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    Predefinito Comunismo Gerarchico, Freda e Lattanzio

    Qualcuno può indicarmi dei testi in merito a quanto al Comunismo Gerarchico elaborato da Freda e Lattanzio?

  2. #2
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    Predefinito Re: Comunismo Gerarchico, Freda e Lattanzio

    Di Freda ho letto
    LA DINTEGRAZIONE DEL SISTEMA
    Di Lattanzio
    STATO E SISTEMA
    Della CAP
    FONDAMENTI POLITIO-CULTURALI DEL PROGETTO DI ALTERNATIVA RIVOLUZIONARIA AL SISTEMA "EURASIA-ISLAM"
    ALTRI?

  3. #3
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    Predefinito Re: Comunismo Gerarchico, Freda e Lattanzio


  4. #4
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    Predefinito Re: Comunismo Gerarchico, Freda e Lattanzio

    Il Comunismo Aristocratico – di Maurizio Lattanzio
    4
    GEN
    Il comunismo aristocratico

    Maurizio Lattanzio



    Il progetto politico-culturale “Eurasia-Islam” non è solo il superamento del neofascismo (non ci è voluto poi molto …) o delle sgangherate categorie destra-sinistra (è un vecchio ritornello stracciapalle …), bensì dello stesso fascismo europeo, del quale attualizza le potenzialità rivoluzionarie irrisolte del radicalismo popolare antiplutocratico e le potenzialità tradizionali incomprese che attengono alla ierocrazia razziale comunistico-aristocratica ispirata all’Ordine di Sparta e trasferita, secondo conformi moduli espressivi, nell’epoca delle masse.

    La Comunità Politica di Avanguardia



    Un’organizzazione sociale, economica e finanziaria deve innanzitutto essere conforme ad un principio essenziale: l’elemento economico (attinente all’ordine dei mezzi, quindi caratterizzato dalla strumentalità) deve essere subordinato al principio politico (attinente all’ordine del fine).

    Fatta questa premessa, è necessario ora tratteggiare le linee essenziali e le articolazioni strutturali inerenti all’organizzazione economica e sociale dello Stato.

    Potrà sembrare strano che -mentre ci troviamo a fronteggiare l’esigenza primaria di garantire la sopravvivenza della nostra specie si indulga alla delineazione di modelli organizzativi economico-sociali.

    Innanzitutto noi riteniamo necessario potenziare e irradiare totalmente lo spettro teorico che accoglie ed esprime la nostra alterità razziale, al fine, quanto meno, di tramandare incisivi e laceranti strumenti politico-culturali ai Camerati che ci seguiranno e che continueranno la nostra lotta perpetuando I’ontologia della comunità di popolo nella quale ci riconosciamo. Ma, cosa oggi forse più importante, è altrettanto necessario indicare degli orizzonti che, prescindendo dalla più o meno immediata attuabilità pratica, contribuiscano a rompere, a recidere le radici malate lungo le quali corre il riflesso condizionato che, consapevolmente o meno, può ancora indurci a prestare orecchio agli echi di parole d’ordine che furono e sono della destra.

    Il modello organizzativo che fisseremo e che cercheremo soprattutto di motivare nelle sue valenze tradizionali, ha dunque una considerevole efficacia di «provocazione» politico-psicologica, pur non venendo meno ad una rigorosa conformità ed omogeneità rispetto alla cultura della tradizione.

    L’organizzazione statuale si configura come Stato popolare, forma di comunismo aristocratico di tipo spartano e di ispirazione platonica, caratterizzato dall’abolizione della proprietà privata in ogni sua forma di manifestazione.

    Non bisogna innanzitutto confondere l’organizzazione comunistica della sfera economica con il socialismo marxista, le cui proposizioni, a loro volta, possono benissimo esplicarsi anche nel quadro di una società che non sia nè integralmente nè strutturalmente comunistica. [1]

    Di solito il termine «comunismo» si riferisce a ideologie che affermano concezioni fondate sulla statalizzazione del ciclo produzione-consumo; la terra e i mezzi di produzione sono proprietà dello Stato e possesso del popolo che ne usa in funzione degli obiettivi fissati dalle autorità centrali mediante lo strumento costituito dalla pianificazione dei bisogni e delle fruizioni.

    Oggi il termine comunismo viene automaticamente associato all’ideologia marxista quale sua necessaria conseguenza nel dominio socio-economico. È una sorta di riflesso condizionato che induce a considerare il regime comunistico della proprietà e del diritto come monopolio esclusivo del marxismo. Tale riflesso è indubbiamente sollecitato dall’incontestabile rilevanza assunta dall’ideologia marxista, che, del resto, ha applicato questo schema sociale ed economico nel corso della sua vicenda storico-politica dell’ultimo secolo. Ma ciò non deve trarre in inganno: è bene sapere che elaborazioni teoriche ed applicazioni pratiche di tipo comunistico risalgono ad epoche ben anteriori rispetto alla nascita alla nascita del socialismo marxista.

    Oltre al regime comunistico vigente nella Sparta dorica, va innanzitutto ricordato il «comunismo platonico» teorizzato appunto da Platone ne “Lo Stato”.

    Ne “Lo Stato” di Platone il regime comunistico è addirittura un privilegio spettante -in armonia con la superiore funzione- ai custodi (fylakes), cioè ai primi due ceti formati dai sapienti e dai guerrieri, con rigida esclusione degli artigiani e dei contadini. Il regime comunistico spettante ai custodi non si riferisce solo alla proprietà, ma si estende anche alle famiglie, al fine di cementare l’assoluta coesione etica e l’altrettanto assorbente dedizione al bene comune dei membri del sodalizio aristocratico. I rapporti tra giovani e anziani -ognuno dei quali potrebbe essere rispettivamente il figlio o il padre dell’altro- saranno radicati su di un solido tessuto solidaristico alimentato dalla disindividualizzazione dei vincoli di sangue, integralmente estesi all’intera comunità degli aristocrati. Le unioni saranno disciplinate dallo Stato conformemente alle regole dell’eugenetica, mentre le donne (le femministe sono giunte in ritardo …), che affideranno ben presto i loro figli ai modelli educativi impartiti nelle organizzazioni dello Stato, potranno riprendere la loro attiva partecipazione alla vita pubblica. È una ascesi verticale, un volo imperiale, un radicale superamento dell’intreccio soffocante fatto di possessivismo e gelosia, ipocrisie e convenzioni, che caratterizza i rapporti interpersonali nella decomposta e degradata famiglia borghese.

