Vittorio MESSORI Leggenda nera - La Corona spagnola e le Americhe
tratto da Vittorio MESSORI, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 637-660.
Ben sette Oscar per «Dance with wolves», «Balla coi lupi», il film americano "dalla parte degli indiani". Fu attorno alla metà degli anni Sessanta che il western procedette alla svolta: fu messo in crisi lo schema "bianco buono - pellerossa cattivo", con i primi dubbi sulla bontà della causa dei pionieri anglosassoni. Da allora quella crisi è andata sempre aumentando, sino al rovesciamento completo: ora, le nuove categorie esigono di vedere nell'indiano sempre un puro eroe e nel pioniere sempre un brutale invasore.
Nauralmente, anche questo rischia di diventare una sorta di nuovo conformismo dell'uomo occidentale P.C., Political Correct, come si dice per indicare chi rispetta i canoni e i tabù della mentalità corrente.
Mentre prima era socialmente scomunicato chi non vedesse un martire della civiltà e un campione del patriottismo "bianco" nel colonnello George A. Custer, ora incappa nella stessa scomunica chi parlasse male di Toro Seduto e dei suoi Sioux che, quel mattino del 25 giugno 1876, a Little Big Horn, massacrarono il Custer stesso con gli yankees del 7° cavalleggeri.
Malgrado il rischio di nuovi slogan conformistici, non si può non accogliere con soddisfazione l'attuale scoprimento degli altarini dell’'altra" America, quella protestante, che diede (e dà) tante sdegnose lezioni di morale all'America cattolica. Già dal Cinquecento le potenze nordiche riformate - Gran Bretagna e Olanda in primis - diedero inizio alla guerra psicologica, inventando la "leggenda nera" della barbarie e dell'oppressione, nei suoi domini oltreoceano, di quella Spagna con cui erano in lotta per il predominio marittimo.
"Leggenda nera" che - come accade puntualmente per tutto ciò che è fuori moda nel mondo laico - viene ora scoperta golosamente da preti, frati e cattolici "adulti" in genere i quali, protestando con toni virulenti contro le celebrazioni del quinto centenario del «descubrimiento» non sanno di essere succubi, con qualche secolo di ritardo, di una fortunata campagna dei servizi di propaganda britannici e olandesi.
Ha scritto uno storico di oggi, insospettabile in quanto calvinista, Pierre Chaunu: «La leggenda antispanica, nella sua versione americana (in quella europea punta soprattutto sull'Inquisizione) ha giocato un ruolo salutare di valvola di sfogo. Il preteso massacro degli indios da parte degli spagnoli nel XVI secolo ha coperto il massacro americano sulla frontiera dell'Ovest nel XIX secolo. L'America protestante ha così potuto liberarsi del suo crimine rigettandolo sull'America cattolica».
Intendiamoci: prima di occuparsi di simili temi occorrerebbe liberarsi da certi attuali moralismi irreali che non vogliono riconoscere che la storia è una inquietante, spesso terribile signora. Nella prospettiva realistica da ritrovare, bisognerebbe condannare, ovviamente, errori ed atrocità (da qualunque parte vengano) senza però maledire, quasi fosse stato cosa mostruosa, il fatto in sé dell'arrivo degli europei nelle Americhe e del loro installarsi in quelle terre, organizzandovi un nuovo habitat.
Nella storia non è praticabile l'edificante esortazione a "restare ciascuno nella sua terra, senza invadere quella di altri". Non è praticabile non soltanto perché così si negherebbe ogni dinamismo alla vicenda umana; ma soprattutto perché ogni civiltà è frutto di un rimescolamento che mai fu pacifico. Senza scomodare la Storia Sacra stessa (la terra che fu promessa agli ebrei da Dio non era loro, ma fu da essi strappata a forza agli abitatori precedenti), le anime belle che inveiscono contro i malvagi usurpatori nelle Americhe dimenticano (tra l'altro) che, al loro arrivo, quegli europei trovarono ben altri usurpatori. L'impero azteco e quello inca erano stati creati con la violenza ed erano mantenuti con sanguinaria oppressione da popoli invasori che avevano ridotto in schiavitù i nativi.
