Di Ruggiero Capone, ilpensieroforte.it

L’Italia di oggi è un paese totalmente bloccato, soprattutto dal punto di vista economico, quindi produttivo. In Italia tutto è difficile e complicato, e la maggior parte delle persone non sa spiegarsi queste catene, non comprendendo le ragioni d’una condanna che potrebbe pesare in eterno sullo Stivale. Il riverbero della situazione di prigionia lo si avverte in agricoltura, in chimica, nell’estrattivo, nell’energetico, nel bancario. La sfilza d’impedimenti alla libertà di movimento è infinita. E negli anni s’aggiungono sempre nuovi strumenti tesi ad immobilizzarci. Perché è questo storicamente il destino d’una qualsiasi colonia: ovvero un territorio sfruttato da potenze imperialiste, dove s’impedisce qualsivoglia scelta ai popoli colonizzati.

Nata male, l’Italia ha cercato d’affrancarsi nel tempo dai ricatti di Londra: ricatti ma anche affari che la Corona sabauda faceva alle spalle dei contribuenti italiani, come nel caso dell’accordo segreto sul petrolio libico, e mentre spacciavano il paese africano come uno “scatolone di sabbia”. Ma la situazione divenne veramente asfittica con la firma il 10 febbraio del 1947 del trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate. Lo appellarono “trattato di pace” tra lo Stato italiano e le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale, nei fatti si trattava d’acconsentire a porre lo Stivale sotto una pressa che, lentamente, avrebbe paralizzato la nostra Patria, riducendola al ruolo inerte di portaerei Usa nel Mediterraneo. In quel contratto gli Usa, la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e i Paesi Bassi hanno posto le basi delle future pretese, che oggi sono insostenibili, ed imprigionano l’Italia al pari d’un antico prigioniero a cui si legano mani e piedi prima dello squartamento sulla pubblica piazza.

L’allora capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, subito dichiarava di non condividere il testo del trattato e, da buon giurista d’antica scuola napoletana, si rifiutava d’apporre la propria firma: ebbe ad usare la scusa che “come dichiarato dal rappresentante italiano Antonio Meli Lupi di Soragna, l’efficacia dell’adesione dell’Italia necessita venga subordinata alla ratifica da parte dell’Assemblea Costituente e non del Capo provvisorio dello Stato”. Una doccia fredda che i democristiani (il gabinetto di De Gasperi) s’aspettavano e, diplomaticamente, spiegavano a De Nicola che “i ‘quattro grandi’ (soprattutto Usa e GB) non avrebbero accettato nulla di meno della firma del Capo dello Stato per la ratifica dell’accordo”. De Nicola, più che adirato, lanciava in aria tutti i documenti dalla sua scrivania, convinto che quel contratto avrebbe col tempo impedito all’Italia ogni movimento economico, industriale, produttivo. Comunque, tra lusinghe, minacce e superstizioni (la firma venne richiesta di venerdì) il capo provvisorio apponeva la propria firmetta. Da quel giorno la libertà italiana d’impresa è sempre stata subordinata e condizionata alle esigenze economiche e militari di Usa, Gran Bretagna e Francia. Così la Francia in nome di quel contratto ci sta continuamente erodendo il territorio nazionale.

Parimenti Londra opera una continua ingerenza nei nostri affari finanziari e commerciali: l’esempio da manuale è la riunione sullo Yacht Britannia del 2 giugno 1992, orchestrata dagli 007 finanziari londinesi ed Usa, per varare la caduta della Prima repubblica e le privatizzazioni. Per non parlare delle centoventi basi militari Nato ed Usa in Italia. Quindi, oltre alle restrizioni generali di carattere militare (articolo 51 del Trattato: all’Italia è stato vietato di non possedere, acquistare, costruire o sperimentare armi atomiche, missili o proiettili ad autopropulsione e relativi dispositivi di lancio) l’Italia subisce per quel trattato le continue ingerenze in campo estrattivo petrolifero, energetico, chimico e finanziario.

Ingerenze che pian pianino si nono allargate anche alla difesa degli interessi delle multinazionali angloamericane: non possiamo dimenticare che l’omicidio del petroliere Enrico Mattei è stato commissionato alla mafia dai servizi segreti Usa, perché il manager italiano aveva tramite l’Eni invaso territori d’interesse delle “Sette Sorelle” (petrolieri angloamericani); come non possiamo dimenticare la morte nel 1979 di Serafino Ferruzzi, reo d’aver vinto su aziende Usa alla borsa di Chicago, e nemmeno di Raul Gardini e Gabriele Cagliari che sono stati suicidati nel 1993 prima che realizzassero l’Enimont, portando Eni e Montedison a mettere al palo le multinazionali occidentali chimico-energetiche. Oltre al Trattato di Parigi, pesano sull’Italia anche gli accordi presi con l’Unione Europea in tutti i settori. Anzi, si può agevolmente sostenere che l’Ue ha raddoppiato le catene già imposte dal Trattato di Parigi del 1947.

Si stenta a credere che governi di destra, sinistra e centro, tutte fotocopie l’uno dell’altro, possano rimuovere i vincoli; e nemmeno mostrare il coraggio di rinegoziarli. L’Italia di oggi è come l’Ucraina di Zelensky, ovvero un territorio che potrebbe essere usato anche in funzione d’un conflitto nel Mediterraneo, oppure ampliando il deposito di munizioni per l’imminente conflitto. La Lega di Salvini cerca d’opporsi, d’invitare la maggioranza a ragionare, ma Giorgia Meloni ha risposto che per la guerra s’atterrà agli ordini Nato, mentre per i problemi lavorativi degli italiani il governo obbedirà alle norme Ue.



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