ala più rivoluzionaria e “movimentista” del fascismo, che guardavano con sospetto certe ambigue oscillazioni del pensiero gentiliano nei confronti del liberalismo e dell’esperienza risorgimentale. Questa interpretazione critica di Evola può considerarsi corretta, ed eventualmente entro quali termini?


    Il richiamo alla componente patriottica del Risorgimento italiano, soprattutto con riferimento all’esperienza della Repubblica Romana, fu una delle tante sfaccettature dell’esperienza fascista, in particolare durante la R.S.I.

    Il fascismo per primo intese presentare la propria rivoluzione come il completamento del Risorgimento, e la seconda guerra mondiale venne presentata per l’appunto come la definizione delle frontiere marittime, dopo la sistemazione post-risorgimentale (prima guerra mondiale) di quelle terrestri: molte volte Mussolini e i maggiori intellettuali fascisti si dissero gli eredi e i continuatori dell’opera risorgimentale. In lotta, però, non più contro la vecchia Reazione (Austria), ma contro la nuova (Francia e Gran Bretagna). Non occorre insistere su questo. Sappiamo bene che evidentemente non c’era in costoro – Mussolini e i fascisti – un equivalente elogio della “borghesia illuminista”; c’era anzi il convincimento di rappresentarne il nemico più convinto. Si tratta di sapere di quale borghesia si parla. Se di quella reazionaria e massonica legata al mondo liberal-giacobino franco-inglese, oppure di quella ribellistica e innovatrice che era stata il nerbo dell’interventismo prima e del fascismo poi, squadrismo, futurismo, arditismo e fiumanesimo compresi. E’ evidente che Evola vide in Gentile il rappresentante più della prima borghesia che della seconda. A torto, a mio modo di vedere, poiché il Gentile, se pure veicolava certe attitudini pedagogico-paternaliste giudicate (a ragione) intollerabili da Evola, e se pure fu artefice di un reticolo di potere culturale e politico che raccolse adesioni anche nel vecchio liberalismo (pensiamo alle collaborazioni all’Enciclopedia Italiana), d’altro canto formulò alla fine un pensiero che con la vecchia “destra” liberale si pose in piena rottura: umanesimo del lavoro, Stato etico comunitarista e anti-individualista, corporativismo come partecipazione al totalitarismo di popolo furono le tappe gentiliane di avvicinamento alla “sinistra” rivoluzionaria fascista. E non importerà ricordare la provenienza di Gentile dagli studi sul marxismo. Da questi temi forti, piuttosto che dall’asserita appartenenza di Gentile ai residui liberal-borghesi, derivò secondo me l’ostilità di Evola nei confronti del pensiero gentiliano. Senza contare che proprio nei valori del Gentile per così dire “di sinistra” Evola non ravvisò mai elementi a lui vicini. E’ nota la sua pesante perplessità nei confronti di tutto quanto sapesse di “socialismo” e mobilitazione delle masse, avendo in antipatia squadrismo, corporativismo e tutto quanto di modernizzatore vi fosse nel Regime.

    ***

    3) Sicuramente il fronte principale di critica di Evola nei confronti di Gentile, da cui derivarono come corollari tutti gli altri, fu quello filosofico.

    Con l’esacerbarsi dei toni della polemica, Evola attaccò senza remore in modo frontale l’attualismo gentiliano, da lui visto come una pura estremizzazione, una “riduzione all’assurdo” dell’idealismo tedesco, da cui non si sarebbe mai potuta dedurre né una dottrina politica funzionale alla visione di vita che il fascismo avrebbe dovuto avere, né un impianto dottrinario da mettere alla base di uno Stato antimoderno ed antirazionalista.

    Evola sottolineò in particolare come l’attualismo, ancor più dell’idealismo stesso, sancisse il tramonto definitivo della civiltà dell’essere – cioè della stabilità e della forma, con aderenza a principi supertemporali – a beneficio della civiltà del divenire, fondata sul mutamento, sul fluire, sulla contingenza, diretta conseguenza del “divenirismo dialettico” in cui si traduceva l’attualismo gentiliano, definito senza mezzi termini da Evola come una “varietà spuria della mistica moderna del divenire” in cui, “su di uno sfondo cosmico”, si rifletteva “la mentalità del self-made man e dell’homo faber di oggi”.