    «Un giorno gli operai vivranno come i borghesi, ma al di sopra di essi, più povera e più semplice, la casta superiore. Essa possiederà la potenza». [2]

    È un comunismo aristocratico ed ascetico, antidemocratico ed antiegualitario, che, comunque, non avrà più un completo riscontro nelle raffigurazioni di società comunistiche non marxiste o città ideali fiorite in periodo rinascimentale o in margine al cristianesimo originario.

    Nel secondo libro della sua opera principale, “Utopia”, Tommaso Moro descrive i profili ideali della repubblica perfetta. È la repubblica di Utopia, nella quale è abolita la proprietà privata e l’uso dei beni è concesso ad ognuno conformemente ai propri bisogni. È soppresso anche l’uso del denaro, poichè i beni sono stimati per il loro intrinseco valore e non come merce di scambio; ciò al fine di evitare processi di tesaurizzazione e fenomeni di speculazione. Il lavoro è un dovere sociale per tutti, mentre le leggi sono poche, semplici e di facile interpretazione per chiunque. In Utopia ognuno professa liberamente la religione che vuole, ma tutti ammettono l’esistenza di un essere supremo, l’immortalità dell’anima, il premio per la virtù e il castigo per il vizio.

    Alla Città del Sole -notevolmente influenzata dai modelli statuali di Platone e Tommaso Moro- Tommaso Campanella affida le sue aspirazioni relative alla politica «renovazion del secolo».

    I solari vivono in una repubblica -la “Città del Sole”- retta da un re-sacerdote, il «Metafisico», e da tre magistrati (Pan, Sir, Mor), cioè potenza, sapienza e amore, simboleggianti i tre fondamentali attribuiti dell’Essere teorizzati nella “Metaphysica”. I solari seguono una religione naturale ed hanno in comune la proprietà e le donne, mentre la procreazione dei figli è disciplinata da norme eugenetiche. Secondo Campanella l’educazione deve fondarsi sull’esperienza e su prove di selezione attitudinale e non sui libri, mentre la sua concezione politica si fonda su di una visione etico-religiosa e cosmico-magica dell’universo.

    Nel XVIII secolo Morelly ritiene che la proprietà privata abbia rotto l’armonia dello stato di natura, della cui esistenza storica Morelly, al contrario di Rousseau, era convinto. Nello stato di natura regnano la più completa uguaglianza (con Morelly ci troviamo di fronte a una teorizzazione comunistica che, pur non essendo marxista, è comunque già egualitaria) e la comunità dei beni; l’introduzione della proprietà privata corrompe i costumi degli uomini e ne cancella le naturali disposizioni. Il nuovo stato di natura -la cui configurazione comunistica è tratteggiata nella Basiliade e nel Codice- sarà caratterizzato dalla valorizzazione dell’agricoltura e dell’artigianato, mentre leggi suntuarie impediranno l’eccessiva accumulazione di ricchezza e gli effetti corruttori del lusso. L’influenza di Morelly sarà notevole nei confronti dell’ala più radicale della rivoluzione francese e sul successivo socialismo utopistico.

    Charles Fourier accusa filosofi e politici di venerare due scellerate istituzioni della società: il commercio privato e la famiglia. Entrambe sarebbero basate sull’incoerenza, ossia sulla frammentazione della società in piccoli nuclei ostili e concorrenti, nonchè sulla menzogna.

    Il commercio è il cancro dell’economia in quanto rappresenta un’attività parassitaria e fraudolenta, atta a creare le condizioni favorevoli ad ogni attività e manovra speculativa, mentre l’anarchia della produzione e della circolazione, il cosiddetto «libero scambio», è causa delle crisi economiche mondiali.

    Per quanto riguarda la famiglia borghese, basata sull’egoismo di coppia e sul matriarcato, essa è il ricettacolo dell’ipocrisia e della convenzione, della sterilizzazione delle passioni e della meschinità dei sentimenti (logico avvilente epilogo di una umoristica pretesa di eternità [sic!] fondata su di un «si» pronunciato davanti ad un prete o ad un sindaco). Ci si consenta di sottolineare che oggi la famiglia è questo, mentre, causa «mancanza di padri», è ormai estinta qualsiasi funzione educativa della famiglia nei confronti dei figli, ai quali si trasmettono solo egoismo, viltà e opportunismo. Essi non potranno essere che dei deboli. La famiglia borghese? Una carcassa in putrefazione …

    Per Fourier il «lavoro attraente» deve svolgersi all’interno di comunità denominate «falansteri», le quali saranno costituite da un numero di persone non superiore a 1600. Esse dovranno svolgere attività legate per lo più al territorio circostante, ma tali da prevedere anche una piccola parte di industria e di lavoro artigianale. Ostile ad ogni forma di socialismo egualitario e moralistico, Fourier pensava che non bisognasse sopprimere la proprietà privata e la disuguaglianza sociale (il reddito di ciascun societario è proporzionato al suo lavoro, al suo talento e ai capitali eventualmente investiti), ma ciò non avrebbe dovuto comportare il recupero di forme di concorrenza e sfruttamento legate alla proprietà privata borghese.

    * * *

    Lo Stato popolare dovrà costituire il tessuto organizzativo-istituzionale che accompagni l’opera di formazione dell’«uomo nuovo», preziosa sostanza cellulare del mai estinto aureo filone della razza ario-europea. Occorrerà frantumare e sbriciolare i supporti politici, sociali ed economici che alimentano -in qualità di solide piattaforme- i processi di ricambio delle oligarchie borghesi e plutocratiche che egemonizzano i regimi democratico-parlamentari.

    Legami clientelari -rigogliosamente e prepotentemente intessuti in società dove l’uomo è latitante ed il verme predominante- annodati intorno alle burocrazie di Stato, di partito e di sindacato; consolidati status sociali borghesi (poichè si ha un bel dire che la borghesia è prima di tutto una mentalità -e su questo siamo d’accordo- ma non è solo questo, poichè essa si esprime simultaneamente anche nella detenzione del potere e del privilegio da parte di stratificazioni sociali ben definite, concrete e socio-economicamente individuate); potenti e condizionanti concentrazioni di ricchezza economico-finanziaria comunque acquisite, sono le batterie nelle quali e attorno alle quali (ci sono anche e soprattutto i pesci-pilota) vengono allevati e dalle quali, successivamente, incastrati all’ingrasso all’interno delle strutture dello Stato democratico, gli affermatori o, meglio, i servi che assicureranno l’egemonia sociale del partito unico della borghesia.