E si fa spesso finta di ignorare che le sbalorditive vittorie di poche decine di spagnoli contro migliaia di guerrieri non furono determinate né dagli archibugi né dai pochissimi cannoni (tra l'altro, spesso inutilizzabili, in quei climi, perché l'umidità neutralizzava le polveri) né dai cavalli (che non potevano essere lanciati alla carica nella foresta).
Quei trionfi furono dovuti innanzitutto all'appoggio degli indigeni oppressi dagli incas e dagli aztechi. Dunque, più che come "usurpatori", gli iberici furono salutati in molti luoghi come liberatori. E aspettiamo ancora che gli storici "illuminati" ci spieghino come mai non ci furono, negli oltre tre secoli ispanici, rivolte contro i nuovi dominatori, pur ridottissimi di numero ed esposti, quindi, al pericolo di essere spazzati via al minimo moto. L'immagine dell'invasione dell'America del Sud svanisce subito a contatto con le cifre: nei cinquant'anni tra il 1509 e il 1559, dunque nel periodo di una conquista dalla Florida allo stretto di Magellano, gli spagnoli che raggiunsero le Indie Occidentali furono poco più di 500 (ma sì: cinquecento!) l'anno. In totale, 27.787 persone in tutto, in quel mezzo secolo.
Per tornare ai rimescolamenti di popoli con i quali bisogna fare realisticamente i conti, non va dimenticato ad esempio - che i colonizzatori del Nord America venivano da un'isola che a noi sembra naturale definire "anglo-sassone". In realtà, era dei Britanni, che prima furono assoggettati dai Romani e poi da barbari germanici - gli Angli e i Sassoni, appunto - che massacrarono buona parte degli indigeni e l'altra parte la fecero fuggire sulle coste della Gallia dove, cacciati a loro volta gli abitanti originari, crearono quella che fu detta Bretagna. Del resto, nessuna delle grandi civiltà (né quella egizia, né quella romana, né quella greca, senza mai dimenticare quella ebraica) fu creata senza invasioni e relative cacciate dei primi abitatori.
Dunque, nel giudicare la conquista europea delle Americhe, occorrerà guardarsi dall'utopismo moralistico che vorrebbe una storia fatta tutta di inchini, di buone maniere, e di "prego, prima Lei".
Chiarito questo, andrà pur anche detto che c'è "conquista" e "conquista": è certo (e anche film come il premiatissimo Balla coi lupi cominciano a farlo capire) che quella "cattolica" è stata ampiamente preferibile a quella "protestante".
Come ha scritto un altro storico contemporaneo, Jean Dumont: "Se, per disgrazia, la Spagna (con il Portogallo) fosse passata alla Riforma, fosse divenuta puritana e avesse dunque applicato gli stessi principi del Nord America ("lo dice la Bibbia: l'indiano è un essere inferiore, anzi è un figlio di Satana"), un immenso genocidio avrebbe spazzato via dal Sud America la totalità dei popoli indigeni. Oggi, i turisti, visitando poche "riserve" dal Messico alla Terra del Fuoco, scatterebbero fotografie di sopravvissuti, testimoni del massacro razziale, compiuto per giunta in base a motivazioni «bibliche»".
In effetti, le cifre parlano: mentre i "pellerossa" superstiti nel Nord America si contano a poche migliaia, nell'America ex-spagnola ed ex-portoghese la maggioranza della popolazione o è ancora di origine india o è il frutto di incroci di precolombiani con europei e (soprattutto in Brasile) con africani.
Il discorso sulle diverse colonizzazioni (iberica e anglosassone) delle Americhe è talmente vasto - e tanti sono i pregiudizi accumulatisi - che non possiamo che allineare qualche appunto. Per restare alla popolazione indigena, questa (lo ricordammo) è quasi scomparsa negli attuali Stati Uniti, dove sono registrati come "membri di tribù indiana" circa un milione e mezzo di persone. In realtà, la cifra, già assai esigua, si riduce di molto se si considera che, per quella registrazione, basta un quarto di sangue indiano.