    Possiamo in effetti ritenere, dottor Rimbotti, che l’abbandono da parte di Gentile della dialettica del pensato presente nel sistema hegeliano sancì in modo radicale tale degenerazione, tant’è che, osservava ancora Evola, in Gentile la civiltà antica viene liquidata col verdetto di civiltà dell’“essere”, in senso deteriore, ove il soggetto avrebbe sviluppato una mera e sterile “filosofia del pensato” e sarebbe stato incapace di pervenire alla coscienza di sé come “pensante”?


    “Gentile, partito da Marx, di costui reinterpretò la dialettica fra idea e materia, riformulandola nel senso hegeliano di un costante rapporto fra idea e prassi. Gentile (…) corregge Marx con Hegel, tornando alla supremazia dell’Idea”

    Possiamo dire senz’altro che Evola e Gentile erano su terreni diversi. Quindi la medesima cosa la pensavano in modo non necessariamente opposto, ma diverso. Per questo, non è detto che debbano essere misurati con lo stesso metro. Le loro ragioni, ognuno nel suo campo, rimangono secondo me ugualmente valide. Nelle loro fasi mature e definitive, i due filosofi si collocarono su due salienti differenti: metafisico-sacrale il primo, politico-comunitario il secondo. Gentile, partito da Marx, di costui reinterpretò la dialettica fra idea e materia, riformulandola nel senso hegeliano di un costante rapporto fra idea e prassi. Gentile, che non è un materialista ma è a sua volta un metafisico, corregge Marx con Hegel, tornando alla supremazia dell’Idea e spostando la materia (economia, rivoluzione) nel regno della semplice fattibilità storica.

    L’Idea, per Gentile come per Hegel, è non meno reale della stessa realtà di fatto. Di qui la nota “ontologia della prassi”, ripresa da Fichte, che permette secondo Gentile di attualizzare l’idea traducendola in fatto storico. Certamente qui prevale il regno del divenire: la storia “si fa”, diviene, inserendo l’idea secondo le possibilità date da un certo clima storico. Il “pensato” diventa il luogo dell’immobilità data, quindi della “morte”, il pensare, invece, assurge in questo modo a luogo del mutevole, quindi della “vita”, che è ininterrotto fluire. L’essere, secondo Gentile, diventa legge del procedimento storico, calandovisi. L’attualismo, in fondo, non è che una spiegazione circa l’incessante opera di miglioramento dello spirito. E il famoso “atto in atto” può essere letto a ragione come nulla di meno che l’idea in azione, con una vocazione cioè attivizzante. Di qui l’apprezzamento gentiliano per lo “storicismo”.


    Oswald Spengler (1880-1936)

    Evola, tempra diversa di pensatore, fedele alle stelle fisse rilucenti nel cielo della Tradizione, lesse lo storicismo come scheggia evoluzionista-progressista e anche su questa base contestò Gentile. Ma, a mio modesto modo di vedere, lo storicismo classico novecentesco (Weber, Simmel, Spengler…) non è tanto evoluzionista, quando evolutivo: legge lo sviluppo, poiché uno sviluppo (progressivo o regressivo) effettivamente esiste e per tale va registrato. Lo stesso Evola conobbe un interiore sviluppo evolutivo (lo racconta assai bene ne Il cammino del cinabro). Non conosco la critica di Gentile alla civiltà antica su queste basi, conosco però il suo insistito richiamo al fatto che la storia la fa lo spirito, essendo questo il veicolo dell’idea, pertanto la storia è la storia dello spirito in azione. Da qualche parte Gentile ha scritto che “il progresso dello spirito è azione” e che la ragione da sola è sterile. In ogni caso, nulla è fuori dallo spirito, neppure la realtà, che esiste solo in quanto rientrante nella nostra facoltà di comprenderla. Lo diremmo un protagonismo assoluto dell’Io pensante.

    Tra le due posizioni – di Evola e di Gentile – non vedo contraddizione alcuna. L’essere va benissimo quando si è raggiunta la vetta. Ma per raggiungerla bisogna muoversi, agire quindi nel divenire. Trovo che l’esortazione gentiliana: “bisogna modificare se stessi, muoversi, salire”, non abbia nulla di modernista-progressista in senso deteriore, ma molto di eroico e mobilitante, poiché si tratta di muoversi per realizzare appunto l’Idea. Il divenire e l’essere non sono a parer mio due opposizioni ontologiche, ma due condizioni in successione tra loro, due stadi della vita. Le acque di Eraclito sono mutevoli, certamente, anche se il fiume è sempre lo stesso. Del resto, ricordo che Mussolini giovane – si era verso il 1909 – insieme ai “vociani” esortava all’azione proprio come momento di rottura della contemplazione passivante: “basta studiare il mondo, bisogna trasformarlo…”.