    Si tratta di gregariato spacciato fraudolentemente per classe dirigente, la cui unica opacissima parvenza di identità è conferita artificiosamente dall’adesione alle convenzioni sociali, alle parole d’ordine delle mode culturali e a quel dominio dell’apparenza nel quale consiste e trova sanzione e riconoscimento la micromorale utilitarista e i criteri di valutazione quantitativi e materialistici dell’«ultimo uomo». E qui ci riferiamo all’insetto travestito con grottesche maschere sociali, che, nella società borghese, sia pure tra mille sforzi, sembrano conferirgli un sembiante più o meno umano.

    Nello Stato popolare la formazione dell’aristocrazia politica fluisce al di fuori di qualsiasi condizionamento economico e sociale promanante dalla società civile. La qualità dell’uomo andrà commisurata alla capacità di adesione ad una visione del mondo centrata su valori etici e, ove si pongano le condizioni spirituali.

    AI rapporto borghesia-società, cioè alla relazione intercorrente tra occupante e spazio di occupazione, si sostituirà il rapporto Stato-Comunità di Popolo, laddove il primo è I’evocatore e la seconda è l’ambito sociale a cui si rivolge la chiamata dello Stato, alla quale solo una minoranza di eletti risponderà, anzi, meglio, potrà rispondere, al fine di assicurare il necessario, fisiologico, ricambio organico all’aristocrazia politica del popolo.

    Inseriti nelle organizzazioni popolari dello Stato, i membri della comunità, fin dalla prima infanzia, sono posti su di una posizione di parità di condizioni sulle quali non incidono, in una parola non pesano, precostituiti status economico-sociali più o meno favorevoli o posizioni di privilegio comunque acquisite. L’impossibilità tecnica -garantita dall’ordinamento comunistico, che, però, deve coniugarsi con la nascita di un nuovo tipo umano- di accumulare individualmente beni economici strumentali e di consumo, impedisce che i membri dello Stato popolare definiscano il loro rango nell’ambito delle strutture statuali sulla base del possesso di ricchezze materiali. Si svilupperà quindi un processo di differenziazione gerarchica, radicata sulla diversa natura fisica, intellettuale, etica e spirituale (meglio ancora: razziale) di ognuno. Non offensive disuguaglianze basate sulla ricchezza e sulla provenienza sociale, ma autentiche gerarchie qualitative fondate su di una diversa morfologia ontologica.

    L’organizzazione comunistica dello Stato popolare dovrà costituire spazi assolutamente liberi rispetto ai meccanismi e alle dinamiche contrattuali e mercantili che caratterizzano la società borghese, ovvero dovrà suscitare i presupposti tecnico-strutturali idonei ad integrare l’opera di disintossicazione con cui l’uomo sarà liberato dai veleni inoculati dall’etica mercantile giudeo-borghese. Necessario l’abbattimento dei pilastri sui quali I’«era economica» si è consolidata e ha prosperato, individuando e distruggendo le istituzioni economiche e sociali che, oggettivamente, hanno costituito I’humus nel quale il partito unico della borghesia ha articolato la propria dittatura egemonica.

    Uno Stato che voglia realizzare la sua essenza aristocratica e gerarchica al fine di consentire ai suoi membri di vivere un’esistenza organica, non può prescindere da soluzioni radicali che, situandosi oltre il nichilismo, cancellino le formule economiche mercantili: «… deve essere isterilito I’ambiente da cui il borghese trae vita: ecco il motivo di un ordinamento economico comunistico!». [3]

    Il regime comunistico dei beni avrà il compito di eliminare il diaframma economico e contrattuale che, dopo l’affermazione della borghesia, è l’unico nesso di collegamento che ponga in relazione un uomo con un altro. La soppressione delle articolazioni strutturali del capitalismo, una volta confinata l’economia in un’area marginale ed inessenziale (dunque: strumentale), creerà uno spazio libero tale da consentire all’uomo di raccogliere ed esprimere la sua reale dimensione etico-spirituale. L’inesistenza di fini individualistici estranei allo Stato, renderà naturale e conseguenziale l’abolizione del regime di titolarità privata dei mezzi di produzione, della ricchezza immobile e della concentrazione finanziaria, elementi e interessi oggettivamente estranei rispetto ai fini dello Stato.

    Si dovrà però convenire che la funzione esercitata dalla proprietà privata nella civiltà classica o in quella romano-germanica medioevale [4] non fosse quella attribuitale nelle società borghesi: cioè di una entità economica e quantitativa oggetto di sfruttamento produttivo, procacciatrice di benessere materiale e denaro, passaporto che permette di arrampicarsi sulla scala dei cosiddetti (sic!) «livelli sociali». Inoltre non si può negare che il quadro economico, qualificato da un equilibrato rapporto tra produzione e consumo, non fosse certo quello dell’odierna «demonia produttivistica», ma, invece, presentasse singolari analogie e sintonie con quello che, oggi, potrebbe attuarsi anche nel quadro di una economia comunistica.

    La proprietà privata, se non per il pensiero liberaldemocratico (vedi Locke), non ha mai rappresentato un valore a se stante: non ha mai avuto un crisma di «sacralità» e di inviolabilità; non ha mai posseduto un’autonoma, intrinseca essenza tale da conferirle un valore che la innalzi oltre la destinazione meramente strumentale. Che sia ben chiaro: noi nichilisti-rivoluzionari non abbiamo feticci da idolatrare, e la proprietà privata è senz’altro uno degli idoli del mondo borghese. Essa è oggi la proiezione organizzativa e strutturale del frazionismo individualistico-borghese. Per noi il regime giuridico a cui sono assoggettati i beni materiali è funzione dipendente, -dunque: relativa e strumentale- della categoria del Politico, la quale non ammette e non tollera l’esistenza di grandezze assolute e intoccabili sul piano contingente della sfera socio-economica.

    «Sul principio si avevano beni perchè si era potenti. Ora si è potenti perchè si ha denaro. Solo il denaro innalza lo spirito su di un trono. Democrazia significa identità perfetta tra denaro e potere». [5]

    Prima proprietà e ricchezza seguivano posizioni di potere qualificate da forme di grandezza interiore; ora le posizioni di potere seguono la consistenza del patrimonio economico e finanziario, acquisibile con le doti tipiche della mentalità bottegaia giudeo-borghese.