Situazione rovesciata a Sud, dove - nella zona messicana, in quella andina, in molti territori brasiliani - quasi il 90 per cento della popolazione o discende direttamente dagli antichi abitanti o è il frutto di incroci tra indigeni e nuovi arrivati. Inoltre, mentre la cultura degli Stati Uniti non deve a quella indiana che qualche parola, essendosi sviluppata dalle sue origini europee senza quasi scambi con le popolazioni autoctone, non così nell'America ispanoportoghese, dove l'incrocio non è stato certo solo demografico, ma ha creato una cultura e una società nuove, dalle caratteristiche inconfondibili.
Certo: questo è dovuto anche al diverso stadio di sviluppo dei popoli che anglosassoni e iberici trovarono in quei continenti; ma è dovuto anche, se non soprattutto, alla diversa impostazione religiosa. A differenza di spagnoli e portoghesi cattolici che non esitavano a sposare indigene, nelle quali vedevano persone umane alla pari di loro, i protestanti (seguendo la logica di cui già parlammo e che tende a far tornare indietro, verso l'Antico Testamento, il cristianesimo riformato) erano animati da quella sorta di "razzismo" o, almeno, di senso di superiorità da "stirpe eletta", che aveva contrassegnato Israele. Questo, unito alla teologia della predestinazione (l'indiano è arretrato perché "predestinato" alla dannazione, il bianco è progredito come segno di elezione divina), portava a considerare come una violazione del piano provvidenziale divino il rimescolamento etnico o anche solo culturale.
Così è avvenuto non solo in America e con gli inglesi, ma in tutte le altre zone del mondo dove giunsero europei di tradizione protestante: l'apartheid sudafricano, per fare l'esempio più clamoroso, è tipica creazione - e teologicamente del tutto coerente - del calvinismo olandese. (Sorprende, dunque, quella sorta di masochismo che ha spinto di recente la Conferenza dei vescovi cattolici sudafricani a unirsi, senza alcuna precisazione o distinguo, alla "Dichiarazione di pentimento" dei cristiani bianchi verso i neri di quel Paese. Sorprende perché, se qualche comportamento condannabile può esserci stato anche da parte cattolica, questo - al contrario di quanto verificatosi da parte protestante - è avvenuto in pieno contrasto sia con la teoria sia con la prassi cattoliche. Ma tant'è: sembra che, oggi, ci siano non pochi clericali ben lieti di addossare alla loro Chiesa anche colpe che non ha).
E' proprio dalle diverse teologie che traggono origine i diversi modi di "conquista" delle Americhe: gli spagnoli non considerarono la popolazione dei loro territori come una sorta di spazzatura da eliminare per installarvisi da soli padroni. Si riflette poco sul fatto che la Spagna (a differenza della Gran Bretagna) non organizzò mai il suo impero americano in "colonie" ma in "province". E che il re di Spagna non assunse mai la corona di "Imperatore delle Indie", anche qui a differenza di quanto farà, e ormai alle soglie del XX secolo, la monarchia inglese. Sin dall'inizio (e poi, con costanza implacabile, per tutta la storia seguente) i coloni protestanti considerarono loro diritto fondato sulla Bibbia stessa – il possedere senza problemi né limiti tutta la terra che riuscivano ad occupare, cacciandone o sterminandone gli abitanti. I quali, in quanto non facenti parte del "nuovo Israele" e in quanto marchiati dai segni di una predestinazione negativa, erano in completa balia dei nuovi padroni.
