– Mario Michele Merlino

Diversi anni fa, trovandomi a Trieste, m’ero intestardito nel cercare fra le doline del Carso, sotto monte San Michele, il cippo eretto nel 1933, alto ventitre metri ornato dai simboli del Regime fascista, l’aquila e la mano levata, il fascio lungo tutta la stele, a memoria di Filippo Corridoni. Era mia intenzione rendere omaggio al sindacalista rivoluzionario, interventista, caduto in combattimento alla Trincea delle Frasche, il 23 ottobre del 1915 – e il corpo non venne identificato. Non fu facile da trovare, più di una volta percorsi la strada e i sentieri limitrofi, quasi volesse rendersi inaccessibile. Una mattina di cielo terso, improvviso, mi apparve nel suo biancore, ritto nella sua linea ardita.

Ciò che mi colpì fu la scritta incisa nella pietra, sul suo basamento. Essa recita: ‘Qui – eroico combattente – cadde – Filippo Corridoni – fecondando – col sacrificio della vita – la gloria della patria – e – l’avvenire del lavoro’. Ecco: non tanto il richiamo al suo sacrificio, tanto prossima l’eco della Grande Guerra, di quei seicentomila morti, quanto al riferirsi all’avvenire, termine evocante le parole care al socialismo, e al lavoro. In tempi in cui si usa tirare per la giacchetta anche i cadaveri e far dire loro quanto a noi aggrada. Un atto doveroso di riconoscimento e di rispetto per un giovane (aveva egli compiuto il 19 agosto ventotto anni) che tutto s’era donato – il carcere e la salute ne erano stati il prezzo – per dare ai lavoratori dignità e giustizia. E che, forse con troppi compromessi e qualche inganno di troppo, il Fascismo volle rendersi interprete.

La domanda rimane, certo, irrisolta o, come ogni domandare, porta in sé la risposta nei nostri cuori nella mente nelle scelte che ognuno di noi compie. Corridoni, se fosse sopravvissuto all’immane carneficina della guerra, con chi si sarebbe schierato e contro chi? Ad esempio la moglie di Giuseppe di Vittorio, leader della CGIL nel dopoguerra, già sindacalista e interventista, Anita ricorda in un libro dedicato al marito come costui si fosse espresso con stima e affetto per il suo vecchio ‘compagno’ ed amico e fosse certo che mai si sarebbe collocato con i fascisti e ‘al servizio degli agrari’ (sono sue parole). Così, se fra le primissime squadre del Fascismo bolognese, anno 1919, ce n’è una che porta il suo nome; altresì, nel 1923, viene donata alla madre a Pausula (sua città natale) la bandiera rossa bordata di nero degli anarchici dell’USI (l’Unione Sindacale Italiana e, costituitasi a Milano nel 1913 la locale federazione. Corridoni ne divenne primo segretario), che viene esposta alla finestra della sua abitazione nel decennale della morte e con grande scandalo.


Con il suo nome, la motivazione della medaglia d’oro, il volto affinato e lo sguardo limpido e severo in una fotografia divenuta celebre (copia con la firma della madre Enrichetta alla parete del mio studio), scuole e circoli e targhe e lapidi. Il 23 ottobre del 1925 lo stesso Mussolini volle presenziare alla posa della prima pietra per il suo monumento a Parma, la città dove si era distinto quale principale animatore dei moti sindacali del 1908, e dove in quell’Oltretorrente gli Arditi del Popolo, guidati da Vittorio Picelli e in nome di Corridoni nel ’22 si erano opposti alle squadre fasciste di Roberto Farinacci e poi di Italo Balbo. (Complessità della Storia, sua ricchezza in idee uomini accadimenti – come piccole ci appaiono a confronto le figure di questo nostro presente! –. Vittorio Picelli, interventista sul fronte francese, sindacalista, esule oltre le Alpi, nel 1935 scrive direttamente a Mussolini e gli chiede, ottenendone l’assenso, di rientrare in Patria per combattere in Africa Orientale per impegnarsi negli anni successivi sul fronte del lavoro). Un gesto forte, quello del Duce, inteso a saldare il mondo del lavoro con gli intenti del Fascismo. Poi sarà presente all’inaugurazione della statua nella piazza principale di Pausula, divenuta Corridonia, nel 1936. Della memoria, delle sue idee, in suo nome è pervaso il Fascismo, come la Carta del Carnaro, i cui articoli dedicati al lavoro vedono il contributo in prima persona di Alceste de Ambris, altra figura principe del sindacalismo.