    Esisteva dunque un organico e immateriale legame tra personalità e proprietà, tra funzione svolta e ricchezza, tra la dignità personale e il possesso dei beni. Ciò, conferendo all’economia un senso che la trascendeva, le impediva di autonomizzarsi e di costituirsi ragione a se stessa, cioè obiettivo che sovrasta, soffoca e irride ogni forma di dignità, di aspirazione e di sensibilità.

    Queste osservazioni dovrebbero essere sufficienti a dimostrare l’infondatezza di eventuali contestazioni mosse da chi dovesse ravvisare nell’utopia comunistico-aristocratica dello Stato popolare una goffa imitazione dei regimi socialisti, più o meno reali, di ispirazione marxista.

    Ma, per rigore espositivo, è bene intendersi sul termine comunismo.

    Comunismo, nell’accezione marxista, non è comproprietà, poichè questa è un modo di essere della proprietà privata, assimilabile al concetto di «communio» elaborato dal diritto romano. Solo una persona o una comunità di persone o un’entità avente contenuto ontologico [6] possono essere titolari di una proprietà.

    Lo stato socialista, che, secondo, Lenin, è destinato a finire «nella spazzatura della storia», non può essere titolare dei beni della nazione, poichè esso è una mera sovrastruttura, priva di un’essenza che possa farne una realtà ideale di tipo platonico. Per i marxisti lo stato è un apparato burocratico-repressivo, uno strumento utile durante la fase di transizione nel corso della quale dovrebbe avvenire il passaggio dal socialismo al comunismo. Quindi, nelle società marxiste, l’abolizione della proprietà privata è in realtà espropriazione della proprietà del popolo a vantaggio dell’oligarchia tecnico-burocratica, nelle cui mani si realizza la coincidenza tra potere politico e potere patrimoniale. Infatti proprietà senza proprietario non esiste: essa è del popolo o dell’oligarchia: la proprietà attribuita a strumenti o a fantasmi giuridici carenti di contenuto umano o ontologico (lo stato marxista) è soltanto un paravento che nasconde la spoliazione del popolo da parte del potere oligarchico, il quale concentra nelle sue mani il monopolio discrezionale dei beni di una nazione.

    Nelle concezioni tradizionali, invece, lo Stato è il luogo delle forme ideali, degli archetipi ontologici preesistenti e superiori alla realtà concreta che su di essi è stata modellata. Lo Stato, dunque, «è», non costituisce uno strumento ma un centro reale di potenza che può, di conseguenza, essere titolare della proprietà dei beni della nazione, dei quali concede il possesso ai membri della comunità di popolo, che debbono usarne in conformità al bene comune.

    * * *

    L’unicità della Tradizione informale [7] si esprime sul piano storico nel quadro di forme tradizionali diverse e molteplici, le quali possono presentare fra loro anche dei caratteri apparentemente contrastanti. Non è quindi escludibile a priori che l’organizzazione economica di un assetto politico ispirato ai valori della Tradizione possa configurarsi in termini comunistici.

    Una volta fissata la distinzione fra piano dei Politico e piano dell’economico, quest’ultimo potrà assumere le connotazioni organizzative più diverse. L’essenza spirituale della Tradizione non comporta necessariamente la sua concreta manifestazione in un quadro economico istituzionalmente e organizzativamente determinato a priori. Anche un quadro economico strutturalmente comunistico potrà essere sorretto e alimentato, permeato e informato dai valori tradizionali. La vita economica sarà caratterizzata da rapporti gerarchici e solidaristici, dalla coincidenza tra vocazione e professione, e dalla serena consapevolezza di seguire un’esistenza organicamente correlata con il Tutto e conforme alla propria natura, la quale, a sua volta, permette un cosciente e responsabile apporto al conseguimento dei fini dello Stato.

    Lo Stato non è capitalista nè comunista, poichè, riconnettendosi ad un piano di valori trascendenti lo spazio economico, non si identifica nè può essere ricondotto, condizionato o definito da una determinata forma economica organizzata. La differenziazione qualificante va invece ricercata nell’influenza che il principio economico esercita in una società, nell’autonomia decisionale e operativa e nella capacità di controllo che lo Stato detiene rispetto all’economia. Non va certo ricercata nelle diversità di carattere tecnico-organizzativo.

    «L’antitesi vera non è dunque quella tra capitalismo e marxismo, ma è quella esistente tra un sistema nel quale l’economia è sovrana, quale pure sia la forma che essa riveste, e un sistema nel quale essa è subordinata a fattori extraeconomici entro un ordine assai più vasto e più compiuto, tale da conferire alla vita umana un senso profondo e di permettere lo sviluppo delle possibilità più alte di essa». [8]

    Non c’è conflitto tra sistemi economici tecnicamente considerati ma tra le differenti posizioni che l’economia occupa in una società e tra le diverse strutture interiori dei tipi umani che si pongono di fronte ad essa. Risulta così fittizia la distinzione tra diversi sistemi di produzione e distribuzione dei beni e della ricchezza -riducendosi essa al semplice dominio organizzativo-strumentale- quando il benessere delle masse risulti l’obiettivo ultimo attorno al quale questi sistemi fanno convergere i loro sforzi.

    Respingere consapevolmente e non epidermicamente il dogma del determinismo marxista, con cui si pretende di modellare l’uomo e le sue culminazioni spirituali, culturali e politiche sulla base dei rapporti di produzione, significa attribuire fondamentale importanza non alla sfera economica in sè considerata, ma alla posizione da essa occupata, all’influenza da essa esercitata e all’attitudine con cui il singolo si pone di fronte al fatto economico.

    Consideriamo dunque il progetto comunistico-aristocratico dello Stato popolare ormai acquisito nel patrimonio culturale tradizionalistico; anzi, riteniamo auspicabile una elaborazione culturale che conferisca ulteriore spessore teorico a questa soluzione organizzativa.

    Non bisogna porre alcuna pregiudiziale nei confronti delle forme economiche che assumerà la futura Restaurazione tradizionalista; al suo interno, anche lo schema organizzativo dello Stato popolare potrà proporsi come soluzione funzionale.