Il regime dei suoli instaurato nelle diverse parti americane conferma queste diverse prospettive e spiega i diversi esiti: al Sud si ricorse al sistema della «encomienda» che era un istituto di derivazione feudale, era la concessione fatta dal sovrano a un privato di una porzione di territorio tenendo conto della popolazione già presente, i cui diritti erano tutelati dalla Corona, che restava la vera proprietaria. Non così al Nord, dove prima gli inglesi e poi il governo federale degli Stati Uniti dichiareranno la loro proprietà assoluta sui territori occupati e da occupare: tutta la terra è ceduta a chi lo desideri al prezzo che verrà poi fissato, in media, in un dollaro ad acro. Quanto agli indigeni eventualmente presenti su quelle terre sarà cura dei coloni (se necessario con l'aiuto dell'esercito) di allontanarli o, meglio, di sterminarli.
Il termine sterminio non è esagerato e rispetta la realtà concreta. Molti, ad esempio, non sanno che la tecnica della scotennatura era conosciuta dagli indiani del Nord come del Sud. Ma tra questi ultimi scomparve subito, vietata dagli spagnoli. Non così al Nord. Per citare, ad esempio, la voce relativa su una enciclopedia insospettabile come la Larousse: «La pratica dello scotennamento sì diffuse nel territorio degli attuali Stati Uniti a partire dal XVII secolo, quando i coloni bianchi presero ad offrire grosse ricompense a chi portava la capigliatura (o scalpo) di un indiano: uomo, donna o bambino che fosse».
Nel 1703 il governo del Massachusetts pagava 12 sterline per scalpo, tanto che la caccia all'indiano (organizzata con tanto di cavalli e mute di cani) diventò presto una sorta di sport nazionale, per giunta molto redditizio. Il motto «il miglior indiano è l'indiano morto», sempre messo in pratica negli Stati Uniti, nasce non solo dal fatto che ogni indiano soppresso era un fastidio in meno per i nuovi proprietari, ma pure dal fatto che il suo scalpo era ben pagato dalle autorità. Usanza che nell'America "cattolica" non era solo sconosciuta ma che avrebbe suscitato - se qualcuno, abusivamente, avesse cercato di introdurla - non soltanto lo sdegno dei religiosi, sempre presenti accanto ai colonizzatori, ma anche le severe pene stabilite dai re a tutela del diritto alla vita degli indigeni.
Ma questi, si dice, morirono a milioni anche nel Centro e Sud America. Certo, morirono: ma non al punto di quasi scomparire come nel Nord. Il loro sterminio non fu determinato soprattutto dalle spade d'acciaio dì Toledo e dalle armi da fuoco (che, come vedemmo, tra l'altro facevano quasi sempre cilecca), bensì dagli invisibili quanto micidiali virus portati dal Vecchio Mondo.
Lo choc microbico e virale che causò in pochi anni il dimezzamento delle popolazioni nell'America iberica è stato studiato dal "Gruppo di Berkeley", formato da studiosi di quella università. Fu qualcosa di paragonabile alla peste nera che, nel Trecento, aveva desolato l'Europa provenendo dall'India e dalla Cina. Tubercolosi, polmonite, influenza, morbillo, vaiolo: mali che, nella loro isolata nicchia ecologica, gli indios non conoscevano, per i quali non avevano dunque difese immunitarie e che furono portati dagli europei. I quali non possono, evidentemente, essere considerati responsabili per questo: anzi, furono falcidiati a loro volta da malattie tropicali alle quali gli indigeni resistevano assai meglio. Giustizia vuole che si ricordi (cosa che si fa assai di rado), che l'espansione dell'uomo bianco al di fuori dell'Europa assunse spesso l'aspetto tragico di un'ecatombe, con una mortalità che - con certe navi, incerti climi, con certi autoctoni - raggiunse percentuali impressionanti.
Ignorando i meccanismi del contagio (Pasteur era ancora ben lontano...) anche uomini come Bartolomé de Las Casas - figura controversa della quale bisognerà parlare al di là degli schemi semplificatori - caddero nell'equivoco: vedendo quei popoli diminuire drasticamente, gettarono il sospetto sulle armi dei connazionali, mentre non erano, spesso, che i virus di costoro. E' un fenomeno di contagio micidiale osservato anche molto di recente tra tribù restate isolate nella Guyana francese e nell'Amazzonia brasiliana.