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    Predefinito Re: Paganesimo evoliano e tradizionalismo romano: cosa ne pensate?

    Seconda parte dell’intervista su Evola e Gentile con il nostro amico Luca Leonello Rimbotti, scrittore, grande studioso di mito, filosofia, spiritualità e politica nella cultura europea, soprattutto tedesca, che ci ha onorato della sua collaborazione offrendo spunti di riflessione interessanti ed originali. Ci soffermiamo oggi sulla filosofia della prassi e l’attualismo gentiliano (con la relativa prospettiva finale dell’Uomo-Dio), e sul concetto di Stato in Evola e Gentile, con i necessari riferimenti all’esperienza fascista e nazionalsocialista.

    ***

    segue dalla prima parte

    4) L’argomento del significato e del ruolo della prassi e dell’azione concreta nella polemica tra Evola e Gentile assume sicuramente un significato particolare anche per i suoi risvolti propriamente pratici ed operativi.

    Evola rigettava la prassi e l’azione nella concezione gentiliana, per la sua deriva in senso “creazionistico”, che avrebbe comportato effetti solipsistici e puramente materialistici totalmente in antitesi con concezioni superiori dell’individuo e quindi, indirettamente, dello Stato.

    Tuttavia, molti autori ed interpreti di area tra cui proprio lei, dottor Rimbotti, propongono diverse letture e rivalutazioni della filosofia della prassi di Giovanni Gentile (anche per i suoi riflessi sulla concezione dello Stato), che, trovata forma compiuta nell’attualismo, avrebbe trascinato le idee sul terreno della loro concreta realizzazione, liberandole dalla prigione dorata dell’utopismo improduttivo, aprendo così le porte alla concezione dell’uomo totale e dell’Uomo-Dio.

    Rifacendosi all’interpretazione di Evola, dottor Rimbotti, si potrebbe pensare che di fatto l’attualismo corresse il rischio di assumere un carattere molto più astratto che realmente pratico, nel momento in cui, in un’epoca come quella odierna, l’uomo decaduto non sembra in grado di seguire sulla via della volontà plasmatrice della realtà i pochi soggetti realmente in grado di assolvere tale compito in un certo senso “metastorico”?

    Ricordiamo come anche Ugo Spirito, uno dei principali discepoli di Gentile, nella seconda metà degli anni Trenta criticò il suo vecchio maestro sostenendo che l’attualismo, divenuto una teoria come altre, non fosse più in grado di imprimere la propria forza sulla realtà.

    Gentile, a differenza di Evola, accettava il cambiamento e nella modernità vedeva la possibilità di inserire valori superiori di natura spirituale. Diversamente da Evola, che potremmo definire un difensore dell’immutabilità della Tradizione, Gentile concepiva la possibilità che l’elemento sacrale divenisse religiosità immanente storicizzata, inveratasi nell’uomo moderno non solo nella dimensione individuale ma anche, e soprattutto, nella dimensione del popolo. Questo è l’aspetto “socialista” di Gentile. Anzi, per meglio dire il suo aspetto propriamente fascista, che giudico assente in Evola, che si poneva su un altro piano. Bisogna precisare infatti che il “liberalismo” gentiliano (in ogni caso si trattava di un nazional-liberalismo di marca ottocentesca: ovviamente tutt’altra cosa dal liberalismo liberista odierno) non poneva al centro del discorso l’individuo ma, proprio all’opposto del liberalismo attuale, la comunità popolare di cui lo Stato costituiva la proiezione, tanto che non si parlava per nulla di libertà individuale ma di libertà dello Stato, del quale l’individuo era parte organica, essendo le due cose indisgiungibili. Questo assetto era qualificato dalla dimensione religiosa, non portava alcun referente materialistico, anzi Gentile affermava che tutto essendo politico, il politico era valorizzato proprio dalla sua dimensione religiosa.