Di questa continuità ideale, magari compressa o sempre ritardata nelle sue tesi applicative rimando al voluminoso libro del professor Antonio Parlato La sinistra fascista, che reca come significativo sottotitolo ‘storia di un progetto mancato’. Che è tema mediato da Renzo De Felice, di cui Parlato è stato allievo, cioè di una involuzione borghese del Fascismo, che però non esclude essere il Corridoni una figura di sicuro riferimento.


(Avremmo di certo preferito volgerci a quel passato della nostra storia con immagini alte ed altre – più BL18 correre lungo strade polverose, giovani strafottenti cantare stornelli e levare al sole labari e randelli; meno feluche patacche stivaloni discorsi beceri trasudanti retorica. Tutto un armamento che si sarebbe dissolto, senza troppi rimorsi e rimpianti, al momento della crisi. Rimaniamo convinti – e fedeli – che, però, quella ‘storia di un progetto mancato’ sia giudizio severo e, in gran parte, anche ingiusto…).

E venne la resa dei conti – con il 25 luglio del ’43 e con il disfacimento delle strutture del Regime; l’8 settembre con il Re lesto a riparare sotto l’ala del nemico di ieri e il tradimento dei generali e del potere economico e della borghesia; la nascita tragica ed esaltante della RSI con i 18 Punti di Verona, la sua aspirazione di ritorno alle origini e Filippo Corridoni trasformarsi in qualcosa di più che ‘spirito della vigilia’, nella felice espressione di Camillo Pellizzi. E, qui, varrebbe la pena soffermarsi sulla figura di Giuseppe Solaro ultimo federale di Torino, e di cui portiamo indelebili le immagini del suo martirio, di quel volto ormai libero dalle gabbie del mondo e di contro il ghigno bestiale dei suoi carnefici. Trentuno anni di una giovinezza intensa e spesa bene, comunque. E’ tutto merito del giornalista di Lucca, Fabrizio Vincenti, averci raccontato la sua vicenda – Giuseppe Solaro, il fascista che sfidò la Fiat e Wall Street – e di averci consentito di conoscere i suoi scritti – Fascismo o plutocrazia -, dove lo spirito ardente e ribelle, i temi cari del lavoro e della giustizia sociale sono permeati da tanta eco corridoniana. E, anche qui, il confronto con il presente è miserrimo… Chi, oggi, a trenta e uno anni può vantare tanto aver fatto scritto detto sofferto messo in gioco e pagato in prima persona?


Di questo spirito che tutto anima impegna e travolge, permetto riportare un passo, pubblicato su Il Popolo d’Italia il 23 ottobre del ’17, da Mussolini, non ancora fondatore dei Fasci di Combattimento e capo del Fascismo. Più libero, dunque, e più spontaneo e più sinceramente prossimo all’amico e compagno, a due anni dalla morte, con accenti poetici che lo rendono a me caro – e perdonate questo richiamo personale -. Scrive Mussolini: ‘Egli era un nomade della vita, un pellegrino che portava nella sua bisaccia poco pane e moltissimi sogni e camminava così, nella sua tempestosa giovinezza combattendo e prodigandosi, senza chiedere nulla. Leviamoci un momento dalle bassure della vita parlamentare; allontaniamoci da questo spettacolo mediocre e sconfortante; andiamo altrove con il nostro pensiero che non dimentica; portiamo altrove il nostro cuore, le nostre angosce segrete, le nostre speranze superbe, e inchiniamoci sulla pietra che, nella desolazione dell’Altipiano di Trieste, segnò il luogo dove Filippo Corridoni cadde in un tumulto e in una rievocazione di vittoria’.