L'usanza spagnola di un «Jesùs!» detto come augurio a chi starnutisce nasce dal fatto che anche un semplice raffreddore (di cui lo starnuto è segnale) era spesso mortale per gli indigeni che non lo avevano mai conosciuto e per il quale, dunque, non avevano difese biologiche.
«Le pressioni ebraiche attraverso i media e le proteste di cattolici impegnati nel dialogo con l'ebraismo hanno avuto successo. La causa di beatificazione della regina di Castiglia, Isabella la Cattolica, ha ricevuto in questi giorni uno stop improvviso (...). La preoccupazione di non scatenare le reazioni degli israeliti, già irritati per la beatificazione dell'ebrea convertita Edith Stein e per la presenza di un monastero ad Auschwitz, ha favorito la decisione di una "pausa di riflessione" circa il prosieguo della causa della Serva di Dio, titolo cui Isabella I di Castiglia ha già diritto».
Così, in un articolo su il «Nostro Tempo», Orazio Petrosillo, informatore religioso de «il Messaggero». Petrosillo ricorda che lo stop vaticano è giunto malgrado ci sia già stato il giudizio positivo degli storici, basato su un lavoro di vent'anni che ha prodotto un totale di 27 volumi. «In tutto questo immenso materiale» dice il postulatore della causa, Anastasio Gutiérrez «non si è trovato un solo atto o detto della regina, sia pubblico che privato, che si possa dire in contrasto con la santità cristiana». Padre Gutiérrez non esita a definire «codardi quegli ecclesiastici che, intimoriti dalle polemiche, rinunciassero a riconoscere la santità della regina». Eppure, conclude Petrosillo, «l'impressione è che difficilmente la causa arriverà in porto».
Non si tratta di una notizia confortante: ancora una volta (per restare alla Spagna, Paolo VI - lo vedemmo - aveva bloccato la beatificazione dei martiri della guerra civile) si è creduto che le ragioni del quieto vivere fossero in contrasto con quelle della verità. La quale, in questo caso, è attaccata, con una virulenza che non rifugge dalla diffamazione, non solo dagli ebrei (cui, negli anni di Isabella, fu revocato il diritto di soggiorno nel Paese), ma anche dai musulmani (scacciati dal loro ultimo possesso in terra spagnola, a Granada), e infine da tutti i protestanti e gli anticattolici in genere, da sempre imbestialiti quando si parla di quella vecchia Spagna i cui sovrani avevano diritto al titolo ufficiale di Reyes católicos. Titolo che presero talmente sul serio che una secolare polemica identificò ispanismo e cattolicesimo, Toledo e Madrid con Roma.
Per quanto riguarda l'espulsione degli ebrei, sempre si dimenticano alcuni fatti: come quello che, già ben prima di Isabella, i sovrani di Inghilterra, Francia, Portogallo avevano preso la stessa misura, e tanti altri Paesi la prenderanno, per giunta senza quelle giustificazioni politiche che spiegano il decreto spagnolo, che pur fu un dramma per entrambe le parti.
Occorre ricordare (e già ne parlammo), che la Spagna musulmana non era affatto quel paradiso di tolleranza che hanno voluto dipingerci e che, assieme ai cristiani, anche gli ebrei subirono in quei luoghi periodici massacri. E' però più che provato che, dovendo scegliere tra due mali - Cristo o Maometto - gli israeliti parteggiarono sempre per quest'ultimo, agendo da quinta colonna a svantaggio dell'elemento cattolico. Da qui, un odio popolare che, unendosi al sospetto per coloro che avevano formalmente accettato il cristianesimo pur continuando in segreto a praticare l'ebraismo (los marranos), portò a tensioni che spesso degenerarono sanguinosamente in «matanzas» spontanee e continue alle quali le autorità cercavano invano di opporsi. L'ancora malfermo Regno, appena nato da un'unione matrimoniale tra Castiglia e Aragona, non era in grado di sopportare né di controllare una simile, esplosiva situazione, minacciato com'era - per giunta - da una controffensiva degli arabi che contavano sui musulmani, a loro volta spesso fintamente convertiti.