    Lo “spiritualismo assoluto” è essenzialmente uno sforzo di individuazione del sacro. In un suo scritto ripubblicato nel ’24, Gentile ribadì che “la religiosità non può essere dello Stato, se non è del popolo…non è realizzabile forma religiosa, che non abbia radice nella coscienza popolare…”. Insomma, il sacro di Evola, in Gentile diventa la religiosità che deve permeare lo Stato, e con esso l’individuo e le sue azioni. Una studiosa di Gentile ha addirittura scritto che il Gentile fascista “è il fondatore di una nuova religione”, intendendo la mistica della nazione. Ecco: potremmo dire che da una parte Evola non concepisce “fondazioni” ex novo, poiché si rifà all’unicità intemporale del sacro, mentre Gentile ripercuote questo crisma eterno nell’attualità del suo tempo e, modernamente, lo identifica con la religione della comunità di popolo, con la nazione. In questo senso, con Gentile si può davvero parlare di mistica religiosa della nazione (ricordo che la Scuola di Mistica Fascista fu molto vicina a Gentile) e che in Dottrina del fascismo si parla del fascismo come entità religiosa…

    Per quanto riguarda la crisi dell’attualismo, valgono le considerazioni di Ugo Spirito circa il vero e proprio “tradimento” che venne fatto di tutta l’architettura filosofico-politica di Gentile con la stipula dei Patti lateranensi. Comunque, i riposizionamenti gentiliani – dai rapporti tra filosofia e scienza alla liquidazione finale del liberalismo in nome del fascismo “sociale” (che Spirito definiva tout court “socialista”) – nel corso degli anni Trenta maturarono in maniera tale che ben si può dire, come fece lo stesso Spirito, che egli (Gentile) fosse passato ad una vera fase rivoluzionaria. Spirito, a sua volta, fu vittima di una sua personale evoluzione (involuzione?), che lo portò definitivamente lontano da Gentile, giungendo alla disintegrazione dell’autocoscienza dell’Io.

    A suo giudizio, dottor Rimbotti, questa lettura più “pratica” e concreta della filosofia della prassi in Gentile, nel momento in cui proponeva la prospettiva finale dell’uomo-Dio, al di là della sua effettiva realizzabilità, poteva condurre a pericolose derive “prometeiche”, non scevre da implicazioni di fatto atee o agnostiche che potevano non essere sufficientemente compensate, soprattutto in un paese come l’Italia, da una spiritualità puramente immanentistica che mai è realmente appartenuta alla nostra forma mentis, soprattutto più recente?


    “Il supplizio di Prometeo” di Jean Louis Cesar Lair

    L’Uomo-Dio prometeico non è necessariamente esposto a derive agnostiche, tantomeno atee. Si tratta di un pensiero che, risalente al Romanticismo, ha ascendenze lontane: basta pensare al Meister Eckhart rivalutato da Rosenberg. Gentile ne fece un aspetto della potenza dell’individuo sintonizzato con la storia e la nazione, avente dentro di sé la pienezza dello spirito. Questo possesso dell’Idea in interiore homine, come diceva Gentile, avrebbe dovuto rappresentare non la problematica edificazione di un idolo meccanico ma, al contrario, il potenziamento dell’Io organico. Un Io, tuttavia, non abbandonato alle sue solitudini – questo sì passibile di precipitare nel nichilismo tragico – bensì regolato, direi temperato ma al tempo stesso esaltato, dal rispecchiamento nel popolo. L’Uomo-Dio gentiliano è l’Übermensch nietzscheano per così dire “socializzato”. Non a caso, a Gentile piaceva il filosofo umanista Marsilio da Padova, il quale scrisse che la legge la fa l’uomo, e ne considerò rivoluzionaria l’affermazione secondo cui “il popolo è sempre l’assoluta fonte del diritto”. Umanesimo, quindi, ma di buona lega. Mi rendo conto che qui siamo lontani da Evola, che giudicava legge, sovranità, etc. come promananti da una direttrice di sacralità non-umana… Tuttavia, vorrei aggiungere che vi sono spunti formidabili in entrambi i punti di vista, e che ognuno scelga il suo. L’importante è la tenuta sui valori, più che l’esegesi della fonte da cui questi provengono. In fondo, stiamo parlando di due pensatori che sono altrettante colonne della cultura europea del XX secolo…

    ***

    5) Il punto d’arrivo della critica evoliana a Gentile è quello della visione dello Stato, derivazione di tutte le critiche filosofiche e concettuali di partenza.