    Maurizio Lattanzio

    Note:

    1) Il pensiero marxiano mira alla costruzione di un sistema socio-economico basato sull’attribuzione indifferenziata ed egualitaria del benessere materiale (benessere di cui, all’epoca della speculazione di Marx, nelle società borghesi godevano solo alcune classi sociali) all’intera società civile, nella prospettiva dell’estinzione dello Stato, della completa omogeneizzazione sociale e dell’eguaglianza economica … In Svezia, Norvegia, Danimarca, ad esempio, si è realizzato -in quadro strutturalmente diverso da quello immaginato da Marx- il sogno messianico della «società senza classi» vagheggiata dall’intellettuale giudeo. In queste queste società sono praticamente scomparse le differenze sociali o di classe, mentre il godimento generalizzato dei beni materiali e dei servizi sociali ha largamente valicato il confine del superfluo, nell’ambito di un sistema sociale caratterizzato dalla presenza di una sterminata, grassa e soddisfatta (anche se I’alcoolismo e i suicidi hanno una rilevante incidenza) borghesia di massa, irretita e ottusa da un narcotizzante materialismo pratico che non è certo così assorbente nelle società del cosiddetto «socialismo reale». Non esiste una questione sociale, mentre la religione protestante, lungi dall’essere I’«oppio dei popoli», è il lievito che permette alle masse borghesi di sublimare nei Vangeli la visione mercantile, utilitarista e materialista della vita … Marx avrebbe potuto desiderare di più?

    2) Friedrich Nietzsche, “La volontà di potenza”;

    3) F. G. Freda, “La disintegrazione del Sistema”, Ed. di Ar, Padova 1980. L’ambiente è l’insieme delle condizioni fisiche, chimiche, biologiche in cui si sviluppa la vita di una comunità di organismi. Nella società democratica, I’ambiente è l’insieme delle condizioni o circostanze istituzionali e strutturali, dei meccanismi economici e sociali, che consentono al borghese di agitarsi coerentemente con la propria mentalità mercantile. Banche e industrie private, contratti e usura, libera iniziativa economica e proprietà privata, rappresentano i veicoli giuridico-istituzionali strutturalmente e funzionalmente adeguati all’espansione infettiva e all’attuazione operativa della forma mentis borghese-capitalista. La soppressione di queste istituzioni economiche e di queste formule giuridiche determinerà il disarmo materiale del borghese, privandolo del supporto strumentale idoneo ad attivare le sue potenzialità mercantili. É, insomma, la sterilizzazione dell’ambiente, alla quale, però, dovrà organicamente accompagnarsi un’efficace terapia volta a debellare la mentalità borghese, favorendo, nel contempo, la nascita e l’affermazione dell’«uomo nuovo».

    4) Tra gli antichi Germani, così come nella civiltà classica e in quella romano-germanica medioevale, la proprietà -permeata da valori spirituali, religiosi ed etici ed organicamente integrata nel tessuto sociale- concorre funzionalmente alla conservazione dell’equilibrio economico della comunità del popolo.

    La Sippe (corrispondente alla gens romana) degli antichi Germani, conosciuti e descritti da tacito nel suo “De origine, situ, moribus et populis Germaniae”, riunisce in un quadro di rapporti sociali solidaristici un gruppo organico di famiglie discendenti da comuni antenati di stirpe divina. All’interno della Sippe il singolo non esiste quale soggettività individualistica di diritto, ma radica la propria identità individuale nel gruppo di cui è parte organica integrante. I membri del gruppo gentilizio coltivano gli appezzamenti di terra circostanti, i quali non costituiscono una proprietà individuale ma appartengono solidalmente, come del resto le foreste e i pascoli, alla Sippe. Fustel De Coulanges (“La città antica”, Sansoni ed.) scrive: «Noi conosciamo il diritto romano dell’epoca delle XII Tavole; è chiaro che in quest’epoca l’alienazione della proprietà era permessa. Ma ci sono le ragioni le quali fanno pensare che, con riferimento all’epoca originaria della Romanità, la terra fosse sottoposta ad un regime giuridico di inalienabilità». Il proprietario di un bene fondiario non è mai un singolo, ma una famiglia o una stirpe: «L’individuo -scrive De Coulanges- riceve la terra solo in possesso: essa infatti appartiene anche a quelli che sono morti e a quelli che nasceranno». Nel Medioevo romano-germanico il regime della proprietà è fondato sul beneficio, il quale è la concessione di un determinato territorio da parte del signore feudale o del sovrano ad un vassallo a lui subordinato, nel quadro di un ordine gerarchico piramidale a contenuto spirituale ed etico. Questa concessione non riguarda diritti di proprietà ma solo l’usufrutto del bene (terre e castelli). In cambio il vassallo -oltre a fornire determinati contributi di carattere economico (prodotti della terra ecc.)- giura fedeltà personale al suo signore per il quale si impegna a combattere in caso di guerra.

    5) Oswald Spengler, “II tramonto dell’Occidente”, Mondadori, Milano 1970.

    6) «Ontologia» è un termine introdotto nel vocabolario filosofico a partire dal XVII secolo per indicare la «scienza dell’essere», compito che Aristotele assegna alla filosofia prima o metafisica. L’espressione «contenuto ontologico» può essere riferita ad un’entità che «è» in quanto oggetto di studio da parte dell’«ontologia». L’essenza -dunque: la realtà- può costituire il fondamento della titolarità di un bene economico. La proprietà di un bene non è dunque prerogativa esclusiva di una persona fisica o di una comunità di persone, ma può essere attribuita ad ogni entità che -al di là della fictio iuris della persona giuridica (sic!)- abbia un’essenza e, quindi, «contenuto ontologico».

    7) La Tradizione informale, il cui piano si situa in una dimensione cosmica trascendente, è costituita da un’unica essenza; essa si manifesta, svolge e attualizza sul piano storico nel quadro di forme tradizionali organicamente differenziate, e, quindi, adeguate alla mentalità e alle disposizioni spirituali delle comunità a cui essa si rivolge. La Tradizione informale è il Principio metafisico non-manifestato o totalità della Possibilità Universale. La manifestazione del principio metafisico comporta un processo di determinazione nel quadro di una forma spazialmente, temporalmente e storicamente delimitata. La Tradizione informale si differenzia e formalizza nel modo di espressione, ma è unica nell’essenza trascendente.

    8) Julius Evola, “Gli uomini e le rovine”, Ed. Volpe, Roma 1972.

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    Predefinito Re: Comunismo Gerarchico, Freda e Lattanzio

    IL “COMUNISMO GERARCHICO”, LA RIVOLUZIONE RADICALE DEL NOVECENTO



    Nell’epoca dell’egoismo sociale elevato a sistema, quando per riscaldare gli uomini con qualche traccia di “comunitarismo” si è costretti a umiliarli in quelle farse ideologiche che sono i “girotondi”, gettare uno sguardo a quelle idee in cui invece la comunità costituisce l’unico parametro della convivenza, significa riappropriarsi di tutto il significato antagonista che l’idea di comunità ricopre nei confronti della mera società. In questo senso, è impossibile non verificare il dato storico che lo sguardo politico delle rivoluzioni nazionalpopolari del secolo XX, pur con tutti i loro difetti, fu ben più profondo di quello delle residuali “sinistre” filo-liberali odierne, che si aggirano ai piedi del capitalismo mondialista in veste di attempate e inascoltate puttane.