Alla pari di quanto avveniva in tutti i Regni dell'epoca, anche in Spagna la condizione giuridica degli ebrei era quella di "stranieri", temporaneamente ospitati senza diritto di cittadinanza. E di ciò anche gli israeliti erano perfettamente consapevoli: la loro permanenza era possibile sino a quando non avessero messo in pericolo lo Stato. Ciò che a parere non solo dei sovrani, ma anche del popolo e dei suoi rappresentanti si sarebbe a un certo punto verificato, a causa delle violazioni della legalità sia degli ebrei restati tali che di quelli solo formalmente convertiti e per i quali Isabella ebbe a lungo «una speciale tenerezza», tanto da mettere nelle loro mani quasi tutta l'amministrazione finanziaria, militare e persino ecclesiastica. Pare però che i casi di "tradimento" fossero divenuti così diffusi da non potere più permettere una simile situazione.
In ogni caso, come scrive la Postulazione della causa di santità di Isabella, «il decreto di revoca del permesso di soggiorno agli ebrei fu strettamente politico, di ordine pubblico e di sicurezza dello Stato: non ci si consultò affatto con il papa, né interessa alla Chiesa il giudizio che si voglia emettere al proposito. Un eventuale errore politico può essere perfettamente compatibile con la santità. Quindi, se la comunità israelitica di oggi volesse fare qualche querela, dovrà presentarla alle autorità politiche, ammesso che quelle attuali siano responsabili dei predecessori di cinque secoli fa».
Aggiunge la Postulazione (la quale, non si dimentichi, ha lavorato con metodi scientifici, con l'aiuto di una quindicina di ricercatori che, in venti anni, hanno esaminato oltre 100.000 documenti negli archivi di mezzo mondo): «L'alternativa, l'aut-aut "o convertirsi o uscire dal Regno", che sarebbe stata imposta dai Re Cattolici è una formula semplicistica, uno slogan volgare: nelle conversioni non ci si credeva più. L'alternativa proposta durante i molti anni di violazioni politiche della stabilità del Regno fu: "O cessate dai vostri crimini o dovrete uscire dal Regno"». A ulteriore conferma sta la precedente attività di Isabella in difesa della libertà di culto ebraica contro le autorità locali, con l'emanazione di un «seguro real» nonché con l'aiuto nell'edificazione di molte sinagoghe.
Significativo, comunque, che l'espulsione sia stata particolarmente consigliata dal confessore reale, quel diffamatissimo Tomàs de Torquemada, primo organizzatore dell'Inquisizione, il quale era però di origine ebraica. E significativo pure (a mostrare quanto la storia sia sempre complessa) che, allontanati dai ''Re cattolici'', seppure sotto la spinta popolare e per ragioni politiche anche di legittima difesa, le più ricche e influenti famiglie ebraiche chiesero e ottennero ospitalità al solo che gliela concedesse volentieri, sistemandoli nei suoi territori: il Papa... E può sorprendersi di ciò solo chi ignori che la Roma pontificia è la sola città del Vecchio Continente dove la comunità ebraica abbia avuto alti e bassi a seconda dei papi ma non sia mai stata espulsa, anche solo per breve tempo. Occorrerà attendere il 1944 e l'occupazione tedesca per vedere - più di 1600 anni dopo Costantino - gli israeliti dell'Urbe razziati e costretti alla clandestinità: e coloro che scamparono lo dovettero in maggioranza all'ospitalità concessa da istituzioni cattoliche, Vaticano in prima linea.