    Secondo Evola ed altri lo Stato etico gentiliano, dominato dalla divinificazione della sfera “morale” e dall’esaltazione dell’“umanesimo del lavoro”, fondato su ipocrite forzature moralistiche e falsi rapporti di forza “da caserma”, costituiva in ultima analisi una struttura burocratica, ingerente e petulante, rispecchiante peraltro una visione materialistica e progressistica della realtà.

    Al contrario, lei, dottor Rimbotti, sposa una tesi del tutto opposta: lo Stato gentiliano, in quanto derivazione politico-istituzionale dell’attualismo, costituirebbe la somma ed il riassunto di tutti gli aspetti del reale, l’assoluto che ricomprende i relativi, e la sua eticità costituirebbe la garanzia che la realtà non è abbandonata alla necessità individuale, ma sottoposta all’autorità di una legge comunitaria. In tal senso, esso si presenterebbe come uno stato socialista, nel senso organico e non marxista del termine, in grado di veicolare la sacralità, la religiosità dello stare insieme come nazione, ciò che accomuna nel comune destino. Una vera e propria “mistica della comunanza”.

    A suo giudizio, dottor Rimbotti, si potrebbe sostenere che comunque Evola, al di là dell’ambito filosofico in senso stretto e di alcune interpretazioni strettamente personali, avesse individuato un punto debole della costruzione gentiliana nel suo non riuscire ad andare oltre un contesto meramente etico-morale e umanistico? Fino a che punto una mera mistica del lavoro e del collettivo poteva supportare una visione dello Stato effettivamente organica in senso superiore?

    Personalmente trovo che la creazione – o la ricreazione – di un’etica non sia un obiettivo limitato. Al contrario. E’ il contenuto primario di una convivenza. Onestamente non immagino dove potrebbe condurre un “andare oltre” rispetto all’etica. Potremmo pensare alla dimensione grandiosamente distruttiva di uno Stirner. O, dall’altra parte, alla rifondazione della metafisica a partire da una nuova ontologia, alla maniera di Heidegger. Affascinante, ma non va da nessuna parte. Gentile politico ci indirizza verso la ricostruzione di un fondamento di civiltà. Per lui il fascismo è il terminale di uno sforzo di rigenerazione dell’idealismo come fondamento dell’essere e dell’agire umano. Questa sorta di umanesimo non va confuso con quella branca cinquecentesca che veicolò universalismo e cosmopolitismo e che fu, in buona parte, l’antefatto del progressismo illuminista.

    Evola era giustamente sospettoso quanto a questo umanesimo. Ma Gentile si riferisce piuttosto a quell’umanesimo che ricreò – con il neoplatonismo – l’antico collegamento fra l’uomo, la comunità e il sacro, cercando di porre questo retaggio (un po’ misteriosofico, un po’ faustiano) alla base di una società moderna ma non modernista; e, in ogni caso, dinamica e non statica. La società del nuovo ordine è costituita da uomini accomunati dalla legge interiore dello spirito, che ne guida e determina le azioni. In Genesi e struttura della società Gentile fa l’elogio della rivoluzione. Non solo di quella materiale ed esteriore, ma anche di quella interiore. Tutto muta, noi stesso mutiamo ogni giorno impercettibilmente ma inesorabilmente. Rivoluzione, in questo senso, significa continua tensione verso l’autocompletamento. Lo Streben dei romantici tedeschi. A questo punto, l’umanesimo del lavoro è la suprema nobilitazione della fatica che occorre – come diceva Nietzsche in un famoso aforisma – per rimanere in alto. La comunità di popolo sacralizzata dalla bellezza e dalla gioia che sono insite nel lavoro, e nel lavoro comunitario, è dunque qualcosa di nettamente superiore al mero vivere e convivere. E’ l’apice di una civiltà creatrice. Come intese essere il fascismo.