    Oggi, una fredda analisi retrospettiva, priva di ogni inutile spirito revanchista, ma ricca invece di volontà di conoscenza e passione di verità, può facilmente attribuire al corporativismo fascista – erede delle lotte del sindacalismo rivoluzionario - il ruolo di unico organismo politico e sociale che abbia cercato di sradicare la malapianta dell’individualismo borghese, senza per questo, come fece invece il bolscevismo, distruggere anche il patrimonio tradizionale delle appartenenze e della qualità personale dell’uomo. Inserendosi come “terza dimensione” tra capitalismo e collettivismo, il corporativismo intese gettare le fondamenta di una nuova civiltà che doveva essere in grado di risolvere il moderno problema dell’inserimento delle masse nel circuito del potere ma, ad un tempo, proteggendo le specificità nazionali e gli antichi tessuti di cultura e di socialità popolari. Tuttavia, come sappiamo, durante il Ventennio la struttura corporativa non riuscì a svellere la pesante struttura del predominio economico capitalista, limitandosi a contenere qua e là gli oltranzismi industrialisti, ma non riuscendo nel compito previsto di erigere una comunità sociale di lavoro davvero operante, fondata sullo smantellamento del capitale finanziario e speculativo. Ma ci furono idee e uomini, momenti storici e realizzazioni istituzionali che portarono il fascismo ad attaccare da vicino il capitalismo e a porsi come suo antagonista, risoluto nel passare dalle teorie ai fatti?

    Secondo quanto hanno scritto due tra i maggiori storici del fascismo, Zeev Sterhell e De Felice, il fascismo corporativo si presenta come linea di continuità diretta con gli antecedenti del sorelismo e del sindacalismo rivoluzionario. Superato il vecchio concetto di classe, ciò che si apriva era la più vasta visione comunitaria nel suo complesso. Partendo da questo dato, noi oggi possiamo allargare la riflessione facendo riferimento ad uno studio uscito di recente per le Edizioni di Ar, Il comunismo gerarchico. L’integralismo fascista della corporazione proprietaria e della Volksgemeinschaft di Sonia Michelacci. Questo lavoro presenta un taglio scientifico che è del tutto inusuale in questo genere di studi, approcciando l’analisi delle teorie e delle realizzazioni sociali soprattutto dal lato giuridico, e scegliendo la via del comparativismo storico, ponendo una di fronte all’altra le strutture sociali e normative del fascismo-regime, quelle della Repubblica Sociale e quelle del Terzo Reich. Ma vi è anche un capitolo sulla coeva concezione sociale cattolica: scelta non eccentrica, se solo si pensa alle ricadute che ebbe il fascismo sociale sul pensiero cattolico della prima metà del Novecento, in cui si ebbero non trascurabili convergenze tra neo-tomismo e corporativismo: da padre Gemelli al giovane La Pira. In più, e in qualità di referente ideologico misurabile sui tre maggiori casi storici, Sonia Michelacci prende il modello ideologico avanzato da Ugo Spirito fin dal 1932, con la sua conosciuta proposta della corporazione proprietaria: il momento più alto dell’avanguardia rivoluzionaria, tale da fungere in tutti i casi come insuperato schema per la finale liquidazione dell’idea stessa di proprietà privata borghesemente intesa. Ugo Spirito fu l’espressione della volontà di sospingere il corporativismo fino alle sue estreme conseguenze: la sua concezione filosofica – di formazione idealistica, gentiliana – riposava su una rappresentazione unitaria della realtà. Per questo, egli vedeva nella proprietà privata, dalla quale sono sorte in linea diretta tutte le feroci ingiustizie sociali del liberalismo individualista, l’ultimo e il più tenace baluardo del classismo e della divisione sociale. L’inserimento della corporazione proprietaria quale organo dello Stato (e non più come semplice “cinghia di trasmissione” tra lavoro e istituzioni, come invece veniva presentata dal corporativismo sindacalista classico), doveva avere il significato di una vera e rivoluzionaria ridistribuzione del potere, al centro del quale il ruolo della competenza era decisivo: il tecnico (paragonabile al manager industriale, ma di questo l’opposto quanto a contenuti sociali), formato attingendo al popolo e non più alle élites classiste, andava a ricoprire il ruolo di perno della produzione e, ad un tempo, di protagonista politico.

    Spirito più volte ebbe a precisare che la sua idea di smantellamento della proprietà non doveva affatto condurre ad un livellamento collettivistico, ma, proprio al contrario, alla promozione di una più matura e più giusta gerarchia. E, in proposito, parlò chiaramente di un comunismo gerarchico. E questo anche in epoca avanzata: in Guerra rivoluzionaria, che risale al 1941, ad esempio, a proposito della gerarchia di valori da lui auspicata come finale esito del fascismo, egli scrisse: “Comunismo, dunque, se si vuole, ma comunismo gerarchico e tecnico che fa tutt’uno con l’organizzazione e con il programma dello Stato. Soltanto così ognuno può trovare la garanzia della propria libertà nello Stato e il vero principio di tale libertà che è segnato dal diritto al lavoro”. La Michelacci, prendendo questi punti qualificanti del pensiero di Spirito come contraltare del corporativismo sindacalista del Regime, ancora in gran parte attestato sulle vecchie posizioni di classe, non sbaglia dunque nell’assegnare loro il ruolo di estremi referenti rivoluzionari, di fronte ai quali le realizzazioni sociali del Ventennio – che spesso in pratica attuarono una forma di garantismo nei confronti non della proprietà in genere, ma purtroppo della grande proprietà in specie – avevano tutta l’aria di essere la retroguardia della conservazione. L’Autrice inclina infatti a ricordare come l’insieme delle idee di Spirito tendesse a dar vita ad una diversa interpretazione del concetto di proprietà, attorno al quale – come ben si capisce - ruota tutta la complessa questione della proprietà dei mezzi produttivi, cui si intrecciano i condizionamenti economici sul potere politico e infine i più aperti ricatti, estensibili finanche alle scelte di politica estera. Parlando dunque del totalitarismo corporativo tratteggiato da Spirito, la Michelacci scrive che “l’essenza del corporativismo si sarebbe dunque risolta nell’attribuire ad ogni individuo un valore e una funzione pubblica […] Soprattutto il mondo economico poteva avviarsi verso una economia programmatica, mediante la quale superare il liberalismo tradizionale”.