Ma la strada verso gli altari è preclusa a Isabella anche da coloro (numerosi, oggi, anche tra i cattolici) che hanno finito per accettare acriticamente quella «Leyenda negra» di cui abbiamo cominciato a parlare e che ci impegnerà ancora. Alla sovrana e al consorte, Ferdinando di Aragona, non si perdona di avere dato inizio a quel Patronado, negoziato col Papa, con cui si impegnavano all'evangelizzazione delle terre scoperte da Cristoforo Colombo, la cui spedizione avevano finanziato. Sarebbero i due «Reyes católicos», insomma, gli iniziatori del genocidio degli indios, compiuto brandendo da una parte una croce e dall'altra una spada. E coloro che sfuggirono al massacro sarebbero stati ridotti in schiavitù. Ma, anche qui, la storia vera ha cose diverse da dire rispetto alla leggenda.
Sentiamo, ad esempio, Jean Dumont: «La schiavitù per gli indiani è esistita, ma per iniziativa personale di Colombo, quando aveva i poteri effettivi di vice-re delle terre scoperte: dunque nei soli, primissimi stanziamenti nelle Antille, prima del 1500. Contro questa schiavitù degli indigeni (Colombo ne inviò molti in Spagna, nel 1496) Isabella la Cattolica reagì come aveva reagito facendo liberare, sin dal 1478, gli schiavi dei coloni nelle Canarie. Fece dunque riportare nelle Antille gli indios e li fece liberare dal suo inviato speciale, Francisco de Bobadilla il quale, per contro, destituì Colombo e l'inviò prigioniero in Spagna per i suoi abusi. Da allora, la politica adottata fu ben chiara: gli indiani sono uomini liberi, soggetti come gli altri alla Corona e devono essere rispettati come tali, nei loro beni come nelle loro persone».
E chi sospettasse che il quadro sia troppo idillico, leggerà utilmente il "codicillo" che, tre giorni prima di morire, nel novembre del 1504, Isabella aggiunse di suo pugno al testamento e che così, testualmente, dice: «Poiché, dal tempo in cui ci furono concesse dalla Santa Sede Apostolica le isole e terra ferma del mare Oceano, scoperte e da scoprire, la nostra principale intenzione fu di cercare di indurre i popoli di esse alla nostra santa fede cattolica e inviare là religiosi e altre persone dotte e timorose di Dio per istruire gli abitanti nella fede e dotarli di buoni costumi e porre in ciò lo zelo dovuto; per questo supplico il Re, mio signore, molto affettuosamente, e raccomando e ordino alla principessa mia figlia e al principe suo marito, che così facciano e compiano e che questo sia il loro principale fine e che in esso impieghino molta diligenza e che non consentano che i nativi e gli abitanti di dette terre acquistate e da acquistare ricevano danno alcuno nelle loro persone o beni, ma facciano in modo che siano trattati con giustizia e umanità e se alcun danno hanno ricevuto lo riparino».
E' un documento straordinario, che non trova alcun riscontro nella storia "coloniale" di alcun Paese. Eppure, nessuna storia è diffamata come questa che inizia da Isabella la Cattolica.
Bartolomé de Las Casas: è il nome che sembra inchiodare alle sue responsabilità la colonizzazione spagnola nelle Americhe. Un nome sempre tirato in campo, assieme alla più fortunata delle sue opere che ha un titolo che è già un programma: «Brevssima relaciòn de la destrucciòn de las Indias». Una "distruzione": se così uno spagnolo stesso, un frate domenicano, definisce la Conquista del Nuovo Mondo, come trovare argomenti che difendano quella impresa? Il processo non è forse chiuso, con definitivo verdetto negativo, per la colonizzazione iberica?
E, invece, no: non è affatto chiuso. Anzi, verità e giustizia impongono di non accettare acriticamente le invettive di Las Casas; per dirla con gli storici più aggiornati, è giunto il momento di farlo anche a lui una sorta dì "processo", a lui così furibondo nell'imbastirne ad altri.