Questo sarebbe stato – o avrebbe dovuto essere carne ossa sangue – di quel Fascismo ‘immenso e rosso’ l’asse portante – di uomini usi a sognare e, con l’azione, rendere i sogni realtà. Non lo fu purtroppo, per molti per tanti per troppi, ma noi restiamo fedeli ai sogni che ci rendono liberi e agli ideali che ci preservano giovani… Aveva scritto lo stesso Corridoni in una lettera ad Arturo Rossato (redattore de Il Popolo d’Italia, interventista e anch’egli volontario al fronte), pochi giorni prima di cadere in combattimento, quasi presago: ‘Io rimarrò sempre il Don Chisciotte del sovversivismo; ma un Hidalgo senza ingegno pieno soltanto di fede. Morirò in una buca, contro una roccia o nella corsa di un assalto, ma se potrò cadrò con la fronte verso il nemico, come per andare più avanti ancora’.

Una promessa; un monito; una lezione. Per ciascuno di noi. Perché vi sono destini che ci spingono a travalicare ogni confine e mai acconciarci al dato ricevuto, al ripostiglio dei nostri fragili cuori. Fra i grandi temi proposti al Novecento due di sicuro videro nella Grande Guerra l’accelerazione per la loro risoluzione: l’estensione e il conseguente dominio della tecnica – e basterà ricordare alcune opere dello scrittore tedesco Ernst Juenger, quali La Mobilitazione totale e il celebre L’operaio, edito nel 1932; la trasformazione delle masse, estranee e soventi ostili allo Stato, in un popolo, in Nazione. Dignità nel lavoro e giustizia sociale, il loro tramite. Ecco perché Filippo Corridoni, pur oggi o, forse, proprio in questo oggi in cui e lavoro e conquiste sociali vengono passate nel tritacarne degli interessi liberisti, ci appare esempio. Gli scritti, sono in gran parte articoli, di Corridoni ne sono testimonianza.


Dietro la spinta delle idee di Georges Sorel egli annovera nel suo pensiero, mai disgiunto dall’esempio in prima persona, quella che può definirsi etica del cambiamento capace di animare le lotte operaie ed evitare di ridurle a esclusiva ‘ribellione della fame’ – e ancora con sue parole lo ‘spirito eroico, il senso religioso del proprio sforzo, la voluttà del sacrificio ed una chiara e completa nozione della propria missione storica’. Citazione questa tratta da Sindacalismo e Repubblica, suo saggio più compiuto, scritto nel carcere di San Vittore nell’aprile del 1915, pubblicato postumo nel 1921 a cura di Alceste De Ambris. Tanti i temi: filo conduttore quella ‘democrazia diretta’ a dare al sindacato di categoria il ruolo che i partiti non sono in grado di interpretare, dal decentramento verso le province per sfuggire all’asfissia burocratica al concetto di ‘nazione armata’ (un popolo in armi, sostitutivo dell’esercito inteso al servizio di interessi di parte – padronali e borghesi) e tanto altro ancora.


E’ tempo, però, che concluda. Cosa rimane dell’uomo delle idee della storia che ha caratterizzato la vicenda di Filippo Corridoni. Un sogno infranto? La visione di ciò che poteva essere e non è stato? Per alcuni, i saccenti di turno le cornacchie travestite da pavoni i professori usi a erogare sentenze dalla cattedra, poco troppo poco quasi nulla… Qualcuno ha detto che un mondo senza utopie è condannato a trasformarsi in un universo di chiavistelli e di sbarre. Concordo e mi trovo in buona compagnia di uomini (permettetemi di definirmi ‘camerata’ con loro, come loro) come Berto Ricci e Nicolò Giani e Giuseppe Solaro e, appunto, Filippo Corridoni. Di altra compagnia non ho cura; mi annoia tutto quanto non appartiene al gusto dell’eresia; come si gridava, un po’ beceri e tronfi (assolviamo i nostri inquieti venti anni), per le strade contro i portoni serrati le finestre sbarrate ‘l’immaginazione al potere’ – l’utopia, insomma.