    Bisogna a questo proposito ricordare che le teorie di Ugo Spirito non erano rappresentative soltanto di una presa di posizione personale, priva di riscontri: al contrario, esisteva nel fascismo sociale tutto un ambiente che vi si rifaceva e non solo in teoria, ma col lavoro quotidiano, con la tessitura di contatti, con concrete proposte. Basterà ricordare come Tullio Cianetti intorno al 1934 criticasse l’utilizzo “parastatale” dell’IRI, da poco fondato, auspicando che questo organismo (che definiva potenzialmente come “la vera corporazione proprietaria”) e l’insieme di sindacati, consorzi e organi economici vari dovesse estinguersi nella vera corporazione, arbitra e protagonista della vita economica. Oppure, si ricorderà come favorevoli a queste impostazioni di “rivoluzione corporativa” fossero anche il popolare organizzatore sindacale Luigi Razza (che difatti, alla metà degli anni trenta, venne allontanato dalla politica attiva), o un Agostino Nasti, che, interpretando la volontà in specie di tutto il mondo giovanile fascista – massicciamente favorevole a un indirizzo “socialista” del Regime -esortava il fascismo a “sostituirsi al marxismo” nella lotta sociale, traendone simpatie diffuse in Europa, dal “neo-socialismo” di Marcel Déat al “planismo” di Henri De Man.

    Tutti questi ambienti della sinistra fascista – giovanile, sindacale, corporativa, teorica e organizzativa - erano risoluti a superare quella empasse in cui era caduto il fascismo dopo le grandi enunciazioni: infatti, né la Carta del Lavoro del 1927, né l’introduzione l’anno seguente della Magistratura del Lavoro, né l’inaugurazione formale nel 1934 delle 22 Corporazioni – per altro mai veramente funzionanti – venivano giudicate tappe tali da veder finalmente minacciato da vicino il sistema capitalistico. La proprietà veniva sì sottoposta a talune limitazioni, soprattutto quando il proprietario non ne faceva un buon uso o un uso contrario agli interessi dello Stato; ma tutto questo non sembrava andare oltre lo stadio della enunciazione di principio e non sembrava avere innescato alcun procedimento veramente rivoluzionario in senso sociale. L’Autrice presenta l’impianto giuridico della normativa sociale del Ventennio come ancora aggrappato tenacemente ad un’impostazione di diritto soggettivo: e qui individua il limite di uno sforzo che portò non diciamo la rivoluzione, ma anche solo il riformismo fascista, a vedersi sovente intralciato, o addirittura sabotato, dalle centrali del potere conservatore borghese, che tutto sommato si vedeva garantito da un sistema di leggi con cui ancora poteva difendere larghe parti dei suoi privilegi. Per dare un’idea, ci possiamo riferire a ciò che afferma la Michelacci a proposito della Carta del Lavoro e del Codice Civile, e al loro tentativo infruttuoso di convertire la proprietà privata in funzione sociale: “La funzione sociale, quindi, così tanto osannata, nel momento in cui lasciava immutata la struttura pratica della proprietà, altro non sarebbe dovuta essere che un limite posto alla signoria del proprietario […] ma incapace di esprimere un concetto giuridico; incapace, cioè, di determinare con esattezza un certo àmbito riservato non solo ai diritti, ma anche agli obblighi”. In altre parole, la “funzione sociale”, come dice Sonia Michelacci, si riduceva troppo spesso ad una semplice dichiarazione di intenti.

    Il discorso sulla sostanza sociale delle realizzazioni attuate dal fascismo fino al 1943, ci porterebbe lontano. E’ tuttavia possibile verificare quale fosse la vera anima di quel movimento, non appena ci si volge a considerare le iniziative portate avanti dalla Repubblica Sociale. Questo è il punto in cui l’analisi dell’Autrice si fa più interessante, tesa ad uno stretto paragone con l’interpretazione sociale del Terzo Reich. L’iniziativa del risorto fascismo si spostò fin da subito verso decisioni radicali. I Diciotto Punti di Verona, in questo senso, sono decisivi per un giudizio complessivo. Inoltre, l’approvazione della Premessa Fondamentale – gennaio 1944 – è il primo cardine di un sistema che, sancito col Decreto del febbraio seguente, portò all’avvio della socializzazione sul terreno dei fatti: la proprietà non è negata, ma equiparata al lavoro nella gestione e nella ripartizione degli utili, sottoposta alla programmazione e al Consiglio di Gestione (cui partecipavano i soli lavoratori), così da evitare la burocratizzazione ma garantendo la responsabilità e il decisionismo effettivo del lavoro. Sappiamo che fino agli ultimi mesi della Repubblica il procedimento conobbe crescente attuazione, e che vennero socializzate molte imprese, dalla Dalmine a quelle del comparto cartaceo. E nulla impedisce di pensare che, disponendo di tempo, il Ministero dell’Economia Corporativa guidato da Angelo Tarchi sarebbe andato fino in fondo. La Michelacci, per altro, vede nel concetto di proprietà privata della Repubblica Sociale uno sviluppo delle anticipazioni teoriche di Ugo Spirito e un momento di sensibile avvicinamento col Terzo Reich: salvaguardia dell’iniziativa privata e della proprietà, entro certi limiti e con ben precise riserve, ma “è del pari vero che capitale e iniziativa privata ricoprono adesso un ruolo che non decide più il processo produttivo, poiché il ruolo decisivo viene adesso ricoperto dal lavoro in tutte le sue manifestazioni”.

    Queste osservazioni ci portano dunque al cuore della concezione sociale nazionalsocialista. Qui l’individuo, di per sé, non ha veste. Se non in qualità di membro del Volk. Né individuo né Stato – i due protagonisti della dinamica borghese – hanno rilevanza giuridica, ma solo il popolo, e in esso l’uomo in quanto sua consapevole e organica parte attiva. L’assoluta preminenza del politico e del pubblico sul privato e sullo Stato, garantita dal sistema nazionalsocialista, portava, come scrisse il giurista Otto Kollreutter, a far coincidere il pensiero giuridico con quello politico. Il pubblico non veniva identificato con lo Stato (come nella tradizione liberale borghese), ma con il popolo, elevato dunque a somma tra le categorie giuridiche, fonte esso stesso di diritto attraverso la sua identificazione gerarchica con la figura del Führer e con il suo potere di decisione. E questo, a sua volta, era considerato come espressione di una volontà non individuale, ma comunitaria.