    Secondo la sua interpretazione, dottor Rimbotti, lo Stato etico di Gentile avrebbe costituito di fatto un modello praticamente uguale a quello nazionalsocialista tedesco, un modello cioè di “comunismo gerarchico”, di socialismo nazionale ed organico, in cui la prospettiva della totalità comunitaria sovrasta ed assorbe quella individuale, in cui lo Stato fa da “contenitore”, da macchina organizzativa, da struttura di protezione del Volk, che assume un rilievo centrale in un’ottica di esaltazione tanto del dato etnico quanto del concetto di “lavoro integrale” e della figura quasi mitizzata dell’Arbeiter. Un modello evidentemente del tutto antitetico a quello proposto da Evola.

    Ma fino a che punto la “totalità etica” gentiliana è compatibile con la “totalità organica” che fu espressione del socialismo nazionale tedesco? E’ possibile proporre questo parallelo, anche considerando la valenza panteistica, naturalistica e biologistica dell’immanentismo nazionalsocialista (tipica espressione peraltro della sensibilità romantica germanica), oppure, rispetto alla concezione di Gentile, tale accostamento potrebbe apparire come una forzatura, peraltro per certi versi paradossale, se consideriamo le forti tendenze anti-germanistiche presenti in Italia durante il fascismo ed in particolare negli ambienti gentiliani?

    Giudico l’anti-germanesimo di vaste parti del pensiero italiano primo-novecentesco – epoca fascista inclusa – solo una sovrastruttura di facciata, spesso derivante direttamente da un tenace equivoco letterario di ascendenza retorica risorgimentale (ma di un Risorgimento mal compreso, che non distingueva tra Austria e Germania), insomma un pregiudizio. Poi sappiamo che Gentile, come Croce, ebbe formazione tedesca, hegeliana. Spaventa o Labriola erano pregni di cultura politica tedesca, ugualmente un D’Annunzio, che fu il primo a divulgare in Italia Nietzsche e Wagner. Il socialismo nazionale, il neo-paganesimo e il volontarismo “barbarico” ed eroicizzante di Corradini avevano in vista archetipi germanici (Wagner), Prezzolini ammirava il filosofo razzista Houston Stewart Chamberlain, il poeta superomista Dino Campana nel 1914 dedicò i suoi “Canti orfici” al Kaiser Guglielmo II. E così via. Se ci si pensa, la civiltà del lavoro formulata da Gentile ha molto dell’idealismo romantico völkisch, ma ne diverge in un importante dettaglio: si astiene da formulazioni razzialiste.

    La critica gentiliana al nazionalismo italiano era simmetrica a quella di Evola. Ne criticavano entrambi il “naturalismo”, l’eccessivo etnicismo, giudicato scoria materialista. Eppure, è pur vero che lo Stato etico di Gentile riverbera in qualche modo, nella sua struttura totalitaria, antidemocratica, gerarchica ma fortemente socializzata, l’equivalente organizzazione dello Stato nazionalsocialista. I dettagli legati alla distribuzione del potere (preminenza dello Stato sul partito unico, permanere in Italia della diarchia, mancata fascistizzazione dell’esercito etc.), pur importanti, non sono a mio parere tali da impedire un paragone ravvicinato fra i due sistemi, soprattutto incentrati sull’esclusivismo nazionale e sul prevalere dell’elemento comunitaristico su quello individualista. Su tutto dominando quella “fede” di tipo propriamente religioso che rendeva l’appartenere cosa attinente alla sfera del sacro. Su questa base il paragone è sostenibile. Se invece si considerasse quella nazionalsocialista una società innestata essenzialmente sull’idea di razza le cose cambierebbero. Il discorso sarebbe ovviamente molto lungo. A noi basterà dire che il Terzo Reich, come sostengono diversi storici, ebbe nella mistica della razza il suo perno filosofico-ideologico, ma al livello delle grandi masse trasse il maggior consenso partecipativo non su questo punto, quanto su quello delle provvidenze socialistiche e sull’attivismo di popolo. Cosa che rivela, come svariate altre, una forte sintonia col sistema fascista, ivi compresa la variante gentiliana.

    Sempre circa le concezioni dello Stato a confronto, è possibile a Suo giudizio, dottor Rimbotti, pur dopo aver evidenziato tutte le differenze di cui sopra, trovare un “imprevedibile” parallelo tra Evola e Gentile nella necessità, evidenziata da entrambi, di superare la dimensione che potremmo definire “unipartitocratica” dello Stato? Da una parte, infatti, come è stato osservato, Gentile voleva rendere effettiva l’identificazione fra stato fascista e nazione e, nell’ambito di questo progetto, il Partito Nazionale Fascista, per la sua stessa natura di “parte” di un ambito politico più ampio, esprimeva per Gentile una logica faziosa; pertanto, il filosofo idealista era convinto che se il fascismo avesse delegato la trasformazione radicale della società al partito non si sarebbe differenziato dai regimi politici precedenti, fondati appunto sulla vittoria di un singolo partito.