Chi era, innanzitutto, Las Casas? Nacque a Siviglia nel 1474 dal ricco Francisco Casaus, il cui nome denuncia una origine ebraica. Alcuni studiosi, analizzando dal punto di vista psicologico la personalità complessa, ossessiva, "urlante", sempre bisognosa di puntare il dito contro dei "cattivi" di Bartolomé Casaus, divenuto padre Las Casas, si sono spinti addirittura a parlare di uno «stato paranoico di allucinazione», di una «esaltazione mistica con conseguente perdita del senso della realtà». Giudizi severi, difesi però da grandi storici, come Ramòn Menéndez Pidal.
E', questo, uno studioso spagnolo e, quindi, potrebbe essere sospettato di parzialità. Ma non è spagnolo, bensì statunitense di origini anglosassoni, docente di storia sudamericana in una università Usa, William S. Maltby che, nel 1971, ha pubblicato uno studio sulla "Leggenda nera", sulle origini del mito della crudeltà dei "papisti" spagnoli. Maltby, scrivendo tra l'altro che «nessuno storico che si rispetti può oggi prendere sul serio le denunce ingiuste e forsennate di Las Casas», conclude: «Tirando le somme, si deve dire che l'amore di questo religioso per la carità fu quantomeno maggiore del suo rispetto della verità».
Davanti a questo frate che, con le sue accuse, è all'origine della diffamazione della gigantesca epopea spagnola nel Nuovo Mondo, qualcuno ha pensato che (certo inconsciamente) giocassero anche le origini ebraiche. Quasi un emergere, insomma, dell'ostilità ancestrale contro il cattolicesimo, soprattutto di quello spagnolo, reo di avere allontanato gli israeliti dalla penisola iberica. Troppo spesso si fa storia dando per scontato che i suoi protagonisti si comportino sempre e solo in maniera razionale, non volendo ammettere (e proprio nel secolo della psicoanalisi!) l'influenza oscura dell'irrazionale, delle pulsioni nascoste ai protagonisti stessi. Può dunque ben darsi che neppure Las Casas sia sfuggito a un inconscio che (attraverso l'ossessivo diffamare i suoi connazionali, confratelli religiosi compresi) rispondesse a una sorta di occulta "vendetta".
Comunque sia, il padre di Bartolomé, quel Francisco Casaus, accompagnò Colombo nel suo secondo viaggio oltre Atlantico, fermandosi nelle Antille e dando conferma delle doti di abilità e di intraprendenza semitiche col crearsi una grande piantagione dove praticò quella schiavitù degli indios che, come abbiamo già visto, aveva contrassegnato il primissimo periodo della Conquista. E, almeno ufficialmente, quel periodo soltanto. Dopo gli studi all'università di Salamanca, anche il giovane Bartolomé parti per le Indie, dove raccolse la pingue eredità paterna, impiegando, sino ai 35 anni e oltre, quegli stessi metodi brutali che con tanto sdegno denuncerà in seguito.
Supererà, grazie a una conversione, questa fase, facendosi partigiano intransigente degli indios e dei loro diritti. Ascoltato dalle autorità della Madrepatria che, su sua insistenza, approveranno severe leggi di tutela degli indigeni, provocherà però un imprevisto "effetto perverso". Succederà infatti che i proprietari spagnoli, bisognosi di numerosa mano d'opera, non troveranno più conveniente utilizzare le popolazioni autoctone che qualche autore definisce oggi (rovesciando il luogo comune di crudeltà e arbitri) addirittura «sin troppo protette» e cominciarono a dar retta a quegli olandesi, inglesi, portoghesi, francesi che offrivano schiavi importati dall'Africa e catturati da arabi musulmani.
La tratta dei negri (colossale affare quasi interamente in mani islamiche e protestanti) interessò però solo marginalmente, quasi solo nelle isole dei Caraibi, le zone sotto dominio spagnolo. Basta viaggiare anche oggi in quelle regioni, restate, nella zona centrale e andina, a grande maggioranza india e, nella zona meridionale, tra Cile e Argentina, di popolamento quasi esclusivamente europeo: rari i neri, a differenza del Sud degli Stati Uniti, del Brasile, delle Antille inglesi e francesi.
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