    Il concetto stesso di diritto, nel Terzo Reich, è attribuito per intero alla Volksgemeinschaft, unico soggetto giuridico all’interno del quale vige il principio fondamentale della distribuzione del ruolo e della funzione sociale: a ciascuno il suo. Che rimanda, evidentemente, ad una concezione anti-egualitaria, gerarchica, ma inserita in un meccanismo di socialità anti-classista, per cui ad ognuno è aperta la porta della responsabilità a qualunque grado, purché manifesti quella competenza che abbiamo già visto essere stata indicata da Spirito come la discriminante gerarchica del suo “comunismo”. La “lotta contro il diritto soggettivo” in cui si prodigò il diritto nazionalsocialista non era la negazione dell’individuo come essere umano con una sua personalità: evidentemente, non era questo che si negava, ma il sopravvento dell’interesse privato sull’interesse pubblico. Né si pensava affatto a negare la libertà del singolo: poiché il singolo giuridicamente non esisteva. Come nella Grecia antica, l’individuo è inserito in un sistema totale. E come questo sistema di potere pubblico – che non è lo Stato, ma la volontà comunitaria – non era affatto sentito come opprimente nel V secolo, poiché il potere, come diceva Tucidide, non rappresenta il popolo ma è il popolo, così ugualmente, e con straordinaria similitudine, il diritto nazionalsocialista giudica Volk e potere pubblico un’unica e indivisibile realtà di popolo. Come scrisse Karl Larenz, “la libertà spetta al singolo non come ad un individuo che stia fuori della comunità, ma solo nella comunità e mediante di essa”. E’ in questo quadro che vanno interpretate le affermazioni dei teorici nazionalsocialisti, intese a considerare lo steso marxismo come un’ulteriore forma dell’individualismo libertario borghese, un’assicurazione sui diritti ad ampio spettro, che nella teoria non esce dal recinto delle garanzie tipiche del conservatorismo moderno, fondato sui “diritti” e sull’astrazione libertaria.

    Nel ripercorrere le tappe del pensiero giuridico nazionalsocialista, Sonia Michelacci ricorda che anche e soprattutto sul concetto di proprietà – nodo di ogni interpretazione di diritto pubblico – si riverbera la convinzione del più radicale comunitarismo. Individuo, dunque, scrive l’Autrice, “come membro responsabile della comunità, e non come astratto individuo”. Posizione, questa, che veniva infine sancita, ad esempio, ancora da Larenz, nell’indicare i caratteri della proprietà come fossero ristretti in quelli di un possesso elargito al proprietario, in una sorta di affidamento da parte del Volk: “proprietà come dominio limitato sulla cosa, affidato dalla comunità ai suoi membri che lo esercitano in maniera responsabile”.

    Si comprende che la concezione meta-giuridica nazionalsocialista è imparagonabile con il diritto borghese, tutto incentrato sull’idea liberale di libertà privata. E ben si comprende, inoltre, che l’uscita dalla sfera privatistica faceva modernamente rientrare il diritto comunitario del Terzo Reich nella categoria atavica del comunitarismo di stirpe su base tradizionalista, dove il legame, la solidarietà, la reciprocità, l’onore sociale, il servizio, ma anche il volontariato sociale, il soccorso, la mutualità, l’offerta, il servizio (tutte parole-chiave del lessico nazionalsocialista), non erano pensati come slogan di richiamo solidaristico in una società disgregata e quindi bisognosa di nuovi collanti sociali, ma come l’essenza spontanea, naturale, ovvia, di un con-vivere che era concepito – heideggerianamente – come con-lavorare, con-studiare, con-battere: insomma: con-essere. Uno studio semantico sull’uso della particella tedesca mit in filosofia, in sociologia o in antropologia durante il Terzo Reich, ad esempio, rivelerebbe quanto fossero cardinali e non accessori simili richiami ideologici.

    La via comunitaria imboccata da uomini, teorie politiche, regimi, ideologie e interi popoli del trascorso secolo XX appare oggi, all’apice del processo di disintegrazione sociale e umana delle nazioni, come un “altro mondo”. Eppure, il caotico riandare di taluni pensatori o osservatori o ambienti nostri contemporanei al bisogno antico di aristotelica socialità proprio nel bel mezzo della sbornia individualistica, è altamente rivelatore, e proprio nel suo scomposto e frammentato riemergere. Esso testimonia che il bisogno di comunità così intensamente vissuto in certi salienti della nostra storia recente non era vuoto ideologema, ma il riflesso di un ordine esistenziale che nessun avverso destino può sopprimere.

    Luca Leonello Rimbotti


    __________________________________________________ _____________________________________________
    Sonia Michelacci, Il comunismo gerarchico. L’integralismo fascista della corporazione e della Volksgemeinschaft, Edizioni di Ar, pagine 196; Collezione: "Il tempo e l’epoca dei fascismi". Prefazione di Luigi Lombardi Vallauro. Euro 20,00
    ...Dopo aver scandito con nettezza i vari passi del fascismo rivoluzionario verso una concezione della proprietà privata che postulava di superare tanto l’individualismo liberale quanto il collettivismo comunista, il libro individua come prima realizzazione coerente e chiara dell’ideale fascista l’ordinamento fondato, con la Socializzazione delle imprese, dalla Repubblica sociale...(dalla prefazione di Luigi Lombardo Vallauri, Filosofo del Diritto)

    ...Una delle prime formulazioni di Ugo Spirito sul comunismo gerarchico – da lui identificato con il corporativismo – risale al 1935, nella relazione ‘Corporativismo e libertà’ presentata al Convegno italo-francese di studi corporativi che si tenne a Roma nel maggio di quell’anno. In essa il filosofo aretino così tratteggiava il tipo di collaborazione gerarchica da lui posta a fondamento della nuova società: “Per poter vincere il capitalismo occorre vincerlo tecnicamente e spiritualmente, non con la violenza del numero, ma con la superiorità tecnica di una gerarchia totalitaria in cui i valori umani si differenziano al massimo”...(dall’introduzione dell’Autrice)
    ----------------------------
    "Sarà qualcun'altro a ballare, ma sono io che ho scritto la musica. Io avrò influenzato la storia dell'Europa del XXI secolo più di qualunque altro europeo".

    Der Wehrwolf

 

 

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