    Allo stesso modo, Evola sottolineava che una visione burocratica e meramente particolare del partito unico sarebbe stata antitetica con la visione tradizionale dello Stato: il concetto di “partito unico” (tra l’altro, come osservato da Evola, una contraddizione in termini in quanto riferita ad un istituto proprio della prassi pluri-partitica demo-liberale), doveva essere superato, per privilegiare la formazione di un’aristocrazia dello spirito, di una sorta di “Ordine” che facesse da centro catalizzatore attorno a cui costruire un’entità organicamente e gerarchicamente intesa.

    Eppure, nonostante questa base comune, le vie che per Evola e Gentile avrebbero dovuto condurre ad una visione unitaria della comunità statale si diversificarono irrimediabilmente. Anche in tal caso, a Suo giudizio, giocarono un ruolo fondamentale soltanto le diverse visioni concettuali dei due, oppure altri fattori non permisero di trovare di fatto almeno un punto di incontro che sarebbe potuto risultare proficuo?


    Othmar Spann (1878-1950)

    Per dirne una: il sistema corporativo della rappresentanza istituì una sorta di Stato organico dei ceti, e questo è un punto che accomuna tanto Gentile quanto Evola, che apprezzava simili ordinamenti, ad esempio ritrovandoli in uno Spann. Col PNF Gentile ebbe rapporti oscillanti: ad es. con Farinacci, che certo non era suo amico, collaborò più volte (pensiamo all’Istituto Nazionale di Cultura Fascista, etc.) anche se certo non era favorevole all’idea “partito”. Ma si tratta di una questione nominalistica. Il partito, nello Stato totalitario, non era più “parte” o fazione, ma finiva col coincidere con la totalità della nazione. La voluta coincidenza fra popolo italiano e fascismo estingueva questa polemica alla base. Ma ugualmente rimasero in piedi fino all’ultimo le diverse opzioni: partito di massa oppure aristocrazia scelta? Noi sappiamo che il fascismo ondeggiò a lungo fra le due possibilità, ma alla fine il Manifesto di Verona richiamò la natura del PFR proprio nel suo essere un “ordine di credenti e di combattenti”: e Gentile sappiamo che aderì alla RSI. A mio parere i sofismi storiografici non dovrebbero far velo – soprattutto nel tempo presente, in cui tutto sta crollando – all’apprezzamento generale per un sistema che, anche se variegato e a volte contraddittorio, espresse una via ben chiara di uscita dal modernismo progressista senza rinunciare alla modernità.

    Dando poi uno sguardo generale sulle due figure in esame, mi sento di poter dire che entrambe fanno parte a giusto titolo di un unico sforzo di organizzazione ideologica rivoluzionaria nei confronti dell’oscurantismo globalizzatore a guida massonica, attivo allora non meno di oggi. Sotto la specie dell’edificazione dell’Io, in vista della realizzazione di un uomo fortificato e potenziato nel pensiero oltreppassante e nella coltivazione di un volontarismo libero e sovrano, Evola rappresenta un vertice ineludibile, qualunque sia il punto di vista politico dell’antagonismo nazionalrivoluzionario. La perennità della Tradizione solare da lui richiamata, con tutto il grande bagaglio dei riferimenti culturali evocati, sta a dimostrare lo spessore di un simile posizionamento. Dall’altra parte, e sotto la specie invece dell’erezione – o della ricostruzione – di una comunità organica di popolo solidale, gerarchica, guerriera, omogenea, Gentile, con tutti i suoi limiti e con quanto del suo essere scolastico possa non piacere, rappresenta a sua volta un bacino d’idee di prima grandezza. Occorrerà, nell’un caso come nell’altro, trascurare questo o quel dettaglio (ad es. l’incomprensione evoliana per lo squadrismo, o certi residui conservatori di Gentile) e inquadrare il comune intendimento di garantire a un pensiero della contrapposizione le armi ideologiche per agire in profondità nella formazione del singolo come della comunità.

 

 

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