Marzo 2020, come il resto del mondo, la città è sconvolta dalla pandemia di Covid-19. Mentre le strade sono deserte, all’interno di molti palazzi e di molte case inizia a ribollire un disagio profondo. Uno dei primi problemi ad emergere, senza aver mai trovato una soluzione definitiva, è quello dell’affitto. Molti e molte non sanno più come pagare. In via Serlio 6 c’è un vecchio palazzo appartenente a un’unica proprietaria, i cui appartamenti sono abitati soprattuto da studenti, musicisti, tatuatori, filmmaker, insegnanti, precarie e precari o partite iva, in grande difficoltà per la situazione creatasi. Michael Pretolini, regista, è uno di questi.

«Mi ero appena trasferito a Bologna, a fine gennaio del 2020, un mese prima che arrivasse la pandemia – ci racconta. Dopo due settimane dall’inizio del lockdown bussano alla mia porta due persone, Mariaelena e Daniele, spiegandomi che stavano raccogliendo adesioni per una richiesta di sospensione temporanea dell’affitto per il periodo emergenziale. Oltre ad accettare, sin da subito ho proposto di seguirli con la videocamera, sia perché poteva uscire qualcosa di interessante dal punto di vista documentaristico sia per difendere l’azione nel caso di problemi legali».

La proprietà non accetta la proposta e inizia così la lotta di Rent Strike Bolognina, avviata simbolicamente con l’esposizione di alcuni striscioni sul palazzo e una potente azione dimostrativa con musica e fumogeni dalle finestre per avvertire il quartiere. A prendere parte alla battaglia sono 13 appartamenti su 15 per un totale di una cinquantina di persone che per sei mesi, nonostante i ricatti, smettono di pagare l’affitto.

La notizia si sparge e diventa nota anche fuori dai confini italiani, ispirando molti altri movimenti simili in Italia e all’estero.

ll racconto si sviluppa nell’arco di un anno, tra assemblee, momenti di sconforto e riflessioni personali fino al raggiungimento di un sudatissimo accordo tra le parti mediato dalle istituzioni locali, che però non rappresenta una vittoria: «L’accordo – continua il regista – prevedeva il risarcimento delle sei quote di affitto che non avevamo pagato e il passaggio ad un contratto a canone concordato per un solo anno (!) che per noi significava una riduzione del 20% della quota mensile. Questo perché in quello stesso periodo il Comune si era impegnato a rimborsare dello stesso 20% tutti proprietari di immobili che avessero accettato il canone concordato. Nella pratica, quindi, loro non ci hanno perso nulla, anzi: subito dopo le spese condominiali sono stranamente triplicate senza giustificazioni. Una vera beffa che ha anche dimostrato anche tutta la problematicità di quel tipo di accordo comunale con i proprietari, a cui rimaneva comunque il coltello dalla parte del manico. Molti, infatti, non ci hanno provato nemmeno a convincerli. Altri, seguendo il nostro esempio, hanno preso coraggio, ottenendo qualcosa che però nel nostro caso è durato poco. In tutto questo la proprietaria non si è mai fatta vedere, l’unica nostra referente era una procuratrice incaricata da sempre di ritirare mensilmente gli affitti».

E oggi com’è messo il palazzo? Che ne è stata di quell’esperienza? «La cosa interessante è che si è creata una comunità compatta, dei grandi legami d’amicizia. Io però a un certo punto ho deciso di trasferirmi perché non ne potevo più di dare soldi a certa gente. E a chi è rimasto hanno smesso di rinnovare il contratto, cacciando via man mano tutti quelli che avevano aderito allo sciopero